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Autore: BurningIce    17/02/2014    0 recensioni
Anya Gold viene sbalzata in un mondo ostile e pericoloso, sull'orlo del caos, dove ogni luogo, anche quello più caro, non è quello che sembra.
Dovrà affrontare una lotta contro il tempo per scoprire perché ha acquisito l'inverosimile potere di sparire da un luogo e riapparire dovunque la sua mente la porti e dare una risposta agli altri inquietanti interrogativi.
Chi ha ucciso sua nonna? Come mai un misterioso ragazzo le telefona decine di volte al giorno?
E, soprattutto, perché sembra essere ricercata da mezza Londra?
Sceglierà di fidarsi dell'unica persona a cui non avrebbe mai pensato di affidare la sua stessa vita: Alexander Syle, compagno di scuola nonché figlio di una delle più potenti donne d'affari della City.
E mai scelta potrà essere più sbagliata di questa.
“Possedere una Forza è un privilegio, controllarle tutte significa potere assoluto."
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1 - Ghiaccio





17 Ottobre 2013, tre ore prima della fuga, Harbour Hill


Anya aprì gli occhi di scatto. Un debole raggio di sole filtrava dagli scuri della finestra, illuminando fiocamente la minuscola stanza. In quel momento, realizzò che era arrivata la mattina e che – forse – era giunto il momento di alzarsi. Con un enorme sforzo, si alzò sui gomiti per guardare l’orologio. Le sette, che orario disumano. Poco male, poteva dormire ancora un po’… magari solo dieci minuti.

«Oh, diamine» Anya si tirò su di botto, constatando che forse non erano passati solo dieci minuti. Magari potevano essersi fatte le otto. Magari era in ritardo, per l’ennesima volta.
E quel dannatissimo stivale non riusciva ad entrarle. Corse fuori dalla stanza, si fiondò in cucina e salutò sua nonna frettolosamente. Sylvia Gold era una donna dall’aria dolce e decisa al tempo stesso, con un enorme paio di occhi neri davanti ai quali era impossibile mentire.

«Hai visto che ore sono?» Sbraitò, alzando gli occhi al cielo.
«Non so, non molto tardi, credo» Anya mentì con disinvoltura, pur sapendo benissimo che avrebbe dovuto far tutta la strada di corsa a causa del suo ritardo cronico.
«Non molto tardi?» Chiese scettica sua nonna, col tono di voce più pericoloso del suo repertorio. Anya annuì distrattamente, correndo verso la cucina per afferrare al volo qualcosa da mangiare. Lo zaino ai piedi del tavolo era ancora vuoto.
«Hai dimenticato i libri» Le fece notare Sylvia, esasperata. Poi, come se si fosse ricordata di un dettaglio particolarmente importante, aggiunse:
«I libri sono i tesori più preziosi di un uomo.» 
La ragazza ricordò che una volta, parecchi anni prima, le aveva chiesto cosa intendesse. Sua nonna si era limitata a rispondere che il loro valore stava nell’enorme conoscenza che custodivano. La risposta a ogni cosa, a suo parere, si poteva trovare tra le pagine dei suoi vecchi volumi. In quel momento, molto meno bambina e molto più disincantata, Anya si limitò a sbuffare.

«Anya» La voce della donna era cambiata. 
Adesso era più seria, quasi preoccupata. Anya si voltò con un altro sbuffo, temendo uno dei suoi soliti scatti di apprensione.

«Anya, sta’ attenta» Disse la donna, andandole incontro a passo svelto, e in quel momento le parve invecchiata di altri dieci anni.
«Sta’ attenta» ripetè, mentre le posava le mani sulle spalle.
«Nonna, sto semplicemente andando a sc…» Anya provò a rassicurarla, ma Sylvia la interruppe, ancora più preoccupata di prima.
«Anya, devi ascoltarmi. Non devi fidarti di nessuno. Di nessuno.» Sussurrò, guardandola negli occhi.
Anya avvertì che c’era qualcosa di diverso, in quel suo avvertimento; non era la semplice inquietudine di una nonna iperprotettiva. Eppure non lo prese troppo sul serio, pensando che forse sua nonna aveva dormito poco, o che era particolarmente stanca. Decise di rimanere semplicemente in silenzio, non sapendo cosa dire.

