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Autore: Benio Hanamura    27/02/2014    1 recensioni
[Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru]
“Il mio nome è Kichiji Hananoya… o meglio, questo è il mio nome dall’età di 15 anni. Fino ad allora ero Tsukiko, la sesta figlia della famiglia Yamada...”
Nel manga originale della Yamato è detto ben poco del passato della geisha Kichiji, che fa la sua prima comparsa come causa inconsapevole di gelosia della protagonista Benio nei confronti del fidanzato Shinobu, ma che poi si rivelerà essere solo una sua ottima amica e stringerà una sincera amicizia con Benio stessa, per poi segnare anche l’esistenza del padre di lei, vedovo inconsolabile da tanti anni.
Per chiarire l’equivoco e per spiegarle quale rapporto c’è davvero fra lei e Shinobu, Kichiji racconta la sua storia del suo passato a Benio, dei motivi per cui è diventata geisha, abbandonando suo malgrado il suo villaggio quando era ancora una bambina, ma soprattutto del suo unico vero amore, un amore sofferto e tormentato messo a dura prova da uno spietato destino…
Dato che questa storia è solo accennata nel manga, ma mi è piaciuta e mi ha commossa molto, ho deciso di provare ad approfondirla e di proporvela come fanfiction!
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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  Le mie terribili paure sembrarono materializzarsi quando il signor Tanaka mi disse che Yuriko era andata via da un bel po’, anche perché gli era sembrato che non si sentisse troppo bene, e perciò l’aveva congedata prima del solito, e si dimostrò sorpreso che non l’avessi neanche incontrata per strada. Sbiancai e corsi fuori velocissima, notando solo di sfuggita che nel negozio ormai vuoto c’era anche Yuichi, il figlio del signor  Tanaka, che stava al bancone e chiacchierava allegramente con una bellissima ragazza, che avevo incrociato qualche volta senza averla mai conosciuta di persona: ma evidentemente si trattava di Hotaru, la sua splendida fidanzata di cui tanto si parlava ultimamente e che proveniva dal villaggio vicino.
  Da qui in poi i ricordi di quel giorno si fanno sempre più confusi. Uscita dall’emporio avrei dovuto correre subito a casa, avvisare mio padre che avrebbe sicuramente saputo come risolvere il problema, ma di nuovo la testardaggine ebbe la meglio sul buonsenso e così andai verso il bosco. Noncurante del freddo crescente correvo verso il lago chiamando invano Yuriko, con impressa nella mente l’immagine della povera Chiyo, riportata in superficie l’anno scorso senza vita, il bel viso reso orribilmente irriconoscibile dalle lunghe ore trascorse in fondo al lago, che si sovrapponeva a come immaginavo potesse diventare anche mia sorella… E mentre magari Yuriko avrebbe potuto essersi già gettata nel lago per causa sua, Yuichi era lì, avvolto dal caldo tepore che emanava il caminetto nell’emporio, intento a ridere e scherzare con un’altra, magari stavano parlando dei loro progetti matrimoniali; non aveva battuto ciglio vedendomi arrivare trafelata a chiedere di Yuriko, che non era arrivata a casa dopo ore che era andata via, ovviamente, dato che per lui Yuriko a stento esisteva, come temporanea dipendente della sua famiglia… Mia sorella si struggeva tanto in silenzio da tempo ormai, troppo, per lui che non lo meritava affatto!  Non sono nemmeno certa che amasse sul serio Hotaru, mentre invece so che lei, proveniente da una famiglia benestante, era un ottimo partito ed il loro matrimonio sarebbe stata davvero vantaggioso per la famiglia Tanaka.
   Ma c’era un’altra cosa, a 9 anni ero forse troppo ingenua per poter considerare anche questa eventualità ma avrei dovuto: fino ai giorni scorsi non faceva poi così freddo e probabilmente il lago non era ancora ghiacciato consentendo a Yuriko di gettarsi per morire annegata come Chiyo, ma se invece lo fosse stato? Io mi ero ostinata a cercarla al lago, ma in realtà qualsiasi albero avrebbe potuto andarle bene per consentirle di impiccarsi!
