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Autore: Narsyl    04/03/2014    2 recensioni
SPOILER 4X07!
La storia parte dagli avvenimenti della 4x07, colmando i pensieri dei personaggi coinvolti, e va avanti immaginando come possa proseguire la vicenda! Interamente incentrata su Ian e Mickey, insomma qualcosa da leggere nella dolorosa attesa che la prossima settimana arrivi! Saluti a tutti i Gallavichers
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ecco a voi la seconda - e ultima - parte! Alle fine ho pensato che non avrei il tempo di teorizzare una continuazione prima che l'episodio esca, e questo renderebbe i miei tentativi di immaginare come andranno le cose del tutto vani, perchè avremmo la versione canon xD Quindi questo è l'ultimo capitolo. Spero vi piaccia, e vi prego, commentate, commentate, commentateeee!

 

Mickey vide con la coda dell’occhio il corpo di Ian afflosciato sulla neve, e un brivido di preoccupazione gli attraversò i nervi della schiena fino alla nuca. Quante volte si era sottomesso a quel corpo flessuoso, forte, implacabile? Quante volte si era abbandonato alla sua dolce prepotenza, ai suoi modi teneri anche nell’onda feroce del desiderio?

Vederlo così inerme, così scoperto, alla deriva, impotente in preda alle intemperie della vita, lo uccideva e allo stesso tempo gli dava uno scopo per vivere. Doveva lottare per Ian Gallagher, che senza saperlo lo aveva salvato. Doveva lottare per quel ragazzino che non gli doveva nulla e a cui tanto, troppo doveva, l’unico al mondo forse che aveva sofferto per lui, che aveva buttato via l’orgoglio, per lui, che si era buttato via, per lui.

Quando se lo caricò sulla spalla, tenne fermo il suo polso fra le mani, non solo per una questione di stabilità, ma perché voleva sentire il battito del suo cuore sotto le dita ogni momento, voleva che esso scandisse i secondi e i minuti che poteva tenerlo così vicino a sé, anche se il giorno dopo lui non se lo sarebbe ricordato. Voleva assaporare il brivido di prendersi cura di lui, per una volta, senza secondi fini, senza ricompense, senza filtri, senza scuse.

Nell’intimo, nel silenzio, nel buio, voleva togliere solo per quella volta la sua maschera, e prendersi cura di quel ragazzo dai capelli rossi, perché lui lo amava, quel ragazzo, e con quell’amore forse, un giorno, si sarebbero salvati a vicenda.

Infilò Ian nel taxi con cautela, mettendogli una mano sul capo per evitare che sbattesse contro lo sportello, e adagiandolo con quanta gentilezza potesse; per un attimo esitò, pensando di salire a sua volta nel poco spazio rimasto ai piedi di Ian: ma dopo un attimo, un sorriso beffardo gli illuminò il volto, quasi esaltato da un’idea incosciente.

- Vaffanculo… - mormorò mentre chiudeva lo sportello e faceva velocemente il giro, salendo dal lato in cui la testa rossa di Ian giaceva abbandonata. Mickey sollevò senza sforzo il busto di Ian in modo da scivolargli sotto, e sistemò senza esitazione il suo capo rosso sulle gambe.

Ecco. Era tutto più facile con la consapevolezza che nessuno lo avrebbe visto, che Ian era svenuto e mai l’avrebbe saputo, che quel momento rubato al tempo e alla coscienza sarebbe stato un ricordo segreto appartenente solo a lui, a Mickey, e poteva goderselo libero da ogni giudizio, da ogni vergogna, da ogni titubanza. Quel ricordo lo avrebbe riscaldato nel gelo che sarebbe arrivato quando, presto, la sua stupida recita sarebbe dovuta ricominciare e quei capelli ramati, quel naso sottile, quelle labbra rosse socchiuse lo avrebbero tormentato nella loro assenza, notte dopo notte.

Cazzo, quanto gli erano mancate quelle fottute lentiggini.

Si guardò le mani, intrecciate fra le ciocche rossicce: erano mani rozze, mani callose, tatuate, troppo grandi per stringere un fiore. Strapazzavano e rompevano tutto ciò che di delicato vi si poneva.