«Un giorno capirai. E quando avrai bisogno di me, di casa, di spiegazioni, torna qui. Ovunque tu sia.» Adesso cominciava seriamente a non capire. E a innervosirsi.
Stava parlando di un suo ipotetico allontanamento, forse del momento in cui sarebbe andata al college. Ma la situazione non le sembrava così drastica come la dipingeva.

«Spero che quel giorno non arrivi…» Sylvia Gold aveva l’aria di chi sa che qualcosa accadrà inevitabilmente, ma non ha ancora smesso di sperare. La accompagnò al portone senza smettere di guardarla.
«Nonna, tranquilla» Mormorò Anya, prendendole le mani. «Sai che di me puoi fidarti»
Diede una rapida occhiata all’orologio; era tardi, troppo tardi.
Su nonna fece un sorrisino triste, e le disse quella frase ripetuta così tante volte, ma che adesso aveva un suono nuovo:

«So che di te posso fidarmi, tesoro. Sono gli altri, il problema. Abbi cura di te, Anya. Ti voglio bene.»

Anya annuì, disorientata, lasciò le mani della nonna e spalancò il portone, subito investita dalla gelida aria autunnale inglese. Si voltò con un ultimo sorriso rassicurante e richiuse la porta dietro di sé, mentre finalmente anche Sylvia accennava a sorridere.
Non sentì bene quello che le diceva mentre usciva dalla casa, troppo impegnata a infilare nella borsa il suo pranzo, spingere il portone e finire di chiudere la cerniera dello stivale, il tutto senza inciampare.

«Sì, nonna, ci vediamo dopo» Borbottò, anche se ormai nessuno poteva sentirla. Sistemò meglio la tracolla sulle spalle e si lanciò in una corsa disperata verso l’autobus.
Il paesino desolato in cui viveva era composto in tutto da una cinquantina di famiglie e lei era l’unica a frequentare ancora una scuola. Ciò comportava la totale mancanza di mezzi di trasporto e, di conseguenza, la sua quotidiana sfacchinata per arrivare a prendere lo sgangherato bus interurbano che la scuola metteva a disposizione.

Quando riuscì finalmente a lasciarsi cadere sul sedile polveroso, si sentì quasi trionfante. Ignorò gli sguardi degli altri passeggeri, provenienti da cittadine vicine, e sospirò. Ce l’aveva fatta anche quella mattina. Sprofondò in una sorta di dormiveglia fatto di sogni disordinati e assurdi, in cui non riusciva a scendere dall’autobus o non sentiva sua nonna dire qualcosa di estremamente importante…
La frenata del bus la fece svegliare di botto. Si unì distrattamente alla fila di ragazzi che scendevano dall’autobus, ancora frastornata, e non fece molto caso agli occhi della donna alla guida, che la fissavano con insistenza. In realtà, non si curava tanto della gente. Era abituata a mantenere un basso profilo, senza dare troppo nell’occhio: non le piacevano i pettegolezzi e non le piaceva la gente che frequentava il suo liceo. O almeno avrebbe voluto rimanere in disparte: il suo carattere facilmente infiammabile la faceva sempre finire in mezzo a qualche lite e, inevitabilmente, al centro dell’attenzione.
Passò tra gli altri studenti senza guardare nessuno, per non guastarsi l’umore già alla prima ora, eppure non poté evitare di sbirciare per qualche secondo un ragazzo alto, dagli inconfondibili occhi verdi, appoggiato con nonchalance alla portiera di una decappottabile grigia. Lo faceva più o meno tutti i giorni, quasi inconsciamente. La cosa divertente era che, nonostante lo trovasse innegabilmente attraente, nutriva nei suoi confronti una specie di antipatia gratuita – e ingiustificata, dato che non ci aveva mai scambiato una parola. Essere l’unico del liceo ad appartenere ad una famiglia piuttosto facoltosa gli dava un eccezionale potere sulle ragazze: ne era consapevole e non perdeva tempo a vantarsene. Fortunatamente, non avevano mai avuto occasione di incontrarsi e Anya non aveva potuto esternare la profonda simpatia che provava nei suoi confronti. Quel giorno, però, era destinato ad essere insolito fin dal primo momento in cui mise piede nell’aula di matematica, quando una malaugurata coincidenza le fece alzare lo sguardo in direzione della prima fila di banchi.

