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Autore: I Fiori del Male    11/03/2014    4 recensioni
Alcuni credono che il nostro mondo sia governato da un’entità superiore, che traccia un percorso prestabilito per ciascuno di noi. Altri preferiscono pensare che caos e caso regnino sovrani. Nessuna di queste ipotesi è valida per Panem, dove la vita di ognuno si regge sulle scelte e sul coraggio che si deve avere per compierle, sull’abilità di governare le fiamme, notoriamente volubili, ma capaci di grandi cose, se utilizzate con abilità e saggezza.
- Io e Haymitch ci guardiamo, non appena lui raggiunge il palco, e senza che Effie lo dica ci stringiamo la mano con gli occhi fissi l’una nell’altro. Un accordo ci unisce. - [Capitolo I]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- 13 –


Parte I: [Peeta’s POV]
 
Sto proprio passando oltre la porta socchiusa della camera di Katniss, quando sento la sua voce chiamarmi sussurrando.

Subito dopo la censura dell’intervista siamo tornati nell’attico e lei è corsa dritta nella sua stanza. Sentirla pronunciare il mio nome ora è quindi qualcosa che mi sorprende e mi scalda dentro, ma fa anche crescere in me una certa ansia: non so mai cosa fare quando sono con lei, devo sempre lottare con la sensazione di star camminando su un filo sottilissimo, sospeso a centinaia di metri d’altezza.
Eppure ricalco i miei passi ed entro, aprendo piano la porta mentre i miei occhi cercano di abituarsi alla semioscurità della stanza. Riesco a vedere la sua sagoma sotto le lenzuola di seta in controluce, definita dalla luce pallida della luna che s’insinua tra le persiane; curve sinuose che ho già stretto tra le mie braccia e che stringerei in eterno, se solo lei me lo chiedesse. La guardo senza accennare una qualsiasi risposta, aspettando che dica qualcos’altro. Almeno fin quando l’ansia e la curiosità non prendono il sopravvento.

- C’è per caso qualcosa che non avrei dovuto dire o fare? –.  Fiorisce nella mia mente un vivido ricordo del mio stesso sangue sparso a terra fra cocci di vetro; io che osservo dal basso l’espressione di Katniss, furiosa per la mia dichiarazione, convinta per qualche sconosciuta ragione che stessi cercando di screditarla agli occhi del pubblico, di indurre tutti loro a scegliere me.

Davvero mi credeva capace di continuare con la mia vita anche dopo la sua morte?

La sento spostarsi sotto le lenzuola.  – No. – sussurra, la voce soffocata dalle lenzuola.

 Penso a qualcos’altro da dire ma poi mi convinco a tenere la bocca chiusa. Stringo l’angolo del mobile accanto a me per impormi di non muovere un solo passo verso di lei. Nemmeno riesco a pensare a come vorrei passare quella che lei è convinta possa essere la sua ultima notte.

- Peeta, non riesco a vederti. Potresti avvicinarti? –

- Posso accendere la luce. –. Una risposta stupida che vien fuori prima che io possa trattenermi.

- No, non accenderla, mi da fastidio. Avvicinati. –.

Mi maledico da solo mentre muovo il primo passo verso di lei. Un altro. Un altro ancora. Poi incontro la superficie morbida del materasso e mi siedo.

- Io... – comincia, e non so se è la stanchezza per una giornata che pare non voler finire o il fatto che pensa seriamente di morire a farla parlare così.

- Peeta questo... potrebbe essere il mio ultimo giorno. – sospira sulla mia pelle. E’ seduta adesso, il viso giusto a un palmo dal mio. E’ terrorizzata, e si vede. Sento il cuore stringersi perché ci sono cose che io so, ma non posso in alcun modo svelarle, pur sapendo che la farebbero sentire, se non del tutto tranquilla, quantomeno un po’ meglio.

Scuoto la testa. – Non è così. Ti riporterò a casa, vedrai. E’ una promessa. –

- Non dipende da te! Non capisci... Snow farà di tutto per farmi fuori, ordinerà al capo stratega di farmi esplodere una mina sotto i piedi e...-

- No, Katniss! – esclamo, afferrando le sue spalle mentre la mia mente elabora quel che lei ha appena detto, in un perverso gioco masochista.  – No... –

La stringo a me e la sento trattenere il respiro, sorpresa almeno quanto lo sono io nello sfiorare di nuovo la sua pelle morbida. Chiudo gli occhi, immaginando quel che potrebbe farmi Haymitch se sentisse quello che sto per dire adesso.