Eppure.

Si agitò vagamente guardandosi intorno, per un attimo imbarazzato da sé stesso, desiderando forse di essere meno lucido per poter ignorare il ghigno di scherno che il suo riflesso gli mandava da dentro di sé.

Ma che cazzo stai facendo? Sei proprio una fottuta checca.

Si stropicciò gli occhi con i palmi, come a voler zittire quella voce interiore scuotendola da fuori: non era libero neppure da sé stesso, adesso? Era il proprio giudizio, infondo, il più implacabile, il più meschino, il più beffardo e sornione di tutti.

Anche se andasse bene essere una checca, comunque uno così non te lo meriteresti neppure in mille vite.

Mickey scosse la testa e fissò fuori dal finestrino, frustrato. Fra pochi minuti sarebbero arrivati a destinazione e quella piccola bolla di sapone sarebbe esplosa. E lui, nonostante tutto, ancora non riusciva a permettere a se stesso di sfiorare la felicità, neppure da lontano. Era talmente autolesionista che dopo mesi di astinenza, dopo notti infinite di lentiggini che lo inseguivano e gli piovevano addosso come pioggia di sangue, dopo anni addirittura passati a nascondersi, dopo le torture di suo padre, gli sguardi imploranti di Ian, la mortificazione a cui sottoponeva se stesso ogni volta che fingeva di godere del corpo di una donna, l’umiliazione che la verità dentro di sé gli coceva, nel suo cuore martoriato, nella sua anima bistrattata, dopo tutto quel dolore immeritato, adesso che era solo, al sicuro, per così poco, e aveva letteralmente fra le mani la cosa più bella che gli fosse mai capitata, che neppure sapeva quale Dio avesse deciso di mandargliela a salvarlo, neppure adesso riusciva a uscire dal personaggio.

Dicono che quando si veste una maschera per troppo tempo, si incolla talmente tanto alla pelle che non si sa più quale sia il proprio vero volto.

Ma Mickey aveva il pelo sullo stomaco più lungo di così, e non si sarebbe fatto chiamare checca dalla parte ignorante di sé. Mickey, per una volta, sarebbe stato se stesso e basta. Avrebbe fottutamente sorriso, come quando lui e Ian avevano guardato insieme Double Impact e lui aveva fatto i biscotti. Sarebbe stato se stesso come quando lo aveva baciato per rispondere a una velata provocazione, come quando aveva picchiato quel vecchio per cocente gelosia, come quando aveva rubato una sua foto a Mandy e se l’era infilata nella tasca dei jeans come se nulla fosse. Sarebbe stato se stesso: impulsivo, grezzo, rumoroso, stupido, generoso, amabile, timido.

Con un dito spostò una ciocca di capelli dalla fronte di Ian; lo fece scorrere sulla punta del naso, e con le nocche gli accarezzò la guancia rilassata in un sonno forzato dalla droga. Ian, di rimando, sospirò appena. Mickey sobbalzò, intimorito, e un panico improvviso lo colse all’idea di cosa sarebbe successo se Ian si fosse svegliato.

- Mick… - fu un sussurro appena.

Ian si mosse mestamente, voltandosi e accoccolandosi più stretto alla fonte di calore che era il corpo di Mickey sotto di lui. Poi le sue labbra si socchiusero in un sospiro leggero, e il suo sonno continuò indisturbato, mentre le sue mani si aggrappavano appena a un lembo della camicia del ragazzo che lo fissava ipnotizzato e immobile, terrorizzato all’idea che si svegliasse e che la realtà di cosa stava succedendo crollasse addosso a entrambi come una doccia fredda. Ma Ian non si era svegliato: stringeva forte gli occhi chiusi in un’espressione leggermente corrucciata; i suoi sogni, forse, lo tormentavano come succedeva sempre anche a Mickey.

Aveva pronunciato il suo nome?

- Ian… - bisbigliò il giovane dallo sguardo di ghiaccio, controllando che non fosse sveglio prima di posare di nuovo una mano fra i suoi capelli.