Incontrò quello altezzoso di Alexander Syle; i suoi occhi verdi la squadrarono, impenetrabili, per un attimo. Poi si voltò verso l’amico con il quale stava discutendo prima dell’incidente e non la degnò della minima considerazione. Anya odiava essere ignorata. La faceva sentire piccola e insignificante – cosa che lei decisamente non era. Con uno spintone assolutamente volontario, si fece spazio e prese posto al secondo banco. Né primo né ultimo. Neutro.
Sophie non era ancora arrivata; strano, considerando che la ritardataria, di solito, era lei. Nemmeno sua madre, la professoressa Cassidy, una donna che le aveva sempre ispirato perfezione sotto tutti i punti di vista, si era fatta vedere. Altrettanto strano. Sophie era la sua migliore amica e si fidava ciecamente di lei, ma c’era qualcosa in sua madre che non andava. Qualcosa che la faceva rabbrividire al solo pensiero di guardarla. Per questo, nella sua materia, si limitava semplicemente a non eccellere, ma non raggiungeva mai l’insufficienza. Gli studenti così sono sempre dimenticati: si ricordano i migliori ed i peggiori. E lei non voleva essere ricordata dalla professoressa Cassidy.
Il suo sguardo vagò in giro, alla ricerca di occhi-verdi. Sembrava essere sparito insieme al suo amico; erano sicuramente invischiati in qualche losco affare che coinvolgeva sostanze poco legali o ragazze poco serie.
Quando la Cassidy entrò in classe, un silenzio tombale piombò tra gli studenti, comprese le due pettegole alla sua sinistra – da evitare, assolutamente da evitare. Le sembrò che lo sguardo glaciale della donna si posasse proprio su di lei, ma preferì fingere che fosse stata solo una sua impressione. Ad un’attenta occhiata, notò che non era perfetta come al solito. Il suo abito era leggermente sgualcito, aveva un taglio sulla guancia coperto alla buona da una dose eccessiva di fondotinta e lo chignon pendeva leggermente verso destra. La porta si spalancò, mentre Syle e l’amico entravano, trafelati. Erano rimasti solamente due banchi e – fatalità – ce n’era uno vuoto alla sua destra. Anya sperò – temette – che occhi-verdi si sedesse vicino a lei. Ma questo non successe. Il suo amico, un ragazzo piuttosto insignificante mai notato prima, prese posto accanto a lei senza degnarla di uno sguardo.
Stranamente, la Cassidy non li rimproverò. A dire il vero, sembrava pensierosa, concentrata su altro. Non si sedette, né inforcò gli occhiali lentamente, come era solita fare. Il suo sguardo si posò nuovamente su di lei. E questa volta sapeva che non era stata una semplice impressione. Sapeva che stava succedendo qualcosa di strano.


«Anya Gold?» Chiese, come se non ricordasse nemmeno il suo cognome.
Magari voleva informarla di qualcosa che era successa a Sophie, si disse, con un certo nervosismo. Si accorse che il cuore le batteva a mille. Lei non aveva mai avuto paura di nessuno, e adesso una stupida professoressa la terrorizzava fino a quel punto per un motivo a lei ignoto.

«Anya Gold!» Ripetè la Cassidy, glaciale. Anya alzò la testa di scatto, cercando di sostenere il suo sguardo.
«Sì?» Rispose, il più gentilmente possibile. La classe non fiatava, ma nessuno sembrava preoccupato quanto lei.
«È pregata di seguirmi.» Sentenziò, perentoria, e si diresse verso la porta senza nemmeno attendere una risposta. Anya sapeva che alzarsi e seguirla era sbagliato, e pericoloso, eppure non aveva altra scelta. Le ritornarono in mente le parole di sua madre, ma ripensarci era assolutamente ridicolo. Era in una scuola, con una professoressa, al sicuro. Così, cercando di controllare l’ansia crescente, si alzò e uscì dall’aula.
Il rumore dei tacchi della Cassidy riecheggiava per i corridoi deserti, inquietante. E Anya non potè fare a meno di chiedere, con un tremito nella voce, dove stessero andando.

