CAPITOLO DUE
“Quando
i maghi abbandonarono il Regno di Theires per fare ritorno all'Isola di
Keladia, anche la magia abbandonò definitivamente la nostra terra.
Secoli di
continui conflitti avevano fatto comprendere a tutti che esseri umani e
maghi
non potevano convivere in maniera pacifica. Vinta la guerra, Re Roland
li
esiliò per sempre dai territori di Theires e prese possesso di Ayril,
il luogo
che fino a quel momento era stato volgarmente chiamato la “Contea dei
Maghi“,
poiché era lì che essi avevano vissuto fino all'esilio. A nessun mago
sarebbe
più stato concesso di vivere fra gli uomini. Fu con la nascita del
sesto ed
ultimo figlio di Re Roland che il sottile velo di pace che si era
faticosamente
instaurato, giunse al termine. La sua venuta al mondo portò
con sé una
sferzata di terrore e sofferenza, non solo per la famiglia Reale, ma
per
l’intero Regno di Theires.”
Frammento
proveniente dalla Biblioteca privata di Re Roland.
Zephiro, Contea di Ayril.
Laar, Consigliere del Re
Cinque uomini vestiti di nero
varcarono le porte del
palazzo reale di Zephiro, nella Contea di Ayril. Erano nobili, a
giudicare
dalla fascia di seta dorata che contornava loro le spalle.
Procedettero l'uno affianco all'altro, attraversando
l'enorme salone delle udienze del palazzo. Non si lasciarono distrarre
dalla
sontuosità della sala, né dai giochi di luce che i raggi solari
creavano
attraversando le gigantesche vetrate poste lungo le pareti. Procedevano
con la
sicurezza e l'aria annoiata di chi ha già visto lo stesso luogo per
troppe
volte. Non c'era nessuno a scortarli, e nessuno di loro teneva lo
sguardo basso
come il protocollo imponeva. I soldati posti all'ingresso della sala,
restarono
immobili e permisero loro di passare senza provare in alcun modo a
fermarli.
Entrambi, accennarono persino un inchino.
I cinque uomini fissavano l'uomo anziano seduto sul trono
in fondo al salone. Una volta che gli furono di fronte,
s'inginocchiarono a
terra. Vi rimasero per qualche secondo, per poi rialzarsi e tornare a
guardarlo. Davanti
a loro trovarono un
vecchio, consumato dalla stanchezza e dall'età. Per quanto sembrasse
non
possedere nemmeno più la forza per muoversi, c'era qualcosa che lo
faceva
ancora apparire regale come sempre. Non era la corona che brillava
orgogliosa
sulla sua testa, e nemmeno i suoi abiti sfarzosi e troppo lussuosi per
chiunque. C'era qualcosa nel suo sguardo glaciale a costringere tutti
ad
abbassare il capo in sua presenza.
Del resto, Roland era stato il sovrano di Theires per
sessanta lunghi anni. Era salito al trono appena quindicenne, dopo la
prematura
morte del padre e nonostante ora apparisse come un fragile vecchio
prossimo
alla morte, vi era
sempre un'aura di
solennità a circondarlo. Bastava un suo sguardo per mettere in
soggezione il
più arrogante degli uomini.
Il Re osservò i suoi cinque ospiti uno per uno, con aria
piuttosto svogliata. Il primo di loro, quello che apriva la fila a
sinistra,
fece un passo avanti. Sembrava il più anziano del gruppo e si fece
portavoce
degli altri : «Ci avete fatti chiamare, padre?»
Le labbra di Roland si mossero, ma non per rispondere alla
domanda del maggiore dei suoi figli. I suoi occhi saettarono per
l'immensa sala
alla ricerca di qualcosa. O forse, qualcuno... In effetti, sembrava
stesse
tentando di chiamare una persona.
«Sono qui, Vostra Maestà.»
Una voce femminile precedette l'arrivo di una figura
incappucciata. Apparve alle spalle del Re, e lo fece in maniera così
improvvisa
e silenziosa da mettere in allarme tutti e cinque i Principi.
Vestiva di grigio, e metà del suo volto era occultato da un
pesante cappuccio. Le sue labbra si piegarono in un sorriso sincero,
capace di
mettere a tacere qualunque dubbio sul suo conto.
«Voi chi siete?» domandò il maggiore dei Principi, le dita
già strette attorno all'elsa della propria spada. Il padre lo ammonì
con un
gesto della mano.