Sembrava un bambino. Le spalle si muovevano su e giù al ritmo lieve del suo sonno, i muscoli stranamente contratti alle volte, come scossi da piccoli impercettibili brividi. Mickey si chiese se fossero gli incubi o la droga che evaporava via dal suo organismo: in entrambi i casi, avrebbe voluto farlo smettere.

Non era mai stato un tipo da abbracci e carezze post-coito, e non pensava che avrebbe mai potuto diventarlo davvero. Non sopportava tutte quelle dimostrazioni d’affetto fini a se stesse, che non portavano da nessuna parte, che alzavano le aspettative su un rapporto che al 99% dei casi sarebbe comunque fallito, che indebolivano e tendevano a darti l’illusione che si, puoi rilassarti, si, sarai felice, si, andrà tutto bene e si, puoi toglierti la corazza, nessuno ti farà del male. Quella massa di stronzate che ci si dice per scoparsi meglio la prossima volta. Lui e Ian quella roba non l’avevano mai fatta, non si erano mai mentiti a vicenda. Sapevano che difficilmente le cose sarebbero andate bene, e non sprecavano tempo buono in stupide bugie. Però, adesso, mentre la macchina parcheggiava, Mickey si accorse di quanto avrebbe voluto poter portare semplicemente Ian a casa, sistemarlo nel suo letto, e sdraiarglisi accanto, in silenzio, ascoltare il suo respiro, addormentarsi accanto a lui. Niente di che. La mattina dopo, svegliarsi e dire qualcosa di inopportuno e stupido per spezzare quel lieve imbarazzo derivato da un’intimità ancora troppo recente per essere abitudine; fingere una naturalezza che mal celava lo stupore sgomento di ritrovarsi, a un tratto, a sorpresa, così immensamente felici delle cose più piccole, come il fatto che il sole filtrava attraverso la finestra, o che in frigo era rimasto ancora del succo d’arancia, o che qualcuno durante la notte lo aveva stretto a sé e, svegliandolo quel tanto che bastava per riconoscerne il tocco, strappandogli un sorriso invisibile al buio, lo avesse fatto sentire meno solo.

Ma quelle fantasie svanirono in una nuvola del fumo della sua sigaretta, mentre nella luce fioca della sua stanza fissava Ian ancora addormentato, nel suo letto. Non osava avvicinarglisi, non osava toccarlo.

Svetlana li aveva visti e Dio solo sapeva come avrebbe materialmente gestito la cosa il giorno dopo.

Si prese il capo con quelle sue mani brusche, quelle sue mani troppo grandi per stringere un fiore eppure così dolci sul volto di Ian, fra i suoi capelli di tulipano. Lo aveva portato a casa.

Che idea del cazzo.

Ora non aveva più schermi, non aveva più maschere né nascondigli. Aveva portato Ian a casa e lo aveva steso nel suo letto, dove tutte le altre notti ci aveva dormito sua moglie. Sua moglie l’aveva visto, e senza dire una parola se n’era andata, uno sguardo di fuoco negli occhi sottili. Da una cosa così, lo sapeva, non poteva più scappare. Era consapevole dell’enorme montagna di merda in cui stava velocemente affondando?

Che fottuto idiota che era. E tutto per una zazzera di capelli rossi, per una distesa vivace di lentiggini, per delle labbra sottili socchiuse in un forse sorriso, e chissà, forse lo stava sognando?

Cristo, Mickey, basta con queste stronzate da principessa.

- O mio Dio. Ian… - la voce di Mandy, e non era la prima volta oggi, lo portò alla realtà. La giovane si era lanciata sul letto e tastava Ian con delicatezza, accertandosi che stesse bene. Aveva gli occhi di un azzurro luminoso e luccicante di gioia e preoccupazione, un azzurro splendente d’argento e di sole. Si voltò verso il fratello e gli rivolse un sorriso talmente amabile, sincero e colmo di gratitudine, che Mickey si sentì quasi arrossire. Per la prima volta in tanto, tantissimo tempo, si sentiva come se qualcuno fosse felice che lui esistesse.