«La Preside vuole vederti» Rispose la donna, senza voltarsi, accelerando il passo. Anche lei sembrava nervosa, anche se non voleva darlo a vedere. Continuava a toccare lo chignon, cercando invano di aggiustarlo.
Aprì una porta alla fine della lunga fila di armadietti, una porta che Anya non aveva mai notato. Era piccola, bianca, insignificante. Lo studio della Preside era dall’altra parte della scuola. Anya sentì l’improvviso impulso di scappare, ma le sue gambe sembravano non obbedirle. Esitò, prima di entrare nello stretto corridoio davanti a lei. La porta si chiuse alle sue spalle con un cigolio sinistro, e seppe che – in quel momento più che mai – niente stava andando bene. Che niente era perfettamente nella norma. E che sua nonna, forse, quella mattina, le aveva detto qualcosa di importante a cui lei non aveva badato.
Si trovava in un corridoio stretto e dal soffitto basso, quasi completamente buio, rischiarato solo da qualche neon mal funzionante. Sul pavimento, gli strati di polvere lasciavano presagire che nessuno ci mettesse piede da anni. Schivò una ragnatela di grandezza impressionante e mosse qualche passo incerto. Adesso l’impulso di scappare era più forte che mai; d’altronde, la porta era piuttosto vicina. E qualcosa le diceva che quella porta era la sua unica speranza di andare via da quel posto. No, decisamente quella non era la strada per l’ufficio della preside.
All’improvviso, il rumore dei passi cessò. La Cassidy si voltò verso di lei, con un’espressione inquietante che non aveva niente a che vedere con quella che usava durante le interrogazioni. Indietreggiò di qualche passo e sentì l’ansia impadronirsi di lei. La Cassidy si mosse lentamente nella sua direzione, poi scoppiò in una risata amara.

«Sapevo che c’era qualcosa di strano, in te» Sussurrò.
«L’ho sempre saputo. Fin dal tuo primo giorno qui. Puoi negarlo quanto vuoi, Anya» Il suo nome pronunciato da quella donna la scosse nel profondo.
«Ma sappi che non riuscirai mai a scappare. Io so.»
Anya non sapeva a cosa si riferisse. Aveva solo una voglia disperata di uscire da quel dannato corridoio oscuro. Incespicò nei suoi stessi passi e si appoggiò ad una parete. Era pietra; probabilmente, quel luogo non faceva affatto parte della sua scuola.
«Dove siamo?» Domandò, cercando di mantenere un tono di voce ferma. «Questo non è l’ufficio della Preside» Mormorò, sentendosi piuttosto sciocca per quella affermazione così ovvia.
Il sorriso della Cassidy si allargò a dismisura. Con uno scatto felino, si avventò su di lei e la intrappolò al muro. Anya si divincolò, ma la forza della donna era fuori dal comune.


«Dimmi dov’è» Le intimò, riferendosi ancora a qualcosa totalmente estraneo ad Anya. Sgranò gli occhi, tentando disperatamente di allentare la stretta della professoressa intorno al suo collo. Le mancava il fiato. All’improvviso, ricordò l’espressione di sua nonna, quella mattina, quando le aveva detto di non fidarsi di nessuno. Aveva preso quelle parole alla leggera, e adesso si ritrovava in un corridoio di pietra, con delle mani gelide strette al suo collo.
Quando la presa si allentò, velocemente com’era arrivata, Anya si accasciò a terra e tossì, appoggiandosi con le mani ad un pavimento coperto da uno spesso strato di polvere. La Cassidy rise ancora, una risata folle e isterica che rimbombò tutt’attorno, spettrale.

