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Autore: Ghen    22/02/2014    2 recensioni
A Bonhem da anni scompaiono persone e non vengono più ritrovate. Le malelingue danno la colpa a Vassil, un ragazzo di quasi trent'anni che vive in una piccola casa su una collina. Dicono che è un vampiro, che ha gli occhi rossi e tutti hanno paura di lui; ma Vassil è un ragazzo gentile, educato e vive in abbandono per espiare le sue colpe. Nessuno conosce la sua vera storia.
Genere: Angst, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quelle urla gli rimbombavano nella testa.
Come ormai accadeva sempre, le orecchie si tappavano e quelle urla minacciavano di fracassargli il cranio. Era terribile.
Era terribile quello che sopportava ed era terribile la causa che lo scatenava.
Arrivava sempre al limite e poi non poteva più farne a meno, non ce la faceva, voleva resistere, voleva morire, ma l’istinto di sopravvivenza era più forte del suo stesso volere.
Strappò la lama del coltello e lasciò cadere il cadavere a terra. Pallido come una porcellana. Non c’era più nulla in quel corpo vuoto che poteva portargli via ancora, non un briciolo di vita insignificante quanto un secondo di battito del cuore. Lasciò cadere il coltello a terra e così se stesso, stanco dalle urla ma rinvigorito dalla vita appena rubata. La sua pelle poteva tornare ora calda e rosa, rigata dalle lacrime di addio.
 
Vassil credeva che sua madre lo avesse cacciato quando era bambino per proteggerlo da se stessa. Aveva ucciso suo padre e lo aveva abbandonato. Credeva che sua madre fosse pazza e che avrebbe vissuto meglio senza di lei; gli faceva paura. Aveva gli occhi rossi come il sangue.
Non avrebbe mai immaginato che un giorno come un altro, quegli occhi rossi come il sangue sarebbero stati i suoi.
 

 
Il bisogno di sentirsi vivi
 
 
Il mercato di Bonhem era il più ricco del territorio, c’era di tutto: vestiti, mobili, oggetti utili alla casa, giocattoli, frutta e verdura, farmacia, souvenir. Era aperto tutti i giorni a parte il fine settimana e radunava persone anche dai paesi più lontani, c’era sempre il pienone. Tuttavia, quando lui usciva dalla sua casa sopra la collina e scendeva nella zona abitata, il mercato si svuotava lentamente e le persone lo lasciavano passare, si allontanavano, nessuno lo guardava negli occhi, neppure i mercanti che a stento riuscivano a vendergli la roba che richiedeva, e il più in fretta possibile, per non farlo aspettare. Avevano paura. Lui non aveva mai dato occasione di creare terrore: Vassil era cortese, educato, sorrideva anche se era certo che nessuno lo fissava in volto. La sua fama era solo frutto di dicerie e niente più. Credevano che fosse un vampiro e che le persone scomparse le avesse ammazzate lui. Ma il ragazzo, ormai di quasi trent’anni, non era un vampiro e non aveva colpe. Lui stesso si era barricato in una casa sopra la collina per non far del male a nessuno. Appena sentiva le risate dei bambini li deviava, per non incorrere a pensieri orridi che li vedevano protagonisti mentre faceva loro del male.
Vassil non era persona cattiva ed era solo. Aveva cercato di uccidersi più di una volta ma l’istinto di sopravvivenza era troppo forte e vinceva sempre, nonostante tutto, anche quando provò a gettarsi da una rupe, reggendosi all’ultimo.
Lui era una piaga che camminava, e più di ogni altro, per se stesso. Vassil era destinato a vivere finché la morte naturale non lo avrebbe strappato alla carne, uccidendo persone innocenti per mantenersi vivo, senza poter davvero vivere, perché solo e nella disperazione, nei pianti che regalava alle sue vittime.
La gente del luogo non sapeva realmente la sua storia; non sapevano niente di lui. Più volte provarono a contattare i gendarmi per farlo portare via, ma non ci sono mai state prove e gli stessi avevano timore di lui.
Ciò nonostante, quel giorno non tutti sembravano aver paura: un ragazzo passava da una bancarella all’altra chiedendo di lui e si fermò, quando lo vide arrivargli incontro, dopo un accenno con la testa di un venditore di bacche. Sorrise e gli arrivò davanti senza indugi, fissandolo in volto. Era una strana sensazione per Vassil, perché nessuno lo aveva più guardato in faccia da anni.
«Ah, non credevo di trovarla in giro. Occhi neri»
Vassil spalancò gli occhi, sorpreso.
«Mi avevano detto che aveva gli occhi rossi ma siccome nessuno lo guardava negli occhi, mi domandavo come facevano a saperlo», rise quel ragazzo.
Il venditore di abiti usati davanti a loro alzò appena lo sguardo, curioso, per poi riabbassarlo subito dopo, senza aver guardato quegli occhi e il loro colore: anni di paura cercando di non fissare in alto non potevano sparire in un momento di pura curiosità.
«Lei chi è, mi scusi?», chiese Vassil con un filo di voce.
«Anton. Solo Anton», gli porse la mano e il ragazzo la strinse dopo qualche attimo di attesa, indeciso. «Sono un estimatore di antiche leggende e mi ha incuriosito il suo caso. Gira voce che lei sia un vampiro»
«I-Io non sono un vampiro»
«Ne sono certo», alzò un dito al cielo azzurro, al passaggio di qualche nuvola. «I vampiri non escono di giorno», sorrise.
Vassil s’incantò nel fissare quel sorriso. Così genuino, autentico. Il primo sorriso che vedeva dopo anni. Gli sembrava un miracolo.
«La gente si lascia incantare da stupide dicerie ancora prima di pensare se siano o meno fattibili. Tuttavia, vorrei chiederle di poter studiare da vicino la sua vita». Al suono di quelle parole, Vassil s’impallidì, contrariato. «Sono giunto fin qui apposta per conoscerla! So che sono scomparse delle persone e-», s’interruppe, guardandosi intorno e osservando come gli sguardi prima incuriositi scappavano cambiando traiettoria. «Beh, sì, tutti danno a lei la colpa», lo vide perplesso, non mancando lo sguardo dalla testa ai piedi, fissandosi sui suoi abiti scuri e particolari. «Solo la mia troupe ed io, tre uomini in tutto. Le chiediamo solo di poter usare la sua casa, mangeremo per conto nostro e dormiremo dove capita, non sarà un problema»
Vassil stava già da qualche secondo scuotendo la testa e Anton schiuse le labbra, aggrottando le sopracciglia.
«Se lei non ha a che fare con le sparizioni, non credo abbia nulla da nascondere»
«Ma io non-», prese respiro, era agitato. «Vivo da solo da molti anni, non sono abituato ad aver delle», gesticolò. «Delle persone come lei nella mia casa!»
Aveva paura. Tanta paura. Delle persone con lui, nella sua casa, non erano al sicuro.
«Non le daremo fastidio. Potrà continuare la sua vita in tranquillità e se non scopriremo nulla in una settimana… beh, ce ne andremo», Anton socchiuse le labbra. «Sette giorni. Le chiedo solo sette giorni. Scriveremo di lei e di come la sua vita non sia differente da quella di tutte le persone qui intorno, divulgheremo il documento, e lei potrà vivere in pace. Noi possiamo liberarla da queste dicerie che durano anni»
Solo sette giorni. Vassil continuò a ripetersi per la testa quelle parole a ritmi regolari per interi minuti, anche per il giorno successivo nell’aver accettato. Sette giorni erano pochi. Si era nutrito due giorni fa e poteva restare altri sette giorni senza farlo di nuovo, ne era sicuro, l’ultima volta aveva resistito quasi un mese. Poteva farlo e le voci si sarebbero appiattite, anche se non del tutto. Alcuni cacciatori avevano deciso di ucciderlo due settimane prima e si era dovuto rifugiare nel bosco alcuni giorni: aveva paura che sarebbero tornati e si sarebbe sparso il documento che testimoniava come lui non era minaccia, se non altro quello, i cacciatori non sarebbero tornati.
D’altro canto, se la gente del luogo continuava almeno un po’ ad aver paura di lui, poteva considerarli al sicuro.
 