- Ascolta. Non posso dirti come, ma so che non ti accadrà nulla e che tornerai a casa, d’accordo? – sussurro nel suo orecchio, tenendola stretta.
Lei tenta di divincolarsi. – Che stai dicendo? -. La stringo più forte e sento i suoi muscoli rilassarsi.

- Non posso spiegarti Katniss. Però so che tornerai e devi fidarti di me, d’accordo? Solo... cerca di fingere di non saperlo. Nessuno lo sa, nemmeno Haymitch.  Solo io, e nessuno Katniss deve saperlo, chiaro? Meno che mai Snow e gli strateghi. –

- Peeta... io non so cosa tu abbia in mente ma qualunque cosa sia, non funzionerà! – risponde, e d’un tratto senza preavviso la sento scuotersi mentre le sfugge un solo, debole singhiozzo. Dopo un attimo in cui cerco di far si che non mi si spezzi il cuore, deglutisco e le sollevo il viso alla luce. E’ ricoperto di lacrime.
Non so che fare. Lei piange in silenzio, a occhi stretti, i pugni chiusi in grembo, come se si vergognasse di quel che le sta succedendo. Forse però era ora che piangesse, ricordo che non pianse nemmeno il giorno della morte di suo padre e mi chiedo quanto dolore ci sia, ammassato dentro di lei.

E mentre mi chiedo queste cose e penso a cosa mai potrei fare ora e a quanto il mondo sia profondamente ingiusto, mentre penso a quante ne abbia passate e quante potrebbe doverne ancora passare; non mi rendo conto di nulla e le mie labbra sono sulle sue. La sento irrigidirsi e, proprio quando comincio a credere che forse dovrei lasciar stare, sento le sue dita solleticarmi la nuca e afferrarmi i capelli; la sua bocca si apre, la sua lingua sfiora delicatamente la mia.
E’ lei a staccarsi, rimanendo però a pochi centimetri da me, le nostre fronti l’una contro l’altra.

- Ti prego... – sussurra. Non so cosa voglia dire, forse mi sta chiedendo ancora una volta di salvarla; perché non crede a una sola parola di quel che le ho detto.

Eccola di nuovo, quella sensazione. Sono un equilibrista su un filo e un solo passo falso per me significa la morte.  

La bacio di nuovo, sfiorandole il collo mentre lei lo tende in risposta, lasciando cadere la testa di lato. I capelli sciolti mi solleticano le mani. Le intreccio in quella massa scura e profumata di sapone, rimpiangendo il suo odore di foresta e pensando che forse nemmeno io so più di casa; ma non fa niente, conosco da una vita la ragazza che ho tra le braccia, la considero una parte di me anche se per molto tempo nemmeno mi sono azzardato a guardarla.
Già lo sento ardermi dentro, il fuoco che mi ha tenuto a galla per tutto questo tempo e che tutti attribuiscono a lei. La ragazza in fiamme, dicono, eppure quello che brucia da tutta una vita sono io.

- Resta con me. – dico. Non so perché sto ripetendo le sue parole. Forse spero che le riconosca, che capisca che proviamo le stesse cose, che non voglio vederla andare tanto quanto lei vuole vedermi restare e che sto facendo e farò tutto quello che posso. Calcio via le scarpe e la trascino con me al centro di questo letto che sembra immenso per una sola persona e troppo piccolo perché contenga noi due adesso, scossi da un’urgenza che viene da qualche parte nel profondo e che non possiamo, e forse nemmeno dobbiamo, capire.

Mi slaccia la camicia, un bottone dopo l’altro. Le sfilo la vestaglia, assaporo la sua pelle con gli occhi, con le dita e con le labbra ovunque mi sia concesso arrivare mentre lei si serve allo stesso modo di me.

Siamo due disperati adesso, anche se non sono mai stato sicuro di niente che la riguardasse sono certo che mi stia amando tanto quanto la amo io, e con altrettanta profonda tristezza e disperazione e urgenza, perché siamo dovuti arrivare a questo per spingerci a comprendere ciò che siamo dentro, per accettare di unirci anche in un modo così carnale.