«Tu non ne sai niente» Sussurrò, torreggiante sopra di lei. «Non te lo ha detto»
Dirle cosa? A chi si stava riferendo? Si era sbagliata di grosso quando aveva immaginato che il peggio che potesse farle era interrogarla alla lavagna su un argomento non contemplato nel programma. Alzò lo sguardo infondendovi quanta più fierezza le rimaneva e poi mentì spudoratamente.
«Ti sbagli»
La Cassidy sussultò.
«Allora non sarà un problema per te dirmi dove si trova»
Doveva prendere tempo. Mentire, mentire ancora e ancora.
«Londra.» Si lasciò sfuggire, sperando di essere abbastanza credibile. Era stata la prima parola che si era affacciata alla sua mente confusa.
«Questo lo sapevo già» Ribatté la donna con aria trionfante. Anya si ritrasse istintivamente verso il muro.
«Il tuo informatore è stato preciso» Affermò disperatamente la ragazza, pur non sapendo di cosa stesse parlando. Un nuovo sorriso della Cassidy le fece venire la pelle d’oca.
«Non aveva scelta. Ma la sua lealtà è stata sorprendente.» Si abbassò leggermente verso di lei, le mani sulle ginocchia, gli occhi scintillanti di pura follia dietro le lenti degli occhiali.
«Ho dovuto ridurlo in fin di vita prima che mi desse il nome di Sylvia Gold.» Sua nonna. Anya realizzò con immenso orrore che mentre lei era bloccata nel corridoi, l’unica persona al mondo a cui tenesse più della sua stessa vita era in pericolo. Forse poteva anche essere… no, non può essere.
Nonna è forte, niente le può far male.


Pensa, Anya, pensa. Pensa. Afferrò inspiegabilmente  il ricordo della scena che aveva visto qualche giorno prima in un film. Una foresta innevata da qualche parte nel Nord Europa, lontana miglia e miglia da Londra, senza nessun collegamento con il discorso che stava sostenendo a fatica. La Cassidy si abbassò ancora di più e colse lo scintillio metallico di un pugnale nel polso della professoressa. I battiti del suo cuore aumentarono e la vista le si appannò. E in un attimo il corridoio si dissolse, esplodendo in mille piccoli puntini grigi, e la Cassidy e Anya furono sbalzate via verso l’ignoto, accompagnate solo dall’eco della debole imprecazione della donna.
 
Neve. Neve tutt’intorno. Bianca, scintillante, nel piano desolato. Sembrava che Anya si trovasse in un’altra dimensione, una dimensione in cui nient’altro esisteva oltre a lei e a quel candore disarmante. Il cielo, di un bianco-grigiastro inquietante, sembrava assorbirla. La sagoma immobile della Cassidy era a pochi centimetri da lei, ma sembrava stranamente inoffensiva. Forse era morta, pensò Anya con un brivido.
I cristalli di neve si scioglievano lentamente tra le sue mani. Non erano freddi, non le davano fastidio. Si impigliavano tra i suoi capelli scuri, sostavano sul suo viso, bagnavano i suoi vestiti. Ed entravano dentro di lei. Anya non capiva di preciso cosa stesse succedendo, ma sapeva che ancora una volta non c’era niente di normale in tutto ciò. Si guardò le mani, abbagliata dal candore circostante, e vide che anch’esse erano diventate abbaglianti. I cristalli di neve sembravano essere entrati a far parte di lei. Sentì qualcosa di nuovo scorrere nelle sue vene, qualcosa di potente e pericoloso. Poi, così com’era venuto, tutto andò via. Il bianco si trasformò in buio, buio nero e profondo, e Anya cadde in mezzo alla neve candida. Svenne e tutto quel mondo ultraterreno svanì lontano da lei.
 
*
 
 
Camden Town, Londra, Sala del Consiglio

Le Megere stavano silenziosamente riunite in cerchio nell’ampia stanza che un tempo doveva essere qualcosa di simile a una sala da ballo. L’unica in piedi, al centro esatto della sala, era una donna anziana dalla gobba pronunciata e dal naso aquilino e fremente. Parlava lentamente, come se le parole le costassero un enorme sforzo.