I tre uomini sistemarono nel piccolo soggiorno i loro zaini, facendo di quel luogo la loro postazione. La casa di Vassil era piccola e lui aveva sempre abitato da solo, non aveva mai avuto bisogno di grandi spazi. I mobili erano pochi ed erano vecchi, alcuni consumati da piccoli animali e insetti. I muri erano ingialliti e la carta da parati a volte strappata, come se qualcuno l’avesse presa e trascinata in un attimo di rabbia. Anton e i suoi non si lasciarono sfuggire quel particolare, come del resto osservavano la casa e ogni angolo con perizia. Il ragazzo non credeva realmente a quelle voci e voleva dimostrare come Vassil non aveva niente a che fare con le sparizioni, al contrario tuttavia i suoi due collaboratori non erano delle stesse idee e pensavano che ci fosse qualcosa di fin troppo sinistro in quell’abitazione. Non era un vampiro, certamente, ma nessuno dei due escludeva l’ipotesi di un serial killer. Non ne dimostrava il carattere, ma una settimana sarebbe stata sufficiente per trovare i corpi delle sue vittime intorno quelle mura.
Prepararono i loro sacchi a pelo e Vassil fece fare il giro della casa ad Anton, che si voltava circospetto. La cucina era molto piccola e ci stavano appena il tavolo con una sedia, i fornelli, un minifrigo e una finestra. Il bagno era fuori come le case più antiche e nella camera da letto, che era la stanza più grande, c’erano un vecchio letto sfatto a due piazze, un armadio impolverato e una sedia. Anton non poteva credere che una persona potesse vivere in quelle condizioni. Era come se la persona che vi ci abitava non vivesse affatto e che si stesse lasciando trascinare. Vassil indossava abiti antichi e il ragazzo era pronto a scommettere che non li aveva comprati per se stesso, ma che li aveva trovati in questa casa abbandonata quando aveva deciso di abitarci.
 