«Devo la vita a questa donna.» dichiarò Re Roland, con voce
stanca ma ferrea. «Mi ha curato da un male che nessun guaritore di
Theires era
riuscito a debellare. Per loro avevo i giorni contati.»
I cinque uomini parvero presi in contropiede e si
scambiarono sguardi confusi. Stavolta fu il terzo a prendere la parola.
«Non
sapevamo aveste problemi di salute.»
«E perchè mai avrei dovuto scomodarmi per mettervene al
corrente?» Il Re sorrise amaramente. «Come se a voi importasse qualcosa
della
mia vita, come se non sapessi che non aspettate altro se non la mia
morte per
potervi contendere il mio trono e il mio regno»
Nessuno di loro osò controbattere, sarebbe stato inutile
provare a convincerlo del contrario. La verità era che nessuno di loro
lo
considerava come un padre. Roland rappresentava unicamente un ostacolo
al loro
vero obiettivo. Erano cinque fratelli... Solo uno di loro avrebbe
potuto
succedere al padre. Avrebbero dovuto affrontarsi per decidere chi
sarebbe stato
il nuovo re. Così funzionava a Theires. C'era stato un tempo in cui
spettava al
primogenito maschio il compito di seguire le orme del padre e governare
il
regno, ma la legge era stata cambiata secoli prima. A seguito di una
maledizione lanciata da un mago, un antenato di Roland ebbe solo figlie
femmine. Egli non considerava nessuna di loro degna di salire al trono,
ma
giunto alla fine dei suoi giorni si vide costretto a prendere una
decisione.
Fece cambiare la legge di successione e decretò che a salire al trono
sarebbe
stata la figlia che fosse sopravvissuta a tutte le altre. Così che
potesse
dimostrare di possedere la forza, la freddezza e la risolutezza degne
di un
sovrano. Fu la sorella minore a diventare regina, e una volta al
potere, non
modificò quella legge. Pensando che avrebbe così evitato inutili
dispute per il
potere, la lasciò invariata. Una guerra ci sarebbe stata comunque per
la
successione, ma non sarebbe rimasto coinvolto il regno. Si sarebbe
consumata
fra le mura del palazzo.
«Questa donna si è guadagnata il mio rispetto e la mia
fiducia, molto più di quanto io ne riponga in voi.» Continuò Roland,
ignorando
gli sguardi truci e sdegnati dei suoi figli. «Ha qualcosa di molto
importante
da dirvi, quindi la lascerete parlare e l'ascolterete. Ubbidirete a lei
come se
le sue parole fossero state pronunciate da me, è chiaro?»
Nessuno di loro osò contraddirlo. I loro occhi saettarono
sulla donna che vestiva di grigio e non si sprecarono a trattarla come
un'ospite.
«E' un vero onore incontrare tutti e cinque i Principi
Guardiani.» Esordì la donna, con un sorriso che a tutti loro apparve
tremendamente falso. «Vostro padre il Re, mi ha chiesto di condividere
con voi
alcune informazioni che, sono certa, troverete parecchio interessanti.»
Notando
che nessuno dei cinque faceva domande, continuò. «Chi di voi è Eiden, il Principe
Guardiano della Contea di
Sheiran?»
Ognuno dei figli del Re governava una delle cinque contee
che formavano Theires. Venivano chiamati «principi guardiani», perchè
non erano
dei veri e propri sovrani. Roland aveva in ogni caso il potere assoluto
su
ognuna delle Contee. Lui lo definiva «addestramento», ma la verità era
che i
suoi figli erano nulla più che delle temporanee balie per quei
territori. La
definizione di «Guardiani» suonava semplicemente meglio. Li lasciava ad
occuparsi di tutte quelle cose noiose come far rispettare le leggi,
occuparsi
delle tasse e delle condanne, mentre lui si godeva gli agi della vita
di corte.
Il figlio maggiore fece un passo avanti. «Io, mia signora.»
dichiarò, sforzandosi di mantenere un tono reverenziale.
«So che all'incirca dieci anni fa, avete capeggiato un
gruppo di vostri soldati, per andare ad uccidere una persona. Un
bambino, per
l'esattezza.»
«Le vostre informazioni sono esatte. Fu mio padre ad
affidarmi quella missione e fui onorato di portarla a termine.»
La donna sorrise. Non era un sorriso gentile, tutt'altro.
Aveva un velo di minaccia e derisione . «E ditemi, siete a conoscenza
dell'identità di quel bambino che avete ucciso?»
