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Autore: Hp_Nameless    20/03/2014    1 recensioni
Salve a tutti voi, popolo di Efp. Vi starete chiedendo: “Perché questa matta mette una frase come titolo di una storia? ” Ebbene, questa è una bellissima frase dei Beatles (che tradotta, per chi non lo sapesse, è: L’amore è vecchio, l’amore è nuovo, l’amore è tutto, l’amore sei tu. Sì, in inglese funziona meglio!) che rispecchia molto la storia, e per questo è stata scelta come titolo. Questa è la storia di Justin Bieber, all’apparenza il solito bulletto, e Jennifer Hall, la sua imprevedibile ragazza.
ATTENZIONE: la storia è un cross-over con Eric Saade, personaggio di spicco verso la metà della storia.
-Amore ma dove mi porti?- chiesi con insistenza a Justin
-Smettila Jen, è una sorpresa- rispose lui continuando a trascinarmi per un braccio. Era il giorno del mio diciassettesimo compleanno e Justin aveva deciso di farmi una sorpresa.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Love is all, Love is new, Love is all, Love is you
Capitolo 16: Love is you
 

Dopo la lettera di qualche settimana prima, Justin non si era più fatto sentire, cosa che non fece che incrementare la mia rabbia.
Doveva prendere una decisione: me o loro. Non volevo interrompesse i rapporti del tutto, erano pur sempre quello di più simile ad una famiglia che aveva, ma pretendevo che almeno avesse chiarito con loro.
E invece, non solo non aveva chiarito, ma nemmeno si era più fatto vivo!
 