Anton era abituato ad osservare e catalogare, ad analizzare e arrivare alle deduzioni più logiche. Era il suo lavoro. Viaggiava e osservava e se c’era una storia che lo interessava, andava e la studiava, ne arrivava alla fonte. Tuttavia, non aveva mai conosciuto qualcuno come Vassil, durante i suoi viaggi.
Lui era particolare, diverso. Era come se quello strano ragazzo avesse paura della vita e si rinchiudeva nella sua casa, nelle sue piccole quattro mura ingiallite dal tempo e dall’abbandono, senza neppure far entrare un po’ di luce. Viveva nell’ombra, come se realmente fosse colpevole di un castigo che doveva espiare. E Anton non lo capiva perché quello davanti a lui era un ragazzo gentile, con strani modi di fare, mangiava poco, non rideva perché non si divertiva ma sorrideva per non apparire maleducato. Era una brava persona e se solo la gente del posto si fosse sforzata di conoscerlo, prima di averne timore, lo avrebbero compreso anche loro.
Anton però sapeva che i suoi due collaboratori non la pensavano allo stesso modo. Laddove lui vedeva qualcosa di curioso e innocente, loro vedevano pazzia.
«Matto, completamente…», sbottò Marcus, entrando nel suo sacco a pelo, spegnendo una sigaretta calpestandola fra le tegole del pavimento, indisturbato. C’era una gran polvere, ma aveva il diritto di sporcare ulteriormente una casa non sua senza porsi il problema? Si chiedeva Anton.
Lui stava ancora seduto sulla piccola sedia pieghevole che si portava dietro, e scriveva appunti sul suo blocco poggiato sulla valigia. Era molto concentrato ma non poteva fare a meno di sentire il battibecco dei due.
«Questa è la nostra prima notte qui, amico… altre sei e ce la filiamo! Questo posto mi mette i brividi e ne abbiamo visti parecchi, di posti strani», soffiò Erik, buttando via il fumo della sua sigaretta dal naso. «Domani mattina andiamo alla ricerca dei cadaveri, però: prima li troviamo, meglio sarà per tutti»
Anton si voltò verso i due perplesso, senza mancare l’occhiataccia al secondo che spegneva la sigaretta sul pavimento come il compare. «Chi vi dice, che troveremo i cadaveri? O meglio, chi vi dice che, se li troviamo, sia opera di Vassil? C’è un bosco alle porte di questa collina, potrebbe essere un orso o un lupo, il vostro serial killer»
«Ma dico, lo hai visto?», disse Marcus trattenendo a stento una risata, lanciando uno sguardo a Erik. «Chi vivrebbe in una topaia come questa senza essere svitato? Tutti i serial killer sono svitati»
Si lisciò i baffi come segno di vittoria ed Erik rise di gusto, scuotendo la testa. Trattenevano la voce per non svegliare il padrone di casa ma a volte si scordavano di essere così premurosi.
Anton lasciò cadere il discorso e chiuse il blocchetto degli appunti. Si alzò e si sistemò al suo sacco a pelo, soffiando sulla candela.
 
Quando Vassil preparò la colazione e andò a svegliarli, si accorse che tutti e tre i suoi ospiti erano già svegli da un po’. Erik e Marcus non c’erano e Anton stava arrotolando nuovamente i sacchi a pelo per non essere d’intralcio a dove camminare.
Erano andati a cercare i corpi delle persone sparite e lui aveva deciso di rimanere con Vassil per fargli qualche domanda ed entrare nella sua vita. E sì, per Marcus ed Erik, Anton sarebbe dovuto restare con Vassil per controllare ogni sua mossa e per non intralciare loro nella ricerca dei cadaveri.
«So che ha detto che avreste mangiato per conto vostro, ma ho comunque preparato la colazione per tutti, se aveste fame», esclamò Vassil e Anton sorrise appena, meravigliato. Non poteva davvero crederci che la gente avesse paura di lui.
«Io mangerò volentieri la colazione»
Con l’aiuto di Anton, Vassil portò il tavolo nel soggiorno e così le due sedie, quella in cucina e quella nella camera, per poter mangiare insieme.
«I suoi amici non mangiano?»
«Sono già usciti, danno un’occhiata al luogo circostante e lo documentano. Potrebbero esserci animali feroci da queste parti?», immerse un biscotto nel latte e osservò con attenzione i movimenti facciali di Vassil, per scoprire se avrebbe potuto mentire.  
«Non che io sappia. Ma è sempre possibile, sì», morse un biscotto. «Un anno fa girava voce che era stato avvistato un orso ma io non l’ho mai visto, né ho sentito niente»
Per Anton, Vassil sembrava preoccupato. Non aveva l’aspetto di qualcuno che mentiva eppure qualcosa nella sua voce gli diceva che non era tranquillo. Che avesse qualcosa da nascondere? Anton escludeva a priori che poteva essere un serial killer, non ne dava l’impressione, sembrava non potesse far del male nemmeno ad una mosca, ma doveva sapere qualcosa sulle sparizioni.
«Oh, sappiamo entrambi come le voci che girano sono spesso frutto di fantasiose speculazioni», rise.
Vassil rise a sua volta ma non riuscì a non pensare alla parte reale della paura della gente e si fece malinconico. Lui non avrebbe mai desiderato questa vita.
 
Marcus ed Erik tornarono a casa verso le sei della sera con un nulla di fatto. Si erano rifocillati comprando cibo al mercato e avevano rovistato su ettari di terreno senza trovare neanche un capello, ma erano sicuri che da qualche parte avrebbero trovato quei corpi, perché avevano intravisto delle tracce. Erano stanchi e un po’ intimoriti a passare un’altra notte sotto quel tetto con il probabile assassino, ma non avrebbero rinunciato a smascherarlo e ad avere le prove sufficienti per farlo arrestare dai gendarmi.

Non lavoravano da tanto tempo con Anton e spesso si trovavano su due linee di pensiero differenti. Anton era uno studioso, loro degli ex-ladruncoli che avevano deciso di seguirlo per fare qualcosa di buono per la comunità.
 
Vassil sentì che poteva andare tutto bene. I due collaboratori di quel ragazzo non avrebbero trovato i corpi, erano nascosti troppo bene, e lui poteva restare ancora del tempo senza dover macchiarsi di sangue. Sentiva seriamente di potercela fare e in più era felice, stranamente felice, perché Anton non lo credeva un mostro e parlava con lui. Era una sensazione che non sentiva da troppo tempo. La solitudine lo aveva reso strano e sapeva che la felicità sarebbe svanita presto, perché a breve loro sarebbero ripartiti e tutto sarebbe tornato come prima. Non voleva lasciarsi cogliere da questo sentimento di tristezza però, era un bene la loro partenza e lui lo sapeva. Doveva solamente fare tesoro di questi giorni felici e creare ricordi altrettanto felici per i giorni più bui. Per contrastare quelle urla.
 