   Mi ero ormai addentrata nel bosco quando mi resi finalmente conto che la neve, che da quando ero uscita dall’emporio aveva iniziato a cadere piano, si era fatta più intensa; inoltre iniziava a soffiare un po’ di vento ed il freddo iniziava a farsi sentire, anche perché, pensando di mancare da casa per pochissimo, non mi ero coperta abbastanza. Iniziai a sentirmi stanca, ma tenni duro, ormai sarebbe stato assurdo fermarsi a riposare, ancora più pericoloso, se solo mi fossi addormentata per me sarebbe davvero finita ed i miei genitori avrebbero perso due figlie invece di una, quanto ero stata stupida! Ma ormai era tardi per recriminare, dovevo arrivare al lago prima che la neve potesse coprire tutte le eventuali tracce, trovare mia sorella e riportarla a casa! Dovevo sbrigarmi, eppure mi muovevo sempre più lentamente e faticosamente, non riuscivo più a gridare come prima e la mia voce era sempre più soffocata dal vento. Avanzavo inesorabilmente stringendomi addosso il più possibile l’hanten, un po’ troppo leggera per la situazione, anche se perdevo sempre più la consapevolezza di dove stavo andando…
   Non so per quanto tempo vagai in quel modo: ogni tanto avevo l’impressione di essere già passata per un certo punto, di avere già visto questo o quell’albero, quella deviazione del sentiero che ormai era praticamente invisibile, e vedevo anche impronte, non riuscendo nemmeno più a capire se fossero mie o di qualcun altro o magari di qualche animale; come se non bastasse, iniziavo a sentirmi i piedi intorpiditi nei tabi, come pure un po’ le mani, nonostante avessi i guanti: se fossi sopravvissuta avrei fatto la fine del signor Yamamoto, l’anziano capofamiglia dei nostri vicini, rimasto menomato proprio perché reduce da un parziale congelamento dei piedi, per il quale aveva perso le dita? Lo avevo visto seduto scalzo in giardino un giorno di inizio estate quando avevo 7 anni, e quei piedi mutilati mi avevano fatto davvero impressione, tanta che ero corsa a piangere dalla mamma e le avevo chiesto come mai si fosse ridotto in quel modo. La mamma, che ben sapeva quanto mi piacesse andarmene sempre in giro con qualsiasi clima, trattenendomi spesso fuori a giocare  anche più di quanto mi permettessero, mi aveva detto che era stato un folletto dispettoso della neve, che gli aveva rubato le dita un giorno in cui aveva voluto a tutti i costi uscire per andare a caccia col cattivo tempo e si era ritrovato bloccato sulla montagna nel corso di una bufera: “Per questo devi sempre dare retta alla mamma ed al papà, Tsuki-chan, e se ti diciamo che devi restare a casa tu devi restare a casa. Non solo per aiutarci, ma perché se per esempio tu facessi come lui ed un folletto ti rubasse le dita nessuno vorrebbe più sposarti!” Alla mia reazione terrorizzata la mamma si era pentita subito di ciò che mi aveva detto quasi per scherzo, e tentò subito di dirmi che in realtà quei folletti della neve dispettosi non esistevano; tuttavia io non ne volli sapere anche di mettere il naso fuori casa anche solo se iniziava a nevicare, e da allora, anche se avevo un po’ capito che lei voleva solo mettermi in guardia da certi rischi che si corrono per il troppo freddo, avevo cercato di essere più giudiziosa ed obbediente, ma ora… che ne era stato delle mie buone intenzioni? Era stata la preoccupazione per mia sorella a spingermi ad essere incosciente, d’accordo, ma che fine aveva fatto il buon senso? Chi mi avrebbe mai sposata se mi fossi ridotta anch’io in quelle condizioni?  Ma soprattutto, altro che aiutare più attivamente la mia famiglia, li avrei gravati di un ulteriore peso, e già avevano Keita come invalido in casa!!! Come se non bastasse la bufera ci si misero anche le lacrime ad appannarmi la vista, ma non potevo fare a meno di piangere disperatamente, per la paura e per il rimorso: i miei genitori mi avevano sempre amata immensamente, anche i miei fratelli avevano fatto tanto per me, ed io li ripagavo in quel modo? Che avevano fatto per meritare una figlia, una sorella stupida come me? Che avevo fatto di buono finora per loro che non fosse qualcosa di insignificante, essendo io ancora così piccola? No, forse piuttosto che rimanere invalida a vita sarebbe stato molto meglio per loro se fossi morta! Sì, sarebbero stati tristi, avrebbero pianto per un po’, ma poi si sarebbero ritrovati con una bocca in meno da sfamare ed un peso in meno, e soprattutto quando i gemelli sarebbero stati abbastanza grandi per lavorare le cose per loro sarebbero andate molto meglio!!! Mi venne da sorridere a questo pensiero, che le cose si stavano mettendo proprio così: le forze mi si stavano esaurendo, feci ancora pochi passi e crollai, esausta, nelle tenebre…
   Un attimo dopo ero di nuovo con le mie sorelle. C’erano Yuriko, Aiko, Miyuki… stavamo tutte insieme nello splendido prato di fiori in cima alla collina non molto lontana da casa nostra, a correre e giocare tutte insieme, in una splendida giornata di primavera… Il sole era caldo, il cielo limpido, soffiava una leggera piacevole brezza, e si sentivano gli uccellini cantare dai rami degli alberi… Mia madre ci guardava giocare seduta accanto a mio padre sotto ad un albero, dove era pronta una colazione al sacco; era ancora in attesa dei gemelli, aveva il pancione, ma non molto pronunciato,  e Keita era nel prato con noi, agile e veloce, intento a rincorrere una farfalla per accontentare Aiko… Dunque non era la realtà, era un ricordo, il ricordo di uno degli ultimi momenti spensierati della nostra famiglia, poco prima dell’incidente di mio fratello… Un tempo passato a cui non avremmo potuto più tornare, se non in un ricordo, appunto, o in un sogno, uno splendido, meraviglioso sogno! O forse semplicemente ero già morta ed avevo raggiunto il Nirvana? Doveva essere così, perché quel calore che mi accarezzava le guance non accennava a sparire. Ma di chi era quella voce che ora mi chiamava tanto sollecitamente? Era una voce maschile, ma non era quella di mio padre; del resto non era la voce di un uomo di mezza età, ma di un ragazzo, anche se non era nemmeno quella di Keita. Mi pareva di averla già sentita, anche se non l’avevo identificata, ma non mi importava in quel momento, era piacevole e basta…
   “Tsukiko! Tsukiko, svegliati, ti prego, non devi dormire… Tsukiko!!!”