«Ho ragione di credere» Esordì, beandosi di tutta quell’attenzione. Anche la Prima la guardava con un’espressione rispettosa e interessata. Per una volta, pensò, poteva sentirsi superiore a lei. Lei, con la sua giovane età e la sua schiena dritta e i suoi capelli corvini.
«Ho ragione di credere che la quarta Forza sia esattamente in questa città.» Un basso mormorio concitato si diffuse tra le donne. Era esattamente la reazione che la vecchia si aspettava. Quello che non si aspettava, però, era la domanda scettica di una delle più giovani del gruppo. La odiava.
«E come fai a dire che si trova proprio sotto il nostro naso? Perché nessuno di noi l’ha ancora scoperto?» Sputò, passandosi una mano tra i capelli rossicci. Una donna dallo stretto chignon basso accennò un sorrisetto di consapevolezza. Era a Londra, era sempre stata a Londra. La ragazza non aveva mentito, allora, e nemmeno quell’insulso Custode che aveva dovuto eliminare. Certo, capire cosa fosse successo in quel corridoio le riusciva piuttosto difficile. Un attimo prima era in mezzo a una distesa innevata, subito dopo era stata sbalzata nel vicolo della Base, senza alcuna spiegazione logica.
Vi furono alcuni fuggevoli cenni d’assenso all’osservazione della ragazza, ma la donna continuò, prorompendo in una risata secca e spenta.

«Hai detto bene, ragazzina» Ignorò la smorfia della giovane. «è proprio sotto il nostro naso. Parecchi metri sotto il nostro naso, a dire il vero.»
Le voltò le spalle e fece qualche passo incerto e goffo. Indicò il pavimento ricoperto di preziosa ceramica i cui dipinti erano ormai grovigli di linee rese irriconoscibili dagli anni.

Alcune delle Megere si sporsero per vedere cosa stesse indicando l’anziana donna, ma non riuscirono a scorgere niente di speciale in quella mattonella sbeccata. Cominciavano a pensare che la vecchia fosse definitivamente impazzita.

«E pensare che la immaginavo diversa, la Quarta forza» Disse la ragazza dai capelli rossi.
«Certo, era imprevedibile pensare che fosse una mattonella.» Ghignò e qualcuna delle compagne vicine a lei la imitò. Ma la voce imperiosa della Prima Ingrid le fece gelare il sangue nelle vene.
«Quello che voleva dire Lidya, sciocca ragazzina» Non riuscì nemmeno a sentirsi oltraggiata perché l’avevano chiamata ragazzina due volte nel giro di pochi minuti. «è che la Forza si trova nella metropolitana di Londra. Sotto i nostri piedi. O i nostri nasi, come preferisci.»
Ingrid si avvicinò pericolosamente alla ragazza e i suoi capelli ondeggiarono, una scia di inchiostro nero e selvaggio.
«Noi prendiamo sul serio la nostra missione. Noi non accettiamo la stupidità e l’alterigia, nel nostro gruppo.»
La ragazza non riuscì a nascondere un’espressione incredula, visto che le riunioni erano un continuo sfoggio di superiorità nei confronti degli altri membri per preziose informazioni o nuove reclute. L’alterigia era il loro pane quotidiano.
Boccheggiò, incapace di rispondere. Ingrid schioccò pigramente le dita e la ragazza si ritrovò sbalzata via contro la parete. Frammenti di intonaco e polvere bianca caddero su di lei per la violenza dell’impatto. Si rialzò, tremante. Gli occhi delle Megere erano tutti puntati su di lei. Non era mai successo che qualcuno facesse infuriare Ingrid a tal punto. Nessuna era mai stata punita in qualche modo, anche perché si crogiolavano nell’illusione di essere tutte alla pari. In quel momento, metà della sala temeva per la vita della ragazza.