La sento stringersi a me, da qualche parte ai margini della mia coscienza godo della sensazione delle sue gambe morbide aggrappate ai miei fianchi mentre riesco a farla ancora una volta mia.

Non c’è spazio per niente in questa stanza buia all’infuori di noi due. Lei così triste e fragile, io così profondamente disperato, consumato dentro da questo ruolo di mentore che non dovrebbe essere mio. Costretto a vederli partire, lei che amo così tanto, e lui che ho imparato a stimare. E questa disperazione mi spinge a tentare l’impossibile: vorrei annullarmi in lei, perdere il senso della mia esistenza. Forse è per questo che spingo così forte e lei geme così tanto. Forse il sangue ha preso fuoco nelle mie viscere perché è ora che io mi consumi del tutto con quest’amore.
 
Non sento null'altro che il suo nome nella mia testa, lo ripeto come se quelle sette lettere potessero spiegare davvero tutto quello che provo. Non c’è spazio per niente all'infuori di questo. Sono circondato dalla fame, dalla paura e dalla morte, dalla sofferenza e dalla perdita, eppure non c’è modo che io riesca a pensare a nient’altro che a quest’amore adesso, a questo dono che vorrei farle, alle ferite che vorrei guarire. Sarei felice se potessimo vivere solo d’amore. Dimenticare tutto abbandonandoci ai sentimenti. Eppure non è possibile. Vado avanti, la stringo più forte, la bacio, la amo al meglio delle mie possibilità, tentando solo di dimenticare che ci sarà un momento in cui dovremo entrambi varcare di nuovo la soglia di questo mondo reale, di Panem che soffre, degli Hunger Games e della morte.  

Capisco che ci sono momenti in cui su quel filo non ci si può più camminare. Quando il cuore si riempie d’amore fino a scoppiare e gli occhi non riescono a trattenere la bellezza di un momento come questo, e si è pesanti perché pieni fino all’orlo di sentimenti che hanno una gran voglia di esplodere. Allora scelgo di saltare giù portandola con me.

Veniamo insieme.
 
 
La prima cosa che sento è il dolore. Occhi che urlano la loro protesta, feriti da un raggio di sole.
Oggi è il giorno.
Questa invece, è la prima cosa che penso. Guardo l’orologio: mancano solo due ore.

Proprio mentre cerco di pensare a come dovrei svegliarla, a cosa dovrei dirle non appena apre gli occhi, il bussare ritmato e insistente di Effie la strappa senza pietà alle braccia di morfeo, facendomi sfuggire un’imprecazione.
Si tira su lentamente, appesantita dal sonno, e mi guarda senza proferire parola. Poi si alza e va a chiudersi in bagno.
Anch’io mi alzo, rabbrividendo quando la mia pelle nuda entra a contatto con l’aria più fredda fuori delle lenzuola.

Eccola di nuovo, la Katniss che non parla e non si fa capire e scappa. Se prima era difficile averci a che fare, adesso che conosco momenti in cui può essere diversa, è ancora più complicato per me cercare di non sbagliare mai con lei. Vorrei poterla tenere con me, e parlare, e consolarla fin quando non dovrà alzarsi per forza, ma non me lo lascerà fare, lo so.

- Katniss io... torno in camera mia, devo fare una doccia. – la avviso da dietro la porta, e lei non risponde. Recupero i miei vestiti e me li rimetto addosso alla meno peggio, giusto per poter passare da una camera all’altra, dove me li tolgo di nuovo e mi lascio cadere sul mio, di letto, che è freddo  e troppo ordinato.

Passa poco, forse dieci minuti, prima che Effie venga a chiamare anche me e io debba risponderle stancamente che farò del mio meglio per alzarmi il più presto possibile. E lo faccio. Come fossi un automa, mi dirigo in bagno per fare una doccia, poi mi vesto ed esco dalla mia stanza per andare nel salone. Effie mi aspetta seduta sul divano. Mi aspetto di vedere Katniss assieme a lei, ma c’è solo Haymitch e, dall’aria sconfortata dipinta sul suo volto, ne deduco che Effie abbia fatto sparire qualsiasi alcolico in giro per il centro, impedendogli di dimenticare che tra poco verrà spedito in un’arena mortale.