 
La mattina successiva, al suo risveglio, Erik e Marcus non c’erano già più e lui decise di aiutare Anton a sistemare i sacchi a pelo. Fecero colazione ridendo del più e del meno e più tardi uscirono insieme al mercato, per compare qualcosa per il pranzo. La gente del luogo li scorgeva chiacchierare in tranquillità forse stupiti, che quel ragazzo in compagnia di Vassil, fosse ancora vivo.
«Dimmi, Vassil… Parlami un po’ di te», esclamò Anton mentre tagliava delle carote da mettere in pentola. Era arrivato il momento di sapere di più sul ragazzo della collina.
«Su cosa? Cosa vuoi sapere?»
Era così strano, per lui, dare del tu a qualcuno.
«I tuoi genitori ad esempio», sorrise. «Dove sono i tuoi genitori? Che tipi sono… o erano?»
Si bloccò nel tagliare la cipolla. Gli occhi rossi di sua madre gli ritornarono alla testa come un macigno. Era un ricordo pesante, quello dei suoi genitori.
Anton scorse il suo malessere e si morse le labbra, versando le carote in pentola. «Ho toccato un tasto dolente?», chiese subito dopo. «Non volevo… ferirti», lo fissò, serio, mentre Vassil abbassò un poco lo sguardo.
«Non è un problema», cercò di creare un sorriso con tutto se stesso. «Sono morti. Mia madre uccise mio padre e abbandonò me in mezzo a una strada», si diede una pausa e Anton si sentì sprofondare. «A dire tutta la verità… Non so se mia madre è morta, ma da quel giorno, per me, è come se lo fosse. Lei era pazza»
Anton lasciò da parte il coltello e decise di abbracciare Vassil, con sorpresa di quest’ultimo. Nessuno, da quando ricordava, lo aveva abbracciato. Fino a quel momento non sapeva neppure come ci si sentisse. Ricordava che alcuni e alcune in passato ci avevano provato e ci erano quasi riusciti, ma lui li aveva allontanati. Perché non riusciva a fare lo stesso con Anton? Perché non se lo aspettava? Era così caldo che avrebbe voluto che quell’abbraccio durasse per sempre, non aveva la forza di scacciarlo da sé.
Fu Anton ad allontanarsi dal ragazzo come se avesse commesso un errore.
«Perdonami, Vassil… Mi sono lasciato trasportare… Eri triste e io, sai, non ho mai avuto una madre», roteò gli occhi al soffitto marcio della cucina. «E la tua era… beh, non era una buona madre»
«Aveva gli occhi rossi»
Quelle parole spezzarono la scena. Anton lo fissò e Vassil lo fissò a sua volta.
«La prima volta che ci siamo incontrati, due giorni fa, hai notato che i miei occhi erano neri perché le voci dicevano che erano rossi. Mia madre aveva gli occhi rossi»
Non sapeva neppure perché gli stava raccontando questo dettaglio. Perché dirgli che sua madre aveva la sua stessa maledizione senza accennargli la sua maledizione? Non aveva senso. Sentiva di potersi fidare di Anton ma era uno sbaglio, perché lui avrebbe scritto la sua storia.
«Tua madre…», non riuscì a dire nient’altro, prima di andarsene dalla cucina e lasciar perdere il pranzo.
 
 
Il giorno successivo, pareva che sia Anton che Vassil volessero avere poco a che fare l’uno con l’altro. Quando Vassil si svegliò e prese la direzione della cucina, vide che il soggiorno era vuoto: i sacchi a pelo erano già sistemati in un angolo e nessuno dei tre era presente. Vassil tirò un sospiro di sollievo perché era un bene non affezionarsi alla sua presenza. La sua, di Anton, più che quella di Marcus ed Erik.
Rientrarono in tarda sera tutti e tre e Vassil si rintanò nella sua stanza. La mattina seguente, tuttavia, quando Vassil aprì gli occhi, ritrovò Anton a pochi passi dal suo letto che prendeva appunti.
Balzò appena e si tirò indietro, guardandosi attorno.
«Che… Che stai facendo?»
«Il mio lavoro», continuò a scrivere, senza degnarlo di sguardo. «Sono venuto qui per scrivere la tua storia ed è questo che faccio». Si allontanò dalla camera lentamente, lasciando un Vassil perplesso. Cosa avrebbe dovuto scrivere mentre dormiva?
 
Erik e Marcus non avevano trovato ancora niente e Anton si decise a finire di scrivere il pezzo di Vassil in fretta. Si era deciso a finire quella storia il prima possibile.
Il giorno prima era uscito per cercare informazioni sugli occhi rossi e confrontarli con ciò che già aveva scoperto prima di conoscerlo, ma aveva deciso di lasciar perdere anche quello. Vassil era un ragazzo innocente e sfortunato, nulla più. Avrebbe scritto il suo documento e l’avrebbe venduto a dei giornali il prima possibile, in modo da salvarlo dalle malelingue della gente. Non voleva più sentire parlare di occhi rossi.
 
Ripresero a ridere e parlare insieme lentamente e Vassil capiva che era uno sbaglio ma era la cosa più bella che gli fosse capitata da sempre e si lasciava scivolare addosso le preoccupazioni. Per un attimo, Vassil desiderava solo sentirsi un ragazzo normale.
 