- L’hai trovato – mormorò, alzandosi dal letto e sedendosi senza preamboli su di lui, stritolandolo in un abbraccio colmo di affetto e d’orgoglio – non posso crederci, l’hai trovato. Sei andato a cercarlo… Mickey, sono così fiera di te!

- Oh, togliti di dosso, ma che cazzo stai facendo? – blaterò Mickey imbarazzato, cercando di districarsi dall’abbraccio claustrofobico della sorella – L’ho fatto solo perché mi avevi rotto i coglioni. Contenta?

Mandy lo guardò con un’espressione che solo le donne riuscivano a formulare, una di quelle espressioni che lasciano solitamente gli uomini un po’ alla deriva, spiazzati, vagamente consapevoli di non essere in grado di interpretare e di accogliere tutta quella saggezza, tutta quella profondità tutta insieme, loro che sono in grado di provare solo una cosa alla volta. Un’espressione, in quegli occhi azzurri di stoviglia, che era intenerita e spazientita, imperiosa e pietosa, paziente ed esasperata. Un’espressione che diceva: lo sappiamo che non l’hai fatto per me, ma allo stesso tempo sembrava accarezzarlo con una mano invisibile e sussurrargli ti capisco, lo so che fa paura.

- Siamo soli – disse con tono eloquente, mentre un solo lato delle labbra rosse e sottili si tendeva in un mezzo sorriso sornione – non è necessario che tu finga con me.

Mickey distolse lo sguardo e si morse distrattamente il labbro inferiore, prendendo una boccata di fumo e sputandolo fuori lentamente, come a voler calmare tramite esso il proprio respiro tarantolato.

- Mi ha parlato di te, sai? – Mandy si schiarì la voce, ma non tentò di riallacciare lo sguardo col fratello. Sapeva che quella conversazione sarebbe andata avanti più facilmente se lui si fosse sentito al sicuro, e il suo sguardo lo tradiva e lo svelava troppo per i suoi gusti – Una volta. Mi ha chiesto come si faceva a capire se piaci a un ragazzo; perché a lui questo ragazzo piaceva, e molto, ma temeva che lui lo odiasse…

Un piccolo sorriso, infinitesimale, raggiunse gli occhi blu del ragazzo, che si grattò la testa e abbassò lo sguardo, quasi divertito. Ma taceva, temendo che la voce gli sarebbe uscita tremante e gracile se avesse avuto il coraggio di ribattere.

- , comunque. Ho detto a Svetlana che è un mio amico e che tu mi hai dato una mano a trovarlo perché era nei guai. L’ho fatta coricare nel mio letto. Mi vado a stendere sul divano…

Mickey la guardò in tralice, come se si fosse reso conto solo in quel momento che era notte e che prima o poi si sarebbe addormentato; il che significava che non avrebbe potuto stare tutta la notte seduto su quella sedia a guardare Ian respirare.

- No... Apetta – borbottò, estremamente a disagio – coricati qui con lui, io dormo sul divano.

Mandy scoppiò a ridere, coprendosi la bocca sgraziata con la mano:

- Non dire stronzate. Tu dormi qui!

- Cazzo, Mandy, non posso dormire qui. Che cosa direbbe Svetlana domani?

- Chi cazzo se ne fotte di quella puttana di tua moglie, davvero. Ma chi vuoi prendere in giro?

- Porca puttana. Non voglio dormire qui, ok? Dormici tu.

Ancora quello sguardo di chi la sa lunga. Mickey cominciava a stancarsi dell’espressione accondiscendente della sorella. Si, la sapeva lunga, ma non era necessario umiliarlo per ogni piccola cosa. E saranno anche cazzi suoi doveva voleva dormire.

- Sembri una tredicenne mestruata, Mickey, Cristo. Rilassati. Fai quello che cazzo vuoi, ma se fossi io ad aver rincorso il culo del mio ragazzo per tutto il giorno dopo non averlo visto per mesi, mi piacerebbe poter aprire gli occhi e trovarmelo lì, a un centimetro dalla mia faccia. Poi fai tu, eh, a me che cazzo me ne frega!

Si era alzata e gli aveva strappato la sigaretta dalla mano con un sorriso malefico, proprio come aveva fatto quella stessa mattina.