- Katniss? – chiedo.

Haymitch sbuffa, guadagnandosi un’occhiataccia di Effie, che invece si degna di rispondermi: - A prepararsi. Visita dal medico. -
 
 
 
Parte II: [Katniss’ POV]
 

- Signorina Everdeen, buongiorno. Prego, si accomodi pure. –

La dottoressa che ho di fronte è senza dubbio di Capitol. A parte Cinna, non esistono persone dalle apparenze normali qui, e i medici a quanto pare non fanno eccezione giacché questa donna certo non indossa un misero camice bianco, come quelli che mia madre possiede e usava da giovane in farmacia. Il verde sgargiante della divisa fa a pugni con i capelli rosa confetto, vaporosi e in tinta col rossetto, e l’insieme fa si che fin dal primo secondo gli occhi comincino a bruciarmi e la mia pazienza, già ridotta al minimo, arrivi infine a zero.

- Posso chiamarti Katniss? – Chiede, sfoderando un fintissimo sorriso a trentadue denti. Potrei vomitare rabbia se aprissi bocca adesso, così mi limito ad annuire lentamente, e lei si rilassa sulla sedia in vernice e metallo.

- Bene Katniss, immagino tu sappia cosa sto per chiederti. D’altronde, anche se non sono stata io a farlo, l’anno scorso deve esserti stata fatta la stessa domanda. Te la ripeterò comunque: quand’è stata l’ultima volta che hai avuto il ciclo mestruale? –

Detesto queste domande di carattere personale. Sono perfettamente cosciente del fatto che si tratta di una cosa del tutto naturale, e si, lo scorso anno mi è stata fatta la stessa domanda. Immagino che i responsabili del programma abbiano giudicato di cattivo gusto l’idea di mostrare le donne alle prese coi loro problemi mensili, optando quindi per un trattamento che bloccasse il ciclo. Comunque mi disturba sentire certe domande e ancor più rispondere. Faccio fatica perfino con mia madre, e forse ne avrei fatta di meno se anche gli assorbenti non fossero stati un bene di lusso ed io non avessi dovuto arrangiarmi come potevo per fare in modo di non perdere sangue dappertutto. Comunque so di dovermi sforzare di risponderle, così inghiottisco il mio disappunto e mi decido ad aprire bocca.

-Sono incinta – osservo glaciale, ma lei scuote la testa.

-Potrai ingannare il pubblico delle interviste, ma non noi medici. - osserva. – Sai bene che siete tutti monitorati, non appena arrivate qua. La prima notte vi è stata data una leggera dose di sedativo nella cena, di modo che potessimo prelevare un campione di sangue da analizzare. I tuoi valori sono tutti nella norma. Dunque... quand’è stata? –

Sbuffo, scocciata. – Sono passate sette o otto giorni fa. – e lei annuisce.

- Perciò non avrai bisogno del trattamento, molto bene. – osserva. – Ora, un’ultima domanda: Tu e il signor Mellark avete fatto sesso non protetto, in questi giorni? –

Mi sento il viso in fiamme e subito dopo l’imbarazzo sale la rabbia. Che razza di persone sono queste? E perché mai dovrebbero farsi i fatti miei? Cerco di trattenermi dal gettarle addosso tutti gli insulti che mi vengono in mente, e la rabbia e la tristezza di questi ultimi giorni e di questa vita, mentre d’un tratto ricordo, con un brivido, che si, in effetti io e Peeta abbiamo fatto l’amore senza protezioni. Il panico prende il sopravvento: potrei essere davvero incinta ed essere responsabile dell’ennesima morte innocente.

- No – rispondo comunque, fredda. – Ora devo andare. – aggiungo poi, lasciando il mio posto.

- Buona fortuna per i giochi. – si limita a rispondere lei, ma da come lo dice, sembra più un augurio di morte.

Me ne vado senza dire una parola, mentre tutta la mia rabbia si riversa sulla porta che sbatte alle mie spalle e un conato di vomito mi assale. Premo una mano sul ventre, pregando con tutto il cuore di sbagliarmi.
 