Con l’aiuto e sotto consiglio di Anton, insieme cominciarono a pulire meglio la casa da cima a fondo e ad aggiustare qualche mobile che aveva bisogno di un ritocco, e a comprare dei nuovi indumenti, delle nuove coperte e delle nuove tende. La casa stava riscoprendo un nuovo colore con un solo un po’ di luce in più e Vassil era commosso. Non aveva mai creduto di doverlo fare. Perché farlo? Lui chi era? Lui viveva? Lui se lo meritava? Lui era un mostro, anche se Anton non lo sapeva.
Quel ragazzo glielo faceva dimenticare; passare il tempo con lui gli cancellava la tristezza, non ci pensava, andava al letto con il sorriso sulle labbra. E non per educazione, ma per allegria.
Non voleva più pensare a quanto sarebbe durato, quanti giorni ancora restavano da passare con lui, aveva perso il conto. Sapeva che l’indomani mattina si sarebbe risvegliato con lui accanto, sotto lo stesso tetto.
 
Marcus pestò un piede a terra, schiacciando la cicca, arrabbiato. Anton gli lanciò contro uno sguardo sinistro ma continuò a scrivere senza interruzione sul suo blocco degli appunti.
«I sette giorni stanno per terminare: domani… abbiamo solo domani per trovare questi dannati cadaveri», ringhiò.
«Io dico di scavare sotto questa casa», esclamò Erik. «Forse è per questo che non riusciamo a trovarli nel bosco: sono qui, sotto il nostro culo peloso», schiacciò anch’esso la sigaretta e Anton smise di scrivere.
«Niente scavi», disse autoritario, fissando i due. «Come intenderete spiegargli l’intenzione di scavare sotto casa sua?»
«Glielo dirai te», riprese Erik, sfidandolo con lo sguardo, alitando a bocca aperta. «Tanto siete in grandi rapporti, no?»
«Già, ti stai dando da fare per rendere più presentabile la topaia e parli più spesso con lui che con noi», aggiunse Marcus, entrando nel suo sacco a pelo, mentre Erik annuiva.
Anton strinse le labbra e pensando inarcò le narici. «Va bene, statemi a sentire: domani niente scavi, chiederò a Vassil il permesso di poterlo fare e quello di restare qualche giorno in più per continuare il documento. Gli dirò che gli scavi sono essenziali per terminarlo, per far vedere che non ha nulla da nascondere. Domani andrete al bosco come sempre e cercherete ancora da quelle parti»
Nonostante non sembrassero entusiasti di dover passare qualche altro giorno in quelle mura, accettarono entrambi.
La mattina, Marcus ed Erik erano già usciti ed Anton aspettò che Vassil si svegliasse per uscire insieme a lui al mercato. Non sapeva come introdurre l’argomento e Vassil non sembrava neppure ricordare che oggi era l’ultimo dei sette giorni del patto iniziale. Il ragazzo era di buon umore e Anton non voleva turbarlo. Anche lui sapeva quanto Vassil era felice di averlo al suo fianco ogni giorno. Doveva immaginarlo.
Al rientro a casa, prepararono il pranzo e mangiarono con appetito. Tuttavia, Vassil aveva capito che c’era qualcosa di strano in Anton e decise di prendere per primo in mano la situazione.
«Ti vedo turbato, quest’oggi… Posso fare qualcosa?»
Il ragazzo rise: non sapeva ancora come dirglielo ma in un modo o nell’altro, non aveva scelta. «Volevo chiederti una cosa… a onor del vero»
«Dì pure, allora»
«Marcus ed Erik vorrebbero… In verità è una cosa un po’ sciocca, ho detto loro che non ci sarebbe stato bisogno, ma hanno insistito». Vassil si faceva curioso ed Anton si morse le labbra, prima di accennare un sorriso e grattarsi il capo. «Beh… loro vorrebbero provare a scavare intorno e un po’ sotto la tua casa… senza farla crollare, ovviamente, l’hanno già fatto in altre occasioni»
Vassil spalancò gli occhi e Anton mosse un sopracciglio, come se avesse captato qualcosa nel suo sguardo.
«Vorrebbero scavare per… vedere se nascondo là i corpi delle persone scomparse?»
Quella domanda pareva aver fatto male a entrambi. Anton guardò altrove, prima di concentrarsi nuovamente su quegli occhi neri.
Annuì delicatamente. «Loro pensano che tu… Ho provato a dire loro che sono fuori strada ma questo è il nostro lavoro, stiamo stilando un documento sul tuo caso, e scavare fa parte del piano, se necessario. Sono sicuro che non ci sarà nulla se non terra e se sei d’accordo, mi concederai il permesso di scavare»
Vassil deglutì e Anton lo fissò. Nulla se non terra. Nulla se non terra. Ripeteva a se stesso. Non c’era nulla se non terra, là sotto.
«Va bene», esalò. «Erik e Marcus possono scavare dove vogliono: non c’è nulla se non terrà, là sotto»
Anton sorrise e Vassil a sua volta, come tolto un peso.
«Per un attimo credevo fossi preoccupato»
«La mia unica preoccupazione è per la casa», annuì.
Anton gli si accostò lentamente e Vassil restò immobile, seguendolo con lo sguardo, prima di socchiudere gli occhi appena. Quello era il suo primo bacio da quando aveva diciotto anni e aveva passato una breve ma intensa storia d’amore. Anton per lui era speciale, in tutti i sensi. Per lui, si stava dimenticando chi era.
Era un bene? O un male? La coscienza di sé aveva il potere di proteggere le persone da lui ma allo stesso tempo di cancellargli un’esistenza.
Fu Anton ad allontanarsi per primo, dopo avergli brevemente fissato gli occhi.
Perché quel bacio?
 