Era una mattina inoltrata d’inizio agosto, faceva caldo ed io me ne andavo in giro per la città con Ginny, Rose e Joshua, a spasso tra bar e bancarelle, prima che ricominciasse l’anno scolastico e io dovessi ricominciare a studiare da matti.
Quella mattina, però, mi sentivo strana, come se ogni due passi ci fosse qualcuno che, alle mie spalle, ne compiva solo uno.
Più volte mi voltai a controllare, ma non vidi mai nessuno.
Ad un tratto mi sentii chiamare e mi sembrò di vedere una testolina bionda sparire dietro una colonna, ma poi mi convinsi di star delirando per colpa del sole così convinsi Joshua e Rose a tornare a casa. La prima però, la perdemmo per strada quando incontrò il suo ragazzo e andarono a farsi un giro solo loro due. Joshua era tentato di seguirli, ma alla fine lo convinsi a lasciar perdere e lo riportai a casa.
Ginevra, che era stata buona per tutto il tempo, davanti al portico iniziò un pianto disperato, così la misi nella culla per farla dormire un po’ e crollò in un paio di minuti.
Approfittai della momentanea tregua per riposarmi un attimo, così mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi, ma subito mi vibrò il telefono, perciò fui costretta a rialzarmi.
Era un messaggio da un numero privato e diceva: “Ti amo. Sei bellissima. Vieni al parco”.
Restai a fissare lo schermo per un paio d’interminabili minuti, poi mi alzai, decisa di andare al parco.
-Dove vai?- domandò Joshua osservandomi stranito mentre marciavo verso la porta.
-A commettere un omicidio- professai sicura sbattendo il sopracitato infisso con molta poca delicatezza.
Oh sì, avrei ucciso Justin Bieber!
Joshua probabilmente rimase sbalordito perché mentre sbattevo la porta avevo sentivo il suo sguardo incuriosito sulle spalle, ma poi doveva aver deciso di non contraddirmi: mai contraddire una ragazza suscettibile con una bambina da crescere da sola.
Il parco non distava molto da casa mia, ma il tempo che impiegai a raggiungerlo mi sembrò un’eternità perché continuavo a cercare un modo per non ricaderci di nuovo, per non cedere ai suoi occhi, alle sue labbra, alle sue mani… a lui.
Dopotutto l’avevo avuto tutto per me e non potevo negare che la sua presenza nella mia vita mi mancasse da morire.
Eppure, mentre marciavo verso il parco, ricaderci mi sembrava così giusto, così semplice, così… da me. Esatto, era una cosa da me, ma io ero cambiata. La vecchia me, quella ragazzina impacciata e fidanzata, era sparita, sepolta nei meandri della mia testa per lasciar spazio alla piccola grande donna, troppo piccola per essere madre e troppo grande per essere figlia.
Durante questo mio soliloquio interiore nemmeno mi accorsi di aver varcato i cancelli del parco e di star andando direttamente alla nostra panchina.
Anzi, alla panchina di Justin e la vecchia me. Ormai non sarebbe stata la stessa quella ragazza seduta sul blocco di pietra.
-Jen…- borbottò il biondo apparendomi al fianco e guardando stranito il mio ventre quasi piatto.
-Non ho tempo da perdere, Justin, Ginevra è a casa a dormire. Che vuoi?- sbottai leggermente alterata.
Okay, forse non proprio leggermente.
-Ginevra? È una bambina?- domandò lui curioso ignorando le mie occhiatacce.
-Sì, mia figlia è una bambina, e allora?!- domandai retorica calcando sull’aggettivo possessivo.
-Io ecco… non so se… hai… ecco… la… ehm-.
Balbettava di continuo, non lo sopportavo. Eppure non riuscivo a rispondergli così male e nemmeno a mandarlo direttamente a quel paese. Il mio cuore mi diceva che dovevo ascoltarlo.
-Datti una mossa!- esclamai spazientendomi.
Justin si fermò a guardarmi, per un momento fui rapita dalla sua espressione stranamente seria, poi mi costrinsi a riscuotermi e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.
Lui, gli occhi lucidi. Era la seconda volta che lo vedevo con gli occhi lucidi, se si escludono le macchie sulla lettera, e a vederlo così faceva quasi tenerezza.
No. Non devi ricascarci, ricordi?!
-Ti amo- sussurrò a un certo punto tirando un sospiro di sollievo mentre le lacrime gli solcavano il viso. Era così piccolo indifeso in quel momento, senza nessuna convinzione, nessun amico su cui contare, nessun padre dal quale rifugiarsi, nessun fratello con cui confidarsi.
Ci stai ricascando, lo vedi?
Ad un tratto mi riscossi e mi accorsi che erano venute a me gli occhi lucidi.
-Perché piangi?!- gli urlai contro, attaccandolo, «Sono io che dovrei farlo! Sono io quella che è stata abbandonata con un figlio in grembo, sono io quella che ha sperato fino all’ultimo che tu non fossi andato via, sono io quella che ti ha difeso dalla tua famiglia, sono io quella che ha dovuto affrontare la propria famiglia, sono io quella che ha dovuto litigare con il padre, sono io quella che tutti fissano quando cammina per strada, sono io quella che è stata derisa da tutta la scuola, sono io quella che è stata sedotta e abbandonata… Dovrei piangere io, non tu, ma non lo faccio perché non meriti nemmeno una goccia delle mie lacrime».
Gli sputai addosso le parole tutte insieme, un fiume di rimproveri che lentamente lo stava abbattendo, lo vedevo dai suoi occhi sempre più rossi. Mentre urlavo, però, senza riprendere mai fiato, piansi anch’io. Non singhiozzavo né sussultavo, semplicemente le lacrime mi rigavano il viso con tranquillità, come una dolce pioggerella estiva.
Justin cadde, o meglio si buttò a terra, inginocchiandosi davanti a me a testa bassa, mentre tutte le persone presenti ci guardavano come se fossimo due fenomeni da baraccone.
Beh, forse abbiamo dato spettacolo…
-Hai ragione, Jen… Hai perfettamente ragione…- borbottò riscuotendosi un po’.
-Lo so che ho ragione! L’unica cosa che non so è perché sono venuta qui!- esclamai abbassando il tono di voce cosicché non ci sentissero tutti.
-Lo so io!- esclamò alzandosi in tutta la sua altezza. In realtà lo preferivo inginocchiato quando io ero più alta di lui. -Sei venuta perché il tuo cuore ti ha detto di farlo-.
-Non parlare del mio cuore, non sai più com’è! E se pensavi che sarei caduta tra le tue braccia ti sbagliavi Justin, e di grosso anche! Sono cambiata, e ha il dovere di sentirtene responsabile- mi ritrovai ad urlare di nuovo mentre le persone intorno a noi aumentavano ancora di più. Mi era perfino sembrato di riconoscere qualche volto amico, ma non ci feci caso.
-E invece no. Se fossi davvero cambiata non staresti qui, Jennifer. Forse non sarai più una diciassettenne come le altre, ma sei la stessa di ragazza che amo perdutamente da… sempre- concluse lui avvicinandosi.
Avrei voluto respingerlo, avrei dovuto respingerlo, eppure mentre si avvicinava a me con le braccia allargate e l’aria un po’ goffa, gli occhioni ancora lucidi, non riuscivo a muovermi. Ero come impalata, incollata al terreno che mi tratteneva, che impediva di scappare.
Braccia possenti mi avvolsero, e in quell’istante mi sciolsi.
Tutti i miei propositi di non ricascarci e mandarlo a quel paese, impedirgli di conoscere Jennifer, precipitarono con il muro che mi ero costruita nel preciso istante in cui sentii le sue dita stringere la mia pelle. Erano fredde, le mani, ma sono sicura che i brividi non dipendessero da quello.
Mi lasciai andare, stringendolo forte e abbandonandomi alle lacrime così come aveva fatto anche lui; ma non erano lacrime di dolore, oh no, erano lacrime di gioia che mi solcavano il viso mentre io continuavo a sussurrargli di non lasciarmi andare, mai più.
Forse la diciassettenne sciocca e impacciata non era cambiata, aveva solo sentito il bisogno di difendersi.
 
N.d’A
Saalve. So che sono mancata per tanto tempo e che dovrei essere sparita nel nullo, ma mi sento in dovere di completare la storia.
Questo, in principio, sarebbe dovuto essere il capitolo finale, ma visto che non c’è nessuno degli altri personaggi nominato ne ho scritto un altro, che fungerà da epilogo e in cui capirete chi sono le persone che sono rimaste con loro.
Anyway, spero mi lasciate una piccola recensione, e vi dico che il prossimo capito, già pronto e rivisto, lo pubblicherò entro la fine di questa settimana.
A presto
Nameless
  
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