Cammino. Guardo avanti stando in assoluto silenzio perché non so cosa dire ora. Guardo Peeta di sottecchi mentre si rivolge a Haymitch, forse per augurargli buona fortuna, perché quale consiglio potrebbe mai dare a un uomo che è stato mentore per ventiquattro anni della sua vita?
Lo guardo e non riesco in alcun modo a staccargli gli occhi di dosso. Osservo il suo profilo, il modo in cui il sole si riflette sui capelli biondi e illumina gli occhi azzurri. La linea dura della mascella. Il suo modo di camminare. Ascolto con attenzione la sua voce, cercando di non perdermi nei ricordi della scorsa notte.

Questa è quasi certamente l’ultima volta che lo vedrò.
Questo, per quanto lui si ostini nell’assicurarmi il contrario, è un addio e anche se voglio convincermi del contrario, mi sto già spezzando.

Nemmeno mi rendo conto di essere arrivata all’hovercraft. Ho percorso tutta la strada guardandolo e lanciando ogni tanto uno sguardo al pavimento per vedere dove mettevo piede.

- Allora, Haymitch... lo sento dire. – Il nostro mentore lo abbraccia. Effie lo osserva senza parlare, la mascella contratta. Mi sembra di sentire il dolore che prova. Poi Haymitch si volta verso di lei, facendo un debole sorriso ironico.

- Niente più ubriaconi tra i piedi, dolcezza. – sputa fuori con pungente ironia. Non che io sia una campionessa nei rapporti sociali, ma questo sarebbe fuori luogo perfino per me, viste le condizioni pietose in cui Effie evidentemente si trova.
Poi succede qualcosa che non mi aspetto. Effie afferra la mano di Haymitch e all’improvviso crolla in un pianto discreto e sommesso contro la sua spalla. Sia io che Peeta restiamo di sasso di fronte a una cosa così poco da Effie, ed Haymitch stesso, non sapendo come comportarsi; si limita a cingerle le spalle col braccio libero. E’ solo un attimo, poi Effie si separa da lui, si avvicina a me, mi stringe in un piccolo e breve abbraccio e lascia la pista d’atterraggio dell’hovercraft in fretta e furia.

Haymitch si avvia verso la scala dell’hovercraft senza dire una parola. Io e Peeta lo osserviamo mentre la corrente lo immobilizza e sparisce all’interno del grosso velivolo. Per un attimo restiamo in silenzio mentre il vento mi scompiglia i capelli, ancora sciolti, e fa svolazzare qualche ricciolo di Peeta che cattura inevitabilmente il mio sguardo; poi lui si volta verso di me.

- Credi a quel che ti ho detto, Katniss. –

Lo guardo. So che mi ama. Posso solo immaginare cosa significhi per lui vedermi partire per gli Hunger Games.  E per me cosa significa lasciarlo qui, senza poterlo vedere mai più?
Mi volto di nuovo verso l’hovercraft e solo allora realizzo il tutto. Il ricordo di quelle due notti d’amore, dei suoi baci, del suo modo di abbracciarmi nel sonno, delle sue parole di conforto... il ricordo delle sue mani che viaggiano sulla tela stringendo un pennello intinto di colore e quegli occhi così azzurri che mi fissano, mentre lui mi dice che il suo colore preferito è l’arancio del tramonto. Le pagnotte di pane bollenti strette al mio petto mentre corro disperata, sotto la pioggia battente, verso casa. I biscotti di suo padre tra i denti di leone, sulle rotaie, lui che mi osserva seminascosto dietro una colonna proprio il giorno in cui mi ricordo ciò che m’insegnò mio padre e decido di ricominciare a lottare per la mia vita e per quella di Prim.
Vorrei esistessero parole per l’enorme senso di vuoto che sto provando adesso e la voragine che mi si è aperta nello stomaco, ma non ne ho. Certo, non sono proprio brava con le parole.
Continuo a fissarlo e lui a ricambiare il mio sguardo, poi mi attira a se, ed io so cosa vuole fare. Vuole baciarmi, e farà male, le sue labbra saranno ruvide e calde e le mie potrebbero diventare salate di lacrime, e potrei non dimenticare mai più questo momento, e ritrovarmelo davanti come ultimo ricordo quando morirò. Non voglio. Sono stanca di soffrire, ma quando davvero sento le sue labbra sulle mie, la voragine nello stomaco si allarga ancora ed è come se all’improvviso avessi una fame terribile, e ne volessi di più. Come con quell’unico bacio nella grotta umida degli scorsi giochi. E come allora mi chiedo che cosa sia e, prima ancora di riuscire a darmi una risposta, ci siamo già separati e sto camminando, rigida come una scopa, verso la scala dell’hovercraft.