Quella serata si concluse incredibilmente in fretta. Al loro ritorno, Marcus ed Erik cenarono da soli mentre Anton scriveva, che aveva già mangiato, e Vassil era già da un po’ nella sua stanza. I due collaboratori notarono come Anton pareva ancora più concentrato e silenzioso dei giorni passati e chiacchierarono tra loro entusiasti per gli scavi che avrebbero iniziato l’indomani. Anton fece finta di coricarsi, aveva già spento la candela, e quando si sentì sicuro tra i loro russare, si alzò delicatamente dal sacco a pelo. Diede un’occhiata ferma e impassibile alla porta chiusa di Vassil e s’infilò le scarpe, uscendo di casa. Schiacciò l’erba con noncuranza, non aveva paura di attirare qualche animale feroce con la luna piena nel cielo e aprì la porta del bagno, girando la chiave. Ci si chiuse dentro e poggiò la chiave accanto alla carta, osservando il water dall’alto, immobile.
Aveva capito tutto. Non c’erano più segreti, ormai.
Marcus ed Erik non avrebbero mai trovato quei corpi: non c’era davvero nulla se non la terra, là sotto. Non là sotto.
Con forza afferrò il water e lo spostò, stando attento a non toccare i tubi che andavano dall’altra parte, scorgendo la botola. Spostò l’asse di legno e scese lentamente per quelle scale, richiudendo dietro di lui. Accese la candela che si era portato dietro e camminò lungo quel piccolo andito di terra, spalancando le narici nel sentire un odore strano. Camminava piano, senza fretta, osservando attentamente quel luogo, specie dove metteva i piedi. Sembrava che qualcuno avesse lottato a giudicare le impronte. Si fermò, inchinandosi e tastando la terra. In quel punto qualcuno si era inginocchiato e aveva raschiato le mani sulla terra. Si guardò attorno lentamente, prendendo appena un respiro. Le impronte erano sempre le stesse; solo una persona era stata lì sotto: Vassil.
Riprese il cammino ed entrò in una stanzetta con le pareti ricoperte di legno marcio, ammuffito. La terra era smossa e c’erano dei fiori ovunque, appassiti. All’angolo destro c’era una grande montagna di terra e una pala: era sicuramente quella che usava per ricoprire i corpi. Le montagne di terra più piccole erano sparse per la camera, con sopra i fiori, e il fetore era terribile. Vassil doveva portare i fiori alle sue vittime spesso ma era da quando loro abitavano con lui, che non ci metteva più piede. Quello era un cimitero.
Si affacciò a una parete e tastò un’asse di legno un po’ rotta, sembrava con un pugno. Vassil aveva combattuto a lungo, in quella stanza.
Decise di andarsene, prima che a qualcuno servisse di andare il bagno.
 
 
I giorni seguenti furono molto divertenti. Erik e Marcus scavavano senza sosta nella convinzione di trovare presto i corpi, mentre Anton e Vassil uscivano per andare a Bonhem e restavano fuori delle ore intere, mangiando e passando delle belle serate. Per Vassil era come tornare ai tempi in cui credeva di essere ancora un semplice ragazzo e non chiedeva nient’altro al mondo, che stare più tempo possibile in compagnia di Anton. Erano passate già due settimane dal suo arrivo nella sua vita e aveva paura che il tempo stesse per scadere, che avrebbe dovuto cacciarlo, ma non sentiva il bisogno di uccidere, cominciava a non avere più paura di se stesso, che pensò veramente di guarire. Con la compagnia di Anton, che lo trattava da umano, credeva che non avrebbe più rivisto gli occhi rossi o forse non si sarebbe spinto tanto oltre. Ci furono altri baci, carezze, sorrisi e complicità. Niente poteva andare storto in quei giorni, nulla, neanche la verità che Anton sapeva e non aveva detto a nessuno, nemmeno al suo blocco di appunti.
«Potremmo andare a vivere al di là delle colline», enunciò Anton in un sorriso, assaporando la sua brioche. «Ci sono stato per una ricerca su un fiore qualche mese addietro e la gente del luogo è molto ospitale, mi sono trovato bene»
Vassil sorrise a sua volta ma abbassò appena lo sguardo, pensieroso. «Sarebbe bellissimo… Ma anche là penseranno che sono un vampiro», riprese il suo sorriso, facendo scoppiare Anton in una risata goliardica.
«Appena avrò terminato il mio documento, nessuno penserà più che sei un vampiro, ma solo un ragazzo un po’ timido», prese la mano di Vassil nella sua. «L’incubo finirà»
Vassil spalancò gli occhi. Anton sembrava leggergli dentro ma non sapeva tutto, credeva. Vassil non sapeva dire con certezza quello che stava accadendo fra i due, sapeva però di non essere sincero e che, se lo sarebbe stato, Anton lo avrebbe odiato. Avrebbe scritto la verità sul suo conto e lo avrebbe consegnato ai gendarmi. Sarebbe stata la fine. Nessuno poteva toccarlo in quel senso, nessuno. Se qualcuno si avvicinava a lui con l’intento di fargli del male, gli occhi rossi lo avrebbero ucciso.
Si ricordò quando era solo un ragazzo, aveva diciassette anni e si trasformò per la prima volta in quel mostro. La sua pelle si era fatta pallida, i suoi organi gli minacciavano di schiacciarsi e le sue vene si prosciugavano. La vita gli stava sfuggendo di mano e non ne sapeva la ragione.
Si era avvicinato a uno studio medico ma durante la visita accade l’inaspettato: i suoi occhi divennero rossi e il medico s’immobilizzò. Afferrò la prima lama che vide nelle vicinanze e gliela conficcò nel petto con grinta. Si accostò alla ferita e aprendo la bocca prosciugò la sua vita. Gli organi si rigenerarono e le vene tornarono gonfie e a scorrere. La sua pelle era di nuovo rosea e credeva di essere guarito. Pianse e le urla arrivarono poco dopo. Si mantenne le orecchie e gettò a terra con calci e pugni tutto ciò che vedeva ma quelle urla non venivano dall’esterno.
Più avanti, pensò che quelle urla appartenevano alla vita che aveva preso. Accadeva tutte le volte, una dopo l’altra, da allora non si era mai fermato. Non c’era mai riuscito.
Dallo studio medico chiamarono i gendarmi e lo seguirono di corsa. Vassil non poté fare altro che scappare. Era impaurito, aveva appena ucciso un uomo ed era stato terribile. Quei tre uomini però udirono gli allarmi degli agenti e si piazzarono davanti a lui. Erano grossi e ridevano, non avevano paura di un gracile diciassettenne. Uno di loro si accostò per afferrarlo ma a quella presa il mostro in lui si risvegliò, mostrando gli occhi rossi. Gli spezzò il braccio come se fosse di burro e uccise lui e gli altri due uomini. Prima dell’arrivo dei gendarmi sulla scena, Vassil era già scomparso.
Lui non aveva scelta. Era una maledizione, quella che aveva macchiato la sua vita.
 