Il Principe trasalì. Quella era una storia di cui era
proibito parlare. Cercò lo sguardo del padre che lo invitò a proseguire
con un
cenno del capo. «... Era il minore dei miei fratelli.»
«Ne siete certo?»
L'uomo le scoccò un'occhiata irritata. «Cosa state cercando
d'insinuare esattamente?»
«Che abbiate ucciso la persona sbagliata.»
***
Le
strade di Valcalia erano deserte, appena illuminate dai raggi lunari
che
faticavano ad oltrepassare la perenne coltre di nubi che affliggeva
quella
contea.
Lo
strato di sale che ricopriva i ciottoli delle stradine brillava
gentilmente,
riflettendo le deboli luci notturne e quelle delle fiaccole che
danzavano lungo
i muri delle case. Le onde del mare cullavano l'intero
villaggio,
accompagnando i sogni dei suoi abitanti, così come i cigolii delle
barche
ancorate al porto.
A
questi suoni, se ne aggiunse un altro. Quello di passi. Passi di
qualcuno
ancora sveglio, qualcuno tanto folle da non avere rispettato il
coprifuoco.
Un
uomo incappucciato scendeva lungo la via che conduceva al porto. La sua
andatura era sicura, per nulla intimorita all'idea di rischiare di
venire
sorpreso fuori casa dalle guardie.
Non
si guardava mai alle spalle, non controllava se ci fosse o no qualcuno
quando
svoltava in strade secondarie. Proseguiva senza indugio, come
se si
trovasse alla luce del giorno, come se le macchie di sangue dell'ultimo
malcapitato che aveva osato infrangere il coprifuoco, e che ancora
macchiavano
la piazza del mercato, non lo toccassero minimamente.
L'uomo
raggiunse la parte più povera di Valcalia, sebbene in quella città non
esistesse una parte ricca. Più poveri, meno poveri; quella era l'unica
distinzione che si poteva fare.
L'unico ricco era Eiden, il Principe Guardiano. Era il figlio maggiore
di Re
Roland, ed era lui ad amministrare la Contea di Sheiran. Era il
territorio più
grande e più povero di tutto il regno di Theires. Come le altre contee,
anche
Sheiran era afflitta da un'antica maledizione. La sua gente non
camminava sulla
terra, o sulle pietre, o sulla sabbia... camminava su uno spesso strato
di sale
marino. Era
distribuito uniformemente su
tutto il territorio, e rendeva i campi incoltivabili, paralizzava del
tutto
ogni tentativo di allevamento, persino l'acqua dei fiumi era
imbevibile. La
gente di Sheiran sopravviveva con le razioni di cibo e acqua che il
Principe
distribuiva. Ma per ottenerle bisognava rispettare ogni sua legge,
anche la più
crudele. Alla minima trasgressione, si rischiava di venire esclusi
dalla
distribuzione delle razioni e di morire di fame.
Eiden
non era amato dal popolo, esattamente come suo padre. La sua crudeltà,
la sua
prepotenza e la sua nefandezza lo rendevano un vero e proprio tiranno
agli
occhi di tutti. Era malvagio, e quella stessa malvagità l'aveva
trasmessa ai
suoi soldati, le guardie che giorno e notte si aggiravano ovunque. Loro
avevano
qualsiasi potere. Non gli serviva una legge particolare per far
torturare
o giustiziare una
persona, il Principe aveva
dato loro la libertà più assoluta.
Il
Principe Eiden si faceva beffe della disperazione della sua gente e
cercava di
convincerli che l'alto numero di condanne a morte che lui e i suoi
uomini
elargivano erano solo una benedizione, che i condannati sarebbero state
persone
in meno da sfamare, che la loro fine avrebbe significato più cibo per chi restava
in vita.
Nessuno
gli credeva, ma nessuno osava neppure ribellarsi. Il terrore di una
morte
dolorosa paralizza anche gli uomini più coraggiosi…
I
passi dell'uomo incappucciato si arrestarono di colpo. La sua
attenzione parve
soffermarsi sulla porta di una casa apparentemente abbandonata.
C'era
un’insegna appesa al muro, cigolava timidamente cullata dalla brezza
marina. Il
disegno sopra di essa era ormai quasi del tutto cancellato ma l'uomo
riconobbe
quella che un tempo era stata una taverna. Una delle tante di
Valcalia... e una
di quelle che assieme a tutte le altre era stata costretta a chiudere
per la
totale assenza di clienti. Ce n'era solo una che ancora operava, ma non
era
frequentata dagli abitanti della città. Era l'unico punto di ristoro
per i
commercianti stranieri.