Prima che la corrente possa immobilizzarmi, decido di voltarmi verso di lui. E’ lì che mi osserva, senza muovere un muscolo. La corrente blocca anche i miei occhi che rimangono fissi nei suoi fino alla fine.
 
- Il braccio. – m’intima un pacificatore. Tendo automaticamente il braccio destro e una siringa m’inietta il localizzatore, provocandomi una leggera fitta di dolore mentre il mio volto si contrae in una smorfia.

Sento Johanna ridacchiare, forse proprio della mia reazione, ma decido di non darle peso. Niente ha più importanza, sto per sparire dalla faccia di questo mondo quindi poco m’importa delle risate che Johanna Mason si fa alle mie spalle.

In pochissimo tempo siamo già arrivati ed io mi ritrovo in una stanzetta grigia e spoglia. In un angolo, la cabina con la quale salirò nell’arena brilla di una sinistra luce azzurrina.  Devo aspettare un solo minuto prima che la porta automatica di metallo si apra con un sibilo e Cinna entri nella stanza, portando con sé gli abiti che indosserò quest’anno nell’arena.

Li osservo per mezzo minuto, quando lui li appoggia sul tavolo, perché hanno qualcosa di familiare che però mi sfugge. Poi nel mio cervello si accende una lampadina e una profonda tristezza m’invade perché quella è la stessa tenuta che toccò ad Haymitch nei suoi giochi: Pantaloni marroncini, di quelli sportivi e resistenti con molte tasche, maglietta bordeaux. La giacca e gli stivali però sono gli stessi che ho indossato nella mia edizione, e infatti mi sembra di avere un dejà vu quando Cinna, una volta che ho indossato i vestiti, apre una specie di risvolto lungo la linea dei bottoni della giacca, svelando la mia spilla dorata e portandosi un dito alle labbra.

- Ehi, ragazza in fiamme... – comincia. Non ce la posso fare. Mi sforzo di guardarlo negli occhi mentre fa quello che è più ovvio che faccia, in altre parole darmi l’addio.

- Io non posso scommettere. Ma se potessi, punterei su di te. – dice invece – Tu sei la ragazza in fiamme. Brucia tutto quello che hai intorno senza esitazioni, e tornerai. Ne sono certo.  –

 - Trenta secondi - Dice una voce, la stessa che ci ha ordinato di entrare, uno per volta, nella palestra del centro d’addestramento per la valutazione finale. Cinna toglie le mani dalle mie spalle e annuisce, io mi sforzo di restare impassibile mentre dentro esplodo, urlo, piango. Vorrei non esser vista da nessuno per potermi aggrappare saldamente a Cinna e piangere fino a non avere più lacrime, ma mi accontento del suo modo di infondermi coraggio.

Mi volto verso la cabina, così che riflessa sul vetro adesso vedo la maschera di terrore che è il mio volto. Entro e la porta di vetro si chiude dietro di me.

- Venti secondi -. Guardo Cinna, che ricambia il mio sguardo senza muoversi, in attesa che la piattaforma cominci ad alzarsi. A parte la voce che esegue il conto alla rovescia, tutto il resto sembra come ovattato, qui dentro. Mancano quindici secondi quando vedo Cinna voltarsi di scatto. Due pacificatori entrano nel mio campo visivo molto in fretta. Il pugno di uno di loro si scontra con la mascella di Cinna, che cade a terra, tenta di rialzarsi, ma è bloccato dall’altro pacificatore che inizia a prenderlo a calci nello stomaco. Cinna si trascina verso la cabina di vetro, verso di me.

Dieci Secondi

Uno dei due pacificatori, non appena Cinna arriva a toccare il vetro con una mano, lo prende dal colletto della t - shirt e fa sbattere la sua testa sul vetro con violenza. Il tonfo risuona nella cabina.

- CINNA! –

Otto secondi

Un'altra botta

Sette secondi

Un’altra. Il pacificatore tira di nuovo Cinna indietro e vedo una grossa macchia di sangue sul vetro.