 
Vassil entrò in cucina poggiando la busta della spesa sul tavolo, tirando fuori ciò che gli serviva per preparare la cena. Cominciò a pelare patate, osservando Marcus ed Erik dalla finestra che ancora scavavano fuori in giardino, quando sentì una fitta allo stomaco. Lasciò la patata sul tavolo e si accostò con il coltello in mano allo specchio nel soggiorno. Il suo aspetto era sconcertante. La sua pelle era di nuovo pallida come una porcellana, era magro, e sentiva gli organi del suo corpo restringersi. Era troppo tardi, pensava. Non era guarito neanche questa volta, neanche con l’amore. Si piegò in due dal dolore ma quando sentì la porta di casa aprirsi tornò in verticale senza sforzi, guardando con i suoi occhi rossi alle sue spalle nello specchio. Anton.
No, lui no. Non avrebbe permesso a se stesso di fargli del male. Quel mostro non poteva vincere ancora. Non poteva uccidere l’unica persona che gli era stata vicino davvero e che voleva aiutarlo con così tanta passione. Non poteva uccidere la persona di cui si era innamorato.
«Anton… vattene», sibilò tra i denti stretti, senza voltarsi. Sapeva che se lo avrebbe fissato, sarebbe stato troppo tardi.
Ma lo studioso non sembrava temere ciò che vedeva dallo specchio e si avvicinò lento, fino ad abbracciarlo alle spalle. «Niente paura, Vassil», mormorò quest’ultimo. «Sapevo che sarebbe accaduto. Non devi proteggermi. Fallo». Vassil scosse la testa e strinse forte i suoi pugni. «Fallo… Moriresti»
Si voltò e lo fissò agli occhi con i suoi rosso sangue. Non c’era via di scampo, aveva bisogno della sua vita adesso.
Strinse forte il coltello e stretto con le mani di Anton entrò nella carne. Il ragazzo non mostrava neanche un po’ di dolore e Vassil s’inchinò per aspirare la sua vita dalla ferita aperta. Ma si svegliò.
 