«Vai» Ringhiò Ingrid. «Vai e non tornare mai più. Non sei la benvenuta, qui»
La rossa cercò di obiettare, ma la sua voce sembrava sparita nel nulla. Si allontanò da Ingrid e corse verso la porta senza voltarsi indietro. Prima che la richiudesse, sentì la Prima pronunciare delle parole in una lingua che non conosceva e, senza sapere come, capì che se avesse detto a qualcuno delle Megere le conseguenze sarebbero state disastrose. Arrancò giù per le scale ed uscì dal portone il prima possibile. La luce fioca e tremula di un lampione malridotto proiettava strane ombre sulla strada lastricata e si ritrovò a rabbrividire di freddo. Alzò lo sguardo verso la finestra sbarrata dell’edificio da cui era appena uscita.
Dietro quegli scuri serrati la riunione continuava. Alcune lacrime di rabbia le solcarono le guance: aveva sprecato l’opportunità della sua vita. Era sola nel quartiere più pericoloso della città.
E, soprattutto, non aveva un posto dove andare. Si lasciò scivolare lentamente a terra, appoggiandosi al portone di legno.
Nascose il viso tra le mani e, per la prima volta nella sua vita, pianse.
 

«Tornerà» Spiegò Ingrid, melliflua. «Niente è più forte di una giovane in cerca di riscatto.»
Si sedette alla sua vecchia postazione con grazia e nessuno osò ribattere. L’anziana donna, risentita per quello spostamento di attenzioni, non poté trattenersi dal pensare che la ragazzina l’aveva meritato, ma che Ingrid si sbagliava su una cosa. Non sarebbe tornata, gliel’aveva letto negli occhi. Nel momento stesso in cui la Prima l’aveva scaraventata contro il muro, l’avevano persa.
Ingrid Newman non sapeva di aver fatto l’errore più grande che potesse commettere.


 
*

 
Anya si risvegliò nel corridoio buio, sudata e ansante. Si accorse solo in un secondo momento che il sottile strato liquido che le ricopriva il viso non era sudore, ma acqua. Guardandosi intorno, notò che la Cassidy era scomparsa. Andata, sparita, forse rimasta in quel luogo innevato dove erano state catapultate. Ma perché, allora, lei era tornata? Aveva gli occhi ancora pieni del bianco accecante che l’aveva circondata qualche istante. Gattonò cautamente sullo spesso strato di polvere, che si mischiò all’acqua sui suoi vestiti in una sorta di fanghiglia appiccicosa. Si rialzò con notevole fatica solo quando arrivò a toccare la superficie della porta. Si aggrappò alla maniglia come avrebbe fatto con un salvagente durante una tempesta in mare e tirò con forza verso il basso. Niente. Era bloccata. Il panico si impossessò nuovamente di lei. Tirò di nuovo, un’altra volta, e tante volte ancora. La maniglia si limitava a cigolare in modo sinistro, beffandosi dei suoi sforzi. Sconfitta e abbattuta, appoggiò la schiena alla porta, tanto per sentirsi più sicura. Anche se contro la Cassidy, che a quanto pareva era anche un’assassina piuttosto ferrata in materia di ricatti e torture, non avrebbe avuto scampo. Si sentiva debole, confusa e disorientata. Quella giornata aveva smesso di avere un senso già da molto, ma si ritrovò ancora una volta a chiedersi cosa diamine stesse succedendo quando la porta dietro di lei cedette di scatto. Non ebbe il tempo di arrestare la caduta, così si ritrovò ben presto distesa all’ombra di una figura fin troppo nota. Si sedette, sollevata di vedere di nuovo la luce. Certo, non era quella bianca e splendida del luogo misterioso, ma almeno sapeva di familiare. Di sicuro. Anya non aveva mai pensato che quella squallida scuola potesse anche solo ricordarle la parola casa, ma si dovette ricredere. Alzò gli occhi e ne incontrò due verdi e sorpresi almeno quanto i suoi.