A differenza dell'insegna, sulla porta c'era un segno rosso ben
visibile. Non
aveva una forma precisa, era sospettosamente casuale, sembrava una
specie di
"S" storta e allungata . Forse nessuno ci avrebbe mai fatto
caso, ma lui notò subito che quel segno fosse stato fatto da poco.
Per chiunque l'avesse visto quel simbolo non aveva alcun senso, per lui
invece
assumeva enorme importanza.. Sorrise e fu a quel punto che per la prima
volta
si guardò attorno con circospezione.
Sicuro
che non ci fosse nessuno tranne lui, bussò cinque volte alla porta,
assicurandosi con precisione di far passare un paio di
secondi fra un
colpo e l'altro.
Pochi
istanti e la porta si socchiuse appena. L'uomo l'aprì poco di più per
riuscire
a sgattaiolare all’interno e poi la richiuse.
Dentro
alla vecchia taverna in disuso vi era un'oscurità soffocante. L'uomo
infilò una
mano dentro i suoi abiti per tirarne fuori un oggetto luminoso che
scacciò via
parte di quel buio. Una pietra che emanava una luce rossastra e
rischiarò parte
della stanza.
«Korin
?» chiamò, cercando d'illuminare ogni angolo dell’ambiente circostante.
«So che
ci sei, per quale motivo ti nascondi?»
Un colpo.
Poi un altro più deciso, seguito da altri rumori di oggetti che
cadevano a
terra, subito dopo un ragazzino entrò nel raggio luminoso dello strano
oggetto
che l'uomo teneva fra le dita.
Era ruzzolato a terra, incespicando sui resti di un tavolo. Non aveva
più di
tredici anni, era esile, dall'aspetto malaticcio ed affamato, come
tutti gli
abitanti di Valcalia. I suoi occhi scuri erano segnati da profonde
occhiaie, i
suoi capelli erano neri e scompigliati.
Il
ragazzino guardò la fonte di luce con timore, arretrando
istintivamente.
«Potete
metterla via quella?» domandò visibilmente impaurito.
Gli
umani erano soliti essere sia attratti che spaventati a morte dalle
Lacrime di
Luna. C’era il desiderio di possederne una, per quella strana leggenda
sulla longevità
che potevano donare. E poi c’era la paura, dovuta al fatto che fossero
in fin
dei conti delle vere e proprie armi, la fonte di tutto il potere di un
mago.
«Solo
quando vedrò dove metto i piedi.»
Il
ragazzino parve indugiare, ma alla fine si alzò da terra e si mosse
verso un
vecchio camino. La legna al suo interno era fresca, doveva averla
preparata lui
stesso.
Si
inginocchiò a terra e prese a strofinare energicamente due pezzi di
legno. Non
ottenne altro che poche, deboli scintille. Fece parecchi tentativi, ma
nessuno
andò a buon fine.
L'uomo
sospirò con estrema pazienza, quasi intenerito dai disperati tentativi
di
quelle fragili mani, indebolite dalla miseria, di rendersi utili. Senza
fermarlo e sicuro che lui non potesse vederlo, mosse appena le dita
della sua
mano facendo percorrere loro un arco invisibile. L'istante
immediatamente
successivo, delle fiamme presero vita dai due pezzi di legno che il
ragazzino
stava strofinando. Lui si spaventò e perse l'equilibrio, cadendo
impacciatamente all'indietro.
«Fai attenzione.» Gli suggerì l'uomo, nascondendo a fatica il senso di
serenità nel
vedere il volto del ragazzino finalmente sorridente e soddisfatto.
Fu a
quel punto, quando la stanza venne invasa dalla debole e traballante
luce del
fuoco, che si tolse il cappuccio.
Non
fu affatto un uomo a mostrarsi, bensì un ragazzo che dimostrava poco
più di
vent’anni. Eppure il suo sguardo pareva quello di un uomo già anziano
stanco
degli orrori del mondo.Ma non erano unicamente la severità e la
stanchezza della sua espressione a
colpire. Le sue iridi avevano quel particolare colore che lo avrebbe
fatto
condannare subito a morte.
Gli occhi dorati erano il male. Chiunque li possedesse andava
eliminato, poiché
pericoloso e propenso ad uccidere. Eppure, non c’era odio negli occhi
dorati di quel ragazzo. Persino Korin, nell’umiltà
dei suoi tredici anni, vedeva in essi solo tanta tristezza.
«Vi
ha visto qualcuno?» domandò, riluttante.