   Mi sentii scuotere, aprii gli occhi ed il prato fiorito sparì… Il cielo era di nuovo cupo, anche se la neve pareva essere diminuita, però continuavo a non avere freddo. Ma non perché avessi perso la sensibilità o cose del genere, ero avvolta da un abbraccio. Alzai la testa e lo vidi… Inizialmente non riuscivo a distinguerlo bene, ed ebbi anche il dubbio che non si trattasse di un essere umano, ma di una divinità giunta miracolosamente in mio soccorso, ma poi incrociai il suo sguardo, quei suoi splendidi occhi neri che tradivano la sua grande preoccupazione per me, e lo riconobbi: era Koji! Negli ultimi anni lo vedevo di rado perché frequentava la scuola superiore in città e spesso, per non essere costretto ad andare continuamente avanti ed indietro si tratteneva presso degli zii che vi abitavano, soprattutto negli ultimi tempi; evidentemente era tornato qui in paese in previsione di un periodo di vacanza, e la casa dei suoi genitori era abbastanza vicina alla nostra. Non gli avevo mai parlato, se non per un breve saluto o poco di più, ma sapevo bene che nonostante appartenesse ad una delle famiglie più benestanti del villaggio non era affatto superbo, anzi, era sempre gentile e generoso con tutti, non facendo differenza per lui se chi gli stesse di fronte fosse ricco o povero, un commerciante o un contadino… Koji non si sarebbe mai perso in sciocche chiacchiere come Yoichi, era il suo esatto opposto, era serio, sensibile e senza grilli per la testa com’era lui; una volta sentii dire ai suoi genitori che era il migliore studente del suo corso… forse era un’esagerazione, ma non mi sarei stupita del contrario!
  “Koji-san, cosa…”
  “Stai tranquilla, Tsukiko, ora ci sono io con te, ti porterò sicuramente a casa, non devi avere più paura di nulla…”   
  Mi resi conto che ci trovavamo in un piccolo rifugio disabitato, che stava lì nel bosco da tanto proprio perché in seguito all’incidente del signor Yamamoto (che avrebbe ovviamente potuto costargli molto di più) gli abitanti avevano deciso di costruire quello ed altri piccoli rifugi simili proprio per certe evenienze, nel bosco e sulla montagna. Koji mi parlava con dolcezza, ed io stavo quasi per riassopirmi, ma quando lui fece per sollevarmi i piedi, per massaggiarli, come ora so che si fa in questi casi per riattivare la circolazione ed evitare le peggiori conseguenze del congelamento, di colpo mi tornarono in mente i piedi del nostro anziano vicino e mi sentii nuovamente terrorizzata al pensiero che le dita magari potessero essersi staccate di colpo, e che potessero cadere a terra non appena Koji mi avesse sfilato i tabi. Sussultai, ed istintivamente gli opposi resistenza, non avevo il coraggio di verificare personalmente, ma non volevo nemmeno che lui mi vedesse ridotta in quel modo! 
   Koji non poteva indovinare fino a che punto potessero essere cupi i miei pensieri, ma comunque mi sorrise rassicurante: “Non preoccuparti… Farò piano, non ti farà male, ma devo massaggiarti, è importante per curarti, fidati di me!”
   Mi rassegnai e lasciai che lui mi sfilasse i tabi e si prendesse cura di me, e quando finalmente ebbi quasi del tutto ripreso la sensibilità ebbi la certezza che tutto era ancora al suo posto. Era notte fonda ormai, ed inoltre le emozioni quel giorno erano state troppe, così quando Koji, massaggiandomi  anche le mani, mi annunciò che ormai aveva quasi smesso del tutto di nevicare e potevamo tornare a casa fu la goccia che fece traboccare il vaso: non potetti evitare di scoppiare nuovamente a piangere a dirotto, stavolta in un pianto liberatorio. Koji asciugò le mie lacrime e mi disse che dovevamo sbrigarci, per non rischiare che la situazione peggiorasse nuovamente. Mi prese sulle spalle e ci dirigemmo verso casa, ma prima ancora che arrivassimo io ero già caduta in un profondo e sereno sonno ristoratore.


Note:
Hanten: tipo di giacca corta giapponese
Tabi: calzini tradizionali giapponesi che arrivano all'altezza della caviglia e che separano l'alluce dalle altre dita del piede


 
  
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