Vai a cercare il tuo ragazzo, testa di cazzo.

- Non è il mio fottuto ragazzo – ringhiò Mickey imbestialito, alzandosi e avvicinandosi a lei con fare minaccioso.

Mandy sapeva che far alterare l’umore volubile del fratello non era una buona idea, e che stava sventolando rosso davanti a un toro. Se le cose fossero andate nel loro ordine naturale, Mandy si sarebbe sentita in pericolo, avrebbe spalancato gli occhi e fatto un passo indietro, si sarebbe rifugiata nella sua stanza correndo e quantomeno riparata con le braccia in attesa dell’attacco. Mickey poteva diventare piuttosto violento quando perdeva il controllo – sempre con affetto, non era Terry, dopotutto – e non sempre si rendeva conto che Mandy non era uno dei loro cugini coi quali andava bene riempirsi di botte.

Se le cose fossero andate nel loro ordine naturale, Mickey avrebbe allungato le mani e le avrebbe strizzato i capezzoli fino a farle urlare perdono e pietà, sogghignando mostrando i denti come un cane randagio.

Ma le cose non andarono nel loro ordine naturale, perché per la seconda volta in quella lunga notte Ian decise di cambiare posizione da un lato all’altro, di rimpicciolire il suo lungo flessuoso corpo acciambellandosi in posizione fetale, di stringere forte il cuscino mormorando in un sussurro flebile e pure miracolosamente distinto il nome di Mickey. Non sarebbe stato più lampante neppure se l’avesse sillabato ad un altoparlante.

Mickey.

E un sospiro.

I due fratelli si fissarono per un minuto eterno in quella che sembrava la conversazione a cuore aperto più onesta che non avrebbero mai realmente avuto. Gli occhi sgranati – così simili fra loro, ma che avevano visto mondi così diversi che le loro sfumature si erano plasmate sui ricordi oscuri e agrodolci cambiandone la tonalità – si squadravano l’un l’altro in preda a una paralisi il cui silenzio rimbombava nella stanza come una grottesca, infinita risata.

Mickey.

- Cazzo – fischiarono all’unisono, voltandosi verso Ian, che giaceva come un gatto appollaiato sopra le lenzuola opache.

Mandy non osò sorridere, questa volta. Infondo, cosa c’era da ridere? Lanciò al fratello un’ultima occhiata meditabonda, prima di dirigersi fuori dalla stanza senza sentire ragioni; si chiuse la porta alle spalle, lasciando Mickey da solo ad affrontare probabilmente una delle cose più spaventose e difficili della sua giovane vita: la verità.

- Hey, Ian. Svegliati. – Mickey si sedette con cautela al lato del letto, mettendo una mano sul bicipite di Ian e scuotendolo piano.

- Mhmhm… - Ian protestò corrucciando la fronte e affondando più profondamente la testa nel cuscino. Aveva il profumo di Mickey. Di sigarette e uomo.

- Dai amico, ti prego. Non posso superare questa nottata da solo.

 

Sapeva che era un sogno e non un incubo perché Mickey stava sorridendo e aveva la pelle del viso liscia e rilassata, senza lividi né cicatrici. Si trovavano a casa Gallagher: Ian si guardava intorno e vedeva quelle pareti disordinate e quel pavimento sporco, pieno di giocattoli, bottiglie di birra, posacenere, vestiti, cartoni della pizza. Quasi non si camminava per quanto casino c’era, eppure a nessuno sembrava importare. C’erano tutti, ed era bellissimo: Lip e Mandy si baciavano appoggiati a una parete, mentre Carl passava di lì con la solita enigmatica espressione furbetta borbottando un “prendetevi una stanza” fra i denti, Debbie e Liam giocavano sul pavimento, Fiona chiacchierava con Veronica e Kev; e lì, in mezzo a tutti, come se nulla fosse, loro. Sorridenti, spensierati. Radiosi.