Il
ragazzo infilò nuovamente la sua Lacrima di Luna nei propri abiti e
studiò
attentamente la stanza. Nient’altro che detriti di legno marcio, resti
di
mobili bruciati e stoviglie in pezzi. L’aria era pesante e odorava di
muffa.
Non era il massimo come nascondiglio, ma sapeva quanto Korin dovesse
essersi
impegnato per trovarlo. Senza considerare i rischi che aveva corso. A
Valcalia
nessuna guardia s’impietosiva davanti a un bambino.
Davanti
alla domanda di Korin, il ragazzo piegò le labbra in un mezzo sorriso.
«Nessuno
può avermi visto.»
Korin
si corrucciò dalla curiosità, per poi lasciare spazio all’entusiasmo.
«Avete
fatto qualche incantesimo?»
«Diciamo
solo che mi sono assicurato che ogni uomo, donna o bambino di Valcalia
dorma
profondamente fino al sorgere del sole. Tutti, persino i ratti nelle
fogne,
stanno dormendo.»
Korin
parve davvero elettrizzato a quelle parole, facendo inevitabilmente
sorridere
il ragazzo. Era talmente raro trovare qualcuno che apprezzasse la sua
natura di
mago…
«Tutti
tranne me e gli altri?» chiese poi, con ancora quell’espressione piena
di
ammirazione a renderlo più simile al bambino che era, anziché
all’adulto che
era dovuto diventare in fretta e furia.
«Tutti
tranne te e gli altri. Il simbolo che ti ho fatto tracciare sulla porta
ha
protetto questa casa dall'incantesimo.» Gli spiegò l’altro. «E a tal
proposito,
forse è il momento che io li incontri questi altri, non credi?»
Korin
annuì, visibilmente ansioso di assistere a quell’incontro.
«Loro
non sanno chi siete in realtà.» Si premunì di avvisare. «Come dovrò
chiamarvi?»
«Prima
di tutto non servono tutte queste formalità, rivolgiti a me come ti
rivolgessi
ad una persona qualunque. Per quanto riguarda il nome, non è necessario
dirlo,
se nessuno lo chiederà.»
Korin
parve poco convinto. «Lo chiederanno.»
«Allora
diremo loro la verità. Sicuramente mi accuseranno di essere un pazzo e
un
ciarlatano, ma come ben sai, ho con me le prove per mettere a tacere
ogni loro
più che giustificato dubbio.»
Korin
parve molto rassicurato, i suoi occhi si erano riempiti di una fiducia
totale.
Lo guardava come un figlio fa con il padre.
Senza
aggiungere una parola, andò dietro i resti di quello che un tempo
doveva essere
stato il bancone dove venivano servite le vivande. Si accucciò a terra,
tastò
il pavimento polveroso per qualche istante, fino a che non si udì un
suono
simile allo scatto di una serratura. A quel punto Korin, alzò alcune
assi del
pavimento.
Una
botola segreta. Nulla di più semplice e niente di più efficace.
Il
ragazzo dietro di lui sorrise soddisfatto. Non poteva trovare aiutante
migliore
di lui.
Dall’interno della stanza nascosta, proveniva una luce molto più
intensa che al
piano superiore, accompagnata da un flebile vociare di persone. Korin
saltò
dentro con un balzo.
Non c’erano scale o corde per scendere, così anche l’altro ragazzo fu
costretto
a fare lo stesso.
Il vociare cessò nell’esatto istante in cui toccò terra. Si rimise in
piedi ed
osservò senza la minima ritrosia il gruppo di gente davanti a lui.
Erano
più numerosi di quanto avesse mai potuto immaginare. Uomini di ogni età
e
persino donne. C’erano anche bambini più piccoli di Korin. Saranno
stati forse
una cinquantina di persone.
Ci fu qualche momento di scrupoloso silenzio, fatto di scambi di
sguardi, di
valutazione… Lui era pur sempre un mago. I suoi occhi erano dorati e
dalla
stoffa dei suoi abiti s’intravedeva una luce rossastra, tutti elementi
che non
aiutavano a fidarsi di lui.
Alcuni
fissarono quel punto del suo petto, immaginando che aspetto dovesse
avere la
Lacrima di Luna lì nascosta, se fosse davvero come si diceva in giro.
Nessuno
sembrò abbastanza coraggioso per verificarlo, e nemmeno per rompere
quel
silenzio.