Gettò via le coperte dal letto e si mantenne la fronte sudata, prendendo aria a pieni polmoni. Per fortuna era stato solo un sogno, pensava, ma togliendo la mano dalla fronte si accorse che questa era secca e piena di crepe e che l’incubo non era ancora finito. Si alzò bruscamente dal letto e si affacciò alla finestra, osservando con paura nel riflesso, il suo viso pallido e asciutto. Stava per accadere di nuovo. Riusciva appena a prendere aria e si stava sentendo male. Era tardi. Ora il suo corpo sarebbe andato alla ricerca di una vita umana e la prima a capitargli a tiro sarebbe stata la prossima vittima. Non c’erano alternative. Il suo sogno voleva avvertirlo, dirgli che non era guarito.
Ma decise che non avrebbe fatto del male ad Anton.
Stava per uscire dalla finestra quando sentì un brutto colpo provenire dalla porta di casa e così alla porta della sua stanza da letto, che fu buttata giù. Marcus pareva infuriato ed era nel posto sbagliato al momento più sbagliato. 
«Adesso mi sono stufato», puntò un dito contro Vassil, che si era spinto più che mai alla finestra. «Siamo in questa topaia da oltre tre settimane e abbiamo fatto i giri nel bosco, scavato a non finire e se questa casa non fosse così piccola sarebbe stato il primo posto da mettere a soqquadro… Adesso dimmi dove sono i cadaveri! Dimmi dove hai gettato le persone che hai ucciso!»
Respirava sempre più affannosamente e se l’uomo non fosse stato così accecato dal nervoso, si sarebbe accorto prima del suo malessere; ma non avrebbe fatto in tempo a scappare in ogni caso, Vassil ormai lo sapeva.
«Ehi… hai mangiato qualcosa ieri a cena che ti ha avvelenato? Hai un aspetto… strano»
Si accostò di un passo e gli occhi di Vassil divennero rossi. Non aveva più il tempo di stupirsi, era sotto il suo controllo. Si avvicinò ancora e il ragazzo gli prese il coltellino a serramanico dalla cinta. In un attimo lo accoltellò e Vassil aprì la bocca alla ferita per risucchiarne la vita.
Presto avrebbe dovuto portare via il corpo, il prima possibile, anche con le urla nella sua testa che sentiva già prendere la rincorsa per colpirlo. Tuttavia, quella rincorsa apparteneva a qualcun altro.
«Marcus, lascia stare», la voce di Erik si sentiva chiara già dopo aver varcato la soglia della porta di casa e si faceva più vicina rapidamente. «So dove altro possiamo… scavare», si bloccò. Vide il corpo freddo del suo amico immobile e Vassil e i suoi occhi dietro di lui, che brillanti lo fissavano. Scacciò un urlo e scappò di casa, sballottando Anton che entrava in quel momento. «Non andare, scappa, chiamo i cacciatori», urlava. «Ha ucciso Marcus! Ha gli occhi rossi come il sangue!»
Come se le urla del suo collaboratore lo potessero in qualche modo destabilizzare, Anton mantenne il suo sguardo serio ed entrò nella stanza, osservando il corpo di Marcus a terra accanto al coltello insanguinato e Vassil vicino, che si teneva stretta la testa tra le braccia: le urla erano arrivate. Si accostò lentamente e si inginocchiò davanti a lui, afferrandogli le mani.
«Ehi, guardami. Sono Anton», sibilò la sua voce calma e seria.
Vassil scosse la testa ma Anton lo costrinse a guardarlo e gli occhi rossi presto scomparvero, insieme alle urla.
Ormai erano anni che Vassil uccideva a suo malgrado, ma era sempre come la prima volta: piangeva e si guardava intorno turbato, dispiaciuto.
«Sono un mostro», strinse i denti. «Marcus è morto»
«Non sei un mostro. Sei una vittima di te stesso, è una maledizione»
«Non ci riesco… Ho provato a non farlo, Anton, ho provato tante volte… Non possono uccidermi e non posso farlo neanche io, Anton. Non so cosa fare, Anton»
«Non devi fare niente se non vivere», sorrise. «Non hai colpe. Ho fatto delle ricerche il giorno che non c’ero. Mi avevi detto che tua madre aveva gli occhi rossi. La tua famiglia è stata maledetta tantissimi anni fa. Ho parlato con un uomo, ai confini di Bonhem e mi ha detto di aver conosciuto un uomo con gli occhi rossi che uccideva per non morire, molti anni prima: era tuo nonno, Vassil. Il padre di tua madre. Mi hai confidato che tua madre ti ha abbandonato e che ha ucciso tuo padre… Non era pazza, Vassil, era solo come te. Quando doveva non c’era nessun altro e ha preso la vita di tuo padre. Ti ha lasciato andare per non rischiare di ucciderti»
Vassil spalancò gli occhi. Sua madre lo aveva realmente protetto da se stessa, quella sera.
Deglutì, cercando di prendere fiato.
«Stanno arrivando i cacciatori… Erik è andato a chiamare i cacciatori», deglutì ancora, sudato. «Devo spostare il corpo e scappare»
«No. Parlerò io con loro. Tu nascondi il cadavere di Marcus e sarà la mia parola contro quella di Erik», gli sorrise. «Marcus è andato al mercato a comprare da mangiare, l’ho mandato io. Ed Erik si droga»
«No, non capisci», insisteva Vassil, alzandosi da terra, seguito da Anton. «Se qualcuno proverà ad avvicinarsi a me con gesti di minacce, succederà una strage. Me ne devo andare»
 
Lasciarono la casa con il corpo di Marcus a terra e scapparono nel bosco insieme. Vassil aveva deciso che avrebbe lasciato quella casa per sempre; era stato scoperto e non voleva che Anton mentisse e rischiasse il carcere per proteggerlo. Sentirono i cani dei cacciatori abbaiare e corsero sempre più in alto, alla ricerca di un nascondiglio dove non gli avrebbero cercati almeno per quella notte. L’indomani se ne sarebbero già andati.
Vassil si appoggiò contro un albero e prese fiato, fissando Anton che, a sangue freddo, cercava di scorgere la casa.
«Devi andartene»
Anton si voltò, osservando Vassil attentamente. «No», scosse la testa.
«Perché non hai paura di me? Mia madre mi ha lasciato andare per proteggermi, giusto? Per non rischiare di uccidermi, non è vero? E io devo lasciare andare te per la stessa ragione», deglutì.
«Non mi ucciderai», si accostò a lui.
«Come fai? Come fai a dirlo?»
Anton si abbassò sulle ginocchia, guardandolo negli occhi neri. Il suo viso appariva intrigato e Vassil non lo capiva. Anton era diverso da tutte le persone che aveva conosciuto.
«Perché… beh, prenderò degli altri appunti e scoprirò il ritmo della tua vita. Quando sarà il giorno, io stesso ti porterò a casa nostra la vittima sacrificale e vedrai solo lei. Io sarò al sicuro. Non sono uno sprovveduto, Vassil, non farti ingannare dalla mia età. Sei al sicuro con me più che con chiunque altro. E no, non ho paura. Se mai un giorno dovessimo trovarci in quel momento, espierò le mie colpe per permetterti di sopravvivere. La morte non è nostra nemica, Vassil», sorrise.
Si accostò per baciarlo e si lasciarono andare. Quelle labbra crespe di Vassil, per Anton erano le più dolci che avesse mai assaporato.
«Ci siamo innamorati perché siamo fatti l’uno per l’altro», disse poco dopo, carezzando la guancia di Vassil. «Mi prenderò io cura di te»
Sorrise e lo spinse contro all’albero, per baciarlo ancora. Non avrebbe mai avuto paura di lui; Anton non aveva paura di niente e l’unica cosa che voleva da Vassil, era sentirlo vivere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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La settimana scorsa ho sognato che ero un uomo che, infilzando con un coltello un altro tizio, ne risucchiavo la vita per sopravvivere. E la risucchiavo proprio come descritto nella shot. Finché poi, disperata (cioè disperato, visto che ero un uomo), non ho accoltellato anche un ragazzo cui provavo forti sentimenti e ci stavo male. Beh, era un sogno, quindi ho voluto mantenere quella scena come tale :)
 
Questa shot partecipa al contest indetto da darllenwr sul forum di EFP Le metamorfosi :)
 
 
Ciao, ciao da Ghen :>
   
 
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