Seduti sul divano stretto i loro profili combaciavano e le loro mani, casualmente appoggiate sulle gambe, si sfioravano appena. Era una vibrazione che Ian sentiva eruttare dalla punta del dito mignolo fino ai piedi, così potente da scuoterlo nel sonno e nella realtà, trapiantandolo in quel limbo ambiguo in cui si è consapevoli di stare dormendo ma si vedono ancora le pareti del sogno tutt’attorno, e per un momento o più si può approfittare di quella coscienza per far accadere tutto ciò che si vuole.

E c’era una sola cosa che Ian voleva succedesse.

- Mickey – sussurrò, voltandosi verso il giovane bruno che stava giocando con Liam, perfettamente a proprio agio; quest’ultimo si girò prontamente verso di lui, il sorriso ancora incastonato sul volto pallido.

- Ehi – disse solo, i suoi occhi un pozzo di luce.

Poi Ian chiuse la distanza fra di loro in un leggero, tenerissimo bacio. Un bacio che nella realtà non era mai accaduto, mai con tanta silenziosa mestizia, mai con quella naturalezza così intima proprio perché rubata in mezzo a una folla. Mai con quella serenità così appagante, così placida, senza rabbia, senza fretta, senza rancore, senza paura. Le loro labbra si sfiorarono piano, appena socchiuse, ancora e ancora, docili, in una danza impalpabile.

- Prendetevi una stanza, anche voi – borbottò Carl.

Dai amico, ti prego. Non posso superare questa nottata da solo.

La sua voce gli giunse da lontano, con una potenza devastante, svegliandolo immediatamente, scuotendolo da un sonno che sembrava durare da una vita. Prima ancora di aprire gli occhi, riusciva distintamente ad avvertire la presenza fisica di Mickey seduto sul letto a pochi centimetri da lui, così che la sua schiena sfiorava appena un braccio di Ian; sentiva il bruciore liquido della sua mano sulla sua spalla, mentre lo scuoteva piano.

Socchiuse gli occhi, non voleva creare troppe aspettative per poi scoprire che ancora una volta aveva sognato, che ancora una volta era il corpo sbagliato, il volto sbagliato, la mano sbagliata.

Ma ancora una volta, la magia di quella notte non smetteva di compiersi: anche da sveglio, lui era lì, gli occhi vigili puntati su di lui, la mascella contratta in attesa che la consapevolezza si infondesse in lui piano piano. Paziente, come non lo era stato mai. Vicino, come non lo era stato mai.

Ian si stese sulla schiena, e Mickey ritirò subito la mano come se avesse toccato una superficie bollente.

Si guardò intorno fra il sospetto e lo stupore. Riconosceva le pareti. Riconosceva il profumo.

Non poteva crederci.

- Come…

- Sei svenuto. E’ stata un’idea del cazzo, lo so, ma sul momento mi era sembrata la cosa giusta da fare… - non sapeva perché si stesse giustificando, Mickey, ma sapeva che quel senso di debolezza volubile, come di essere steso su un tavolo operatorio col torace aperto e la carne rossa e pulsante del cuore esposta sotto gli occhi di tutti, non gli piaceva proprio per niente.

Non si guardavano negli occhi. Ian fissava il soffitto, Mickey a terra.

Era stata proprio un’idea del cazzo.

- Perché? – chiese a un tratto Ian, un tono che disperatamente anelava a essere duro, e indifferente, ma alle orecchie di Mickey giunse esattamente per quel che era: insicuro, ferito, spaventato.

- Te l’ho detto. La tua famiglia ha bisogno di te. Frank sta morendo, Fiona è stata arrestata e Liam è quasi morto. Fiona ha lasciato della coca sul tavolo e Liam l’ha sniffata tutta. E’ andato in overdose – sta bene adesso, da quel che ne so – disse in fretta, avvertendo subito il panico nel modo in cui tutti i muscoli di Ian si erano tesi in un istante – ma Fiona è ai domiciliari, credo. In ogni caso… Lip mi ha chiesto di cercarti, e Mandy non mi lasciava in pace, e quindi…

- Ah. Certo. Lip, Mandy… Ora è chiaro. – Ian si coprì il volto con una mano, respirando profondamente. Doveva controllarsi. Non poteva permettersi adesso il lusso di perdere lucidità. Ok, Ian? Non essere patetico. Non essere patetico. Fai piano, i bimbi grandi non piangono… – Perché non portarmi direttamente dai Gallagher?