Sei secondi

Il sangue di Cinna scende lentamente lungo il vetro, mentre uno dei pacificatori lo trascina sulla schiena.

Cinque secondi

Cinna mi guarda e sorride debolmente. Sento qualcosa spezzarsi dentro.
­
- No... no... NO! –

Quattro secondi

La piattaforma comincia a salire. Proprio in quel momento vedo gli occhi di Cinna roteare, sparire dietro le palpebre, e il suo corpo rilassarsi.
E’ svenuto. O forse è morto. No... non può essere morto, mi dico. Non Cinna. Non così, non anche lui per colpa mia.

Due secondi dice la voce, e non lo vedo più. Premo le mani contro il vetro. Non riesco a respirare perché non c’è aria, o forse perché Cinna potrebbe essere morto ed io vorrei morire.

Guardo in alto, una forte luce m’investe, sto per uscire all’aperto. Gli occhi si riempiono di lacrime e non sono certa che sia per il fastidio, così le ricaccio indietro. Sono ancora alla ricerca di ossigeno, quando a un tratto mi rendo conto che ce n’è anche troppo. Sono all’aperto.

Non appena gli occhi si abituano, mi guardo attorno. Davanti a me c’è un lago, oltre il quale vedo la cornucopia, la cui superficie dorata brilla in lontananza. Non è mai stata così lontana dalle piattaforme di partenza e mi chiedo quanta gente potrebbe morire prima di riuscire a raggiungerla. Attorno alle sponde del lago c’è qualche zaino, uno è a pochi passi dalla mia piattaforma, ma la cosa mi pare così strana che decido che quello non sarà il mio bottino.

Guardo gli altri tributi schierati sulle piattaforme, i muscoli tesi quanto i miei, gli occhi fissi sulla cornucopia, la mente che viaggia nel futuro prossimo per capire come fare a sfuggire alla morte nell’immediato, perché non sarà per niente semplice arrivare fin laggiù vivi.

Poi lo sento: profumo di fiori, tanto forte da far girare la testa. Dopo qualche secondo sono costretta a scuoterla, per riprendere contatto con la realtà. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in quella fragranza, un terrore che mi attorciglia le viscere. Poi lo capisco: sono rose. E’ il profumo di migliaia e migliaia di rose tutte assieme, forse geneticamente indotto, ma io non potrei mai reagire positivamente a questo profumo, perché pochi sanno che si tratta dell’odore che Snow si porta dietro, assieme al puzzo di sangue. Eppure tutti gli altri sembrano essersi persi. I loro sguardi all’inizio determinati ora vagano per il paesaggio, come fossero meravigliati dalla vista. Tutti sono nelle stesse condizioni, tranne Haymitch.

Lo guardo, lui intercetta il mio sguardo e annuisce, forse capendo che non ci sono cascata; ma c’è qualcosa sul suo viso che mi pare fuori luogo. Impiego qualche secondo di troppo ma poi lo capisco.
Ho visto tante espressioni, tanti modi di fare e di essere sul volto di Haymitch. Cinismo, stanchezza, tristezza, ubriachezza, qualche raro sprazzo di allegria; ma mai e poi mai avevo visto la paura, che adesso invece è dipinta perfino nei suoi occhi.

E i suoi occhi azzurri, che per un attimo mi sembrano molto più simili a quelli di Peeta di quanto avessi mai creduto, sono l’ultima cosa che vedo, prima che il gong suoni e le mie gambe addestrate dalla paura inizino automaticamente a correre. 


*angolo autrice*

Salve a tutti! :) Comincio col chiedervi immensamente scusa per tutto il tempo che avete atteso. Ho cercato di ripagarvi tentando di dare del mio meglio anche in questo capitolo, e spero che vi sia piaciuto. Cercherò in futuro di aggiornare più spesso, anche se purtroppo non posso garantirlo. D:  Come sempre mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, quindi recensite :D So che siete in tanti a seguirmi e vi ringrazio tutti uno per uno, ma mi piacerebbe tanto sapere  perché  seguite, cosa secondo voi potrebbe migliorare, e tutto quello che vi passa per la testa :)
Nel frattempo, se avete voglia di leggere qualche altra bella storia passate da MatitaGialla, mi raccomando :') 

Un bacio :*

 
   
 
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