«Gold?» Esclamò l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento, mentre era sporca di fango, tremante e sconvolta.
«Che ci facevi lì dentro?»
Bella domanda, pensò Anya. Il peso di quanto era successo le si riversò addosso come la neve di pochi secondi, minuti, o ore prima. Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma sentiva che, per l’ennesima volta, era troppo tardi. Non si trattava di un semplice ritardo a scuola, ma della vita di sua nonna.
«Syle!» Esclamò, notando nella propria voce una nota di urgenza e preoccupazione spaventosamente simile a quella di Sylvia mentre le intimava di stare attenta.
«Devi accompagnarmi a casa.» Le parole le sfuggirono prima che potesse pensare alle conseguenze. Syle era uno dei pochi studenti ad avere una macchina ad aspettarlo nel parcheggio e, nonostante l’immensa antipatia che provava nei suoi confronti, in quel momento era la sua unica speranza. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia bionde e inclinò la testa con una certa grazia che aveva qualcosa di infantile.
«Wow, Gold, frena!» Ridacchiò e la aiutò a rialzarsi, assumendo un’espressione falsamente seria.
«Se vuoi appartarti con me in macchina puoi dirlo chiaramente, non mi disp…»
Anya strattonò il braccio dalla sua presa e lo guardò dritto negli occhi verdi. Erano belli, constatò, profondi e opachi, occhi in cui affogare verso luoghi sconosciuti. Si rese conto che gli occhi del nemico erano l’ultima cosa a cui pensare in un momento come quello. La sensazione di pericolo che aleggiava nell’aria la opprimeva come un macigno.
La voce le uscì in un rantolo indistinto.

«N-non sto scherzando, Syle» Si allontanò velocemente dal ragazzo, diretta verso l’uscita.
«Seguimi» Aggiunse, quasi supplicante. «Ti prego»
Syle poteva anche essere spocchioso, arrogante e moderatamente idiota, ma capì immediatamente che Anya aveva bisogno di aiuto.
«Non lo faccio per te, sia chiaro. Non vedevo l’ora di uscire da questo posto» Rispose, ma Anya era già sparita oltre l’angolo lasciandosi dietro solo il rumore dei passi spediti che si allontanavano lungo il corridoio deserto, costeggiato dagli armadietti ammaccati e illuminato sommariamente. Spinto da un impulso che non sapeva spiegarsi, la seguì dopo un solo, piccolo attimo di esitazione.
Pochi minuti dopo stava mettendo in moto la Spider, incitato dalla voce nervosa della ragazza. Non le aveva fatto domande; sembrava troppo sconvolta per fornirgli qualsiasi tipo di risposta. Forse la risposta non la sapeva neppure lei. La fuoriserie traballò leggermente sul terreno irregolare del parcheggio, poi guizzò fluidamente nella strada con una curva magistrale quanto pericolosa. La donna alla guida dell’autobus distolse pigramente lo sguardo dal giornaletto di gossip che teneva in mano. La Cassidy le aveva raccomandato di tenere d’occhio la ragazzina che si era appena precipitata sulla macchina insieme al ragazzo biondo alla guida. L’autobus partì con una lentezza snervante, acquistò velocità e si lanciò all’inseguimento dell’auto. La donna imprecò a bassa voce quando si ritrovò imbottigliata in una coda al semaforo, prima di ricordarsi che quella era una questione della massima urgenza. Sterzò con forza a sinistra e oltrepassò le macchine che la precedevano e i loro clacson indignati, ignorando il semaforo rosso. Aveva scorto un baluginio argentato in lontananza; non aveva dubbi, era l’auto dei ragazzini. Accelerò ancora, portando il bus al massimo dello sforzo. La Spider grigia non aveva scampo. 




Beh, ecco... questa volta non sono stata tanto male. Cioè, ho aggiornato prima di un'altra glaciazione - anche se a giudicare dal clima milanese non si direbbe. 
Magari questo capitolo è un tantino noioso, perché abbiamo fatto un piccolo salto nel passato... ma, ehi, era necessario! Piano piano tutti i pezzi verranno a galla e scopriremo cosa sta succedendo a Anya e che fine ha fatto sua nonna. 
Tenete d'occhio Syle, è molto più di quel che sembra. Non è solo un ragazzino spocchioso, anzi! 
Ringrazio tantissimo chi mi segue, chi legge, e chi ha recensito, dedicandomi il suo prezioso tempo. 
Grazie ragazze, vi adoro! (Bess, che recensione che mi hai lasciato <3) 
Io scappo a dormire, un bacio immenso,
-Iv.

Dimenticavo!!!

Se volete, la mia pagina facebook è BurningIce Efp!
E ho creato un gruppo per fangirlare un po' su tutto, sapete? 
Eccolo: 
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