Mickey si morse il labbro inferiore e si alzò di scatto dal letto, non sopportando più quella tensione elettrica che si muoveva come un serpente dentro di lui, come un prurito insopportabile che lo spingeva verso il corpo di Ian con un automatismo preoccupante, come la necessità di sgranchirsi le gambe o di chiudere le palpebre. C’era una forza gravitazionale di cui nessuno dei due sapeva chi fosse il satellite e chi il centro, ma sapevano che se non veniva posto un qualche ostacolo fra loro, una qualche distanza fisica insormontabile, nessuna rabbia e nessun rancore li avrebbe tenuti lontani ancora per molto.

Percorse il perimetro della stanza avanti e indietro, con le mani nei capelli e le braccia piegate in aria.

- Non lo so, non lo so perché ho avuto questa idea del cazzo, ok? – ammise frustrato, senza osare guardare nella sua direzione – e se pensi che ti dirò che l’ho fatto perché mi mancavi o qualche altra stronzata da checca allora sei fuori strada, perché non lo farò.

- Non l’avevo neppure preso in considerazione – ribattè Ian, gelido. Ma il nodo che aveva in gola rendeva la sua voce acquosa. Sperava che le mani, ancora strette a coprirgli il volto, la camuffassero abbastanza da far sì che Mickey non se ne accorgesse.

Ma lui, puntualmente, se ne accorse.

- Cazzo. Merda. Gallagher, stai piangendo?

- No.

Mickey si avvicinò di nuovo al letto e guardò il corpo alto di Ian trattenere i tremiti, il volto ancora nascosto. Non sapeva cosa fare, per farlo stare meglio. Non credeva di essere capace di dire niente che fosse sufficiente, perché sapeva che per lui nulla lo sarebbe stato.

Diede le spalle al letto e si diresse in bagno con la stessa risolutezza con cui quel giorno aveva fatto tutto ciò che doveva per avere Ian nel suo letto in quel momento. Dentro di sé, per quanto non avesse il coraggio di ammetterlo, aveva già riflettuto, e riflettuto, e pensato ai pro, ai contro, ai se, ai ma, aveva posto tutte le peggiori domande e aveva dato tutte le risposte più pessimistiche.

E aveva comunque preso la decisione sbagliata. Aveva attraversato il vialetto di casa con Ian sulla spalla e in quel momento aveva scelto, e forse era la scelta sbagliata, ma ormai era troppo tardi e comunque non gliene fotteva più un cazzo, davvero. Aveva smesso di importargli nel momento in cui aveva visto Ian scivolare come una biscia su quei corpi rinsecchiti al club.

Afferrò il giornale e uscì dal bagno, lanciandolo con precisione sul letto con un piccolo tonfo.

- Aprilo a metà – tagliò corto, incrociando le braccia e appoggiandosi alla parete di fronte il letto.

Ian, incuriosito, si tolse finalmente le mani dagli occhi, rivelandoli lucidi e rossi. Mickey represse con tutto se stesso l’impulso di avvicinarglisi.

Campo gravitazionale. Bisogna stare attenti.

 

Sfogliò il giornale con lentezza, cercando di capire. Aveva il cuore capovolto e sentiva sempre più la mente cedere. Gli capitava spesso, troppo spesso. Così spesso che era quasi la norma, ormai. O troppo su o troppo giù. Si morse forte l’interno della guancia: il dolore lo rendeva più lucido.

Quando si ritrovç fra le mani i lembi logori della fotografia, le mani gli tremavano tanto che sembrava sull’orlo di un attacco epilettico. Le lacrime iniziarono a scendere, implacabili.

Fu un sollievo, perché il nodo gli impediva di respirare.

Prova a baciarmi e ti strappo la lingua.

Togli quella mano dal vetro.

Pensi che siamo fidanzati? Sei solo una bocca calda per me!

Mi sei mancato.

Ehi, Angie, vuoi scopare?

Chi è quello, tuo nonno?

Se vuoi mollare quel posto di merda puoi stare da me.

E’ solo un pezzo di carta!

Se lei si scopa altri uomini, perché non dovrei farlo io?

Non farlo.

Ho passato tutto il giorno a cercare il tuo culo.

Ian.

Non sapeva se le sue gambe avrebbero retto, ma Ian le ignorò. Ignorò il disfarsi del suo corpo e della sua coscienza, ignorò il fatto che la sua mente stesse nuovamente planando nel vuoto, ignorò il fatto che probabilmente sembrava un invasato – e che probabilmente lo era – e ignorò il fatto che probabilmente Mickey lo avrebbe respinto.

Si lanciò fra le sue braccia spingendolo contro la parete. Rannicchiò il volto nell’incavo del suo collo: profumava di colonia. Coi pugni strinse forte i lembi della sua camicia, pronto a lottare contro le resistenze dure del ragazzo.

Invece, sentì delle braccia esitanti, ma forti, cingergli le spalle. Mickey era più basso di lui, e Ian per potersi rifugiare nel suo abbraccio doveva piegare le ginocchia in uno sforzo che il suo corpo in quel momento non poteva sorreggere: fu così che entrambi si ritrovarono a terra, Ian singhiozzante e fuori controllo raggomitolato sul petto di un Mickey sgomento.

- Hei, hei… ma che cazzo…

- Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace… - mormorava Ian, fra i singhiozzi, non la smetteva più – non so più cosa mi succede, mi capita sempre…

- Di scoppiare a piangere come una fottuta femmina?

- Di scoppiare. A ridere, a piangere, non lo so… Non riesco a controllare le mie reazioni – si asciugò il viso con i palmi delle mani, allontanandosi quel tanto che bastava per guardare Mickey negli occhi – C’è qualcosa che non funziona in me. E’ come un orologio rotto. Non lo so… Non riesco… a concepire un equilibrio… Mi sento precipitare continuamente senza toccare mail il suolo e ho la nausea e mi faccio schifo e non so, non so cosa ho fatto negli ultimi mesi so solo che non mi riconosco quando mi guardo allo specchio e non riesco a respirare e…

- E…?

- E tu mi sei mancato continuamente.

Fu allora, in quel preciso momento. Ian pensò che forse era stato tutto un sogno, perché davvero, come era possibile? Ma se anche era un sogno, sarebbe andato bene. Bastava non svegliarsi.

Mickey chiuse la distanza fra di loro in un leggero, tenerissimo bacio. Un bacio che nella realtà – prima – non era mai accaduto, mai con tanta silenziosa mestizia, mai con quella naturalezza così intima… Mai con quella serenità così appagante, così placida, senza rabbia, senza fretta, senza rancore, senza paura. Le loro labbra si sfiorarono piano, appena socchiuse, ancora e ancora, docili, in una danza impalpabile.

Quando si allontanarono, dopo quelle che sembravano ore, stavano entrambi sorridendo con espressione stralunata. Ian aveva smesso di piangere, ma non stava neppure ridendo, e di questo si sorprese. Per la prima volta, da mesi, gli sembrava di avere un secondo, solo uno, di pace. Sapeva che non sarebbe durato a lungo – quando mai la felicità dura più di un secondo? – ma finché c’era, ne avrebbe approfittato.

I loro occhi non si staccavano più.

- Che ne dici, dormiamo un po’? – disse Mickey con finta naturalezza, sogghignando un po’ all’espressione stupita di Ian.

- Intendi qui? Insieme?

Fai quello che cazzo vuoi, ma se fossi io ad aver rincorso il culo del mio ragazzo per tutto il giorno dopo non averlo visto per mesi, mi piacerebbe poter aprire gli occhi e trovarmelo lì, a un centimetro dalla mia faccia.

- Tutti gli altri letti sono occupati.

Si spogliarono velocemente e si infilarono sotto le coperte. Ognuno dal suo lato. Non si abbracciarono, nessuno dei due pensò di invadere lo spazio dell’altro. Non era necessario, per sentirsi vicini. Si voltarono uno di fronte all’altro, gli occhi ancora incollati finché non si chiusero silenziosamente, cadendo in un sonno senza sogni.

Non si staccavano più.

 

 

  
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