Solo
dopo qualche infinito minuto, qualcuno si decise a prendere la parola
per
primo. Un uomo basso e tarchiato, dall’aspetto rozzo ed inflessibile,
non era
giovanissimo, ma nemmeno era fra i più vecchi lì presenti. Avanzò di un
passo,
scrutò il nuovo arrivato dalla testa ai piedi e sul suo volto si posò
un velo
di delusione.
«Sei
solo un ragazzo.» Disse senza preoccuparsi di nascondere il disappunto.
«E’
un problema?» rimbeccò l’altro, senza scomporsi.
«Sì
diamine, lo è! Ci è stato promesso un sicario, non un ragazzino troppo
giovane
per aver combattuto in una qualsiasi guerra!»
Alla
sua, si aggiunsero anche le voci di altre persone dello stesso avviso.
Ma
ancora una volta, nulla scompose il ragazzo dagli occhi dorati.
«Serve
aver combattuto una guerra per essere in grado di uccidere qualcuno?»
li
sovrastò tutti quanti con la propria voce piena di
sicurezza. «Avete
portato a questo incontro donne e bambini, e vi preoccupa il fatto che
io sia
un ragazzo? Voi vi aspettavate un sicario, io d’altro canto mi
aspettavo
esclusivamente uomini forti e vigorosi! Siete così esperti nel
combattere ed
uccidere, così fieri di saperlo fare dal volerlo insegnare anche alle
vostre
mogli e ai vostri figli?»
Tutti
tacquero, anche l’uomo burbero di fronte a lui. I vecchi, le donne e i
bambini,
abbassarono lo sguardo a terra, sentendosi improvvisamente a disagio.
«In
questo Regno, si combattono guerre sin da prima che io nascessi.»
Continuò il
mago, con una fermezza quasi destabilizzante per chi lo ascoltava. «E
badate
bene, sto parlando di guerre prive di eserciti. Miseria, fame,
ingiustizia,
sono nemici ben più potenti di un gruppo di soldati armati che ti
marcia
contro. Quelli non li puoi trafiggere con una spada… Io ho conosciuto a
fondo
ognuno di loro, e sono sicuro che l’abbiate fatto anche voi o non
sareste qui a
costringervi a riporre la vostra fiducia in un mago, ossia una creatura
che vi
hanno sempre insegnato ad odiare e temere. Ditemi,
ho forse sbagliato
qualcosa?»
Korin
lo fissava ammirato e divertito dal modo in cui aveva zittito tutti.
Lui
conosceva quasi tutte le persone lì dentro, e aveva previsto la loro
ritrosia.
Vederli ammutoliti, incapaci di tenere testa al mago, lo elettrizzava
più del dovuto.
Lui era uno dei pochi che non temeva i maghi e non credeva nella loro
malvagità.
Anche
i suoi genitori erano stati dello stesso avviso ed erano stati
torturati ed
uccisi per questo. Korin era rimasto orfano all’età di undici anni,
senza
nessuno che si prendesse cura di lui.
A
Valcalia, tanti erano a conoscenza della sua situazione, ma nessuno si
era mai
preoccupato di aiutarlo in qualche modo. La gente pensava unicamente a
sé
stessa a alle proprie famiglia. Nessuno poteva concedersi il lusso di
aiutare
il prossimo.
L’unico
a farlo, era stato quello straniero dagli occhi dorati apparso sulla
spiaggia
una mattina d’inverno. Un mago. Lo stesso che ora cercava di convincere
quel
branco di ottusi umani che non aveva cattive intenzioni.
Korin
gli avrebbe affidato la sua stessa vita. Si fidava più di lui che di
qualsiasi
altro umano.
Il ragazzo dagli occhi dorati tacque qualche istante. Non in attesa di
risposte, ma perché impegnato a sondare le emozioni dei presenti.
Percepì molta
paura provenire da loro.
Avevano
paura di lui, non osavano parlare perché spaventati da una sua
reazione.
Sospirò e cercò di far assumere un tono più rassicurante alla propria
voce.
«Non
è importante chi o cosa siamo. E nemmeno se siamo giovani o no!
Vogliamo tutti
la stessa cosa, e se la desideriamo con lo stesso ardore, i dettagli
riguardanti la nostra età o la nostra natura non contano nulla.»
Un
leggero mormorio si alzò dalla piccola folla di gente. Il mago iniziò a
percepire i primi consensi.
«Chi
ci dice che non sia tutta una trappola?» a parlare era stato lo stesso
uomo di
prima, sembrava essere diventato a tutti gli effetti il portavoce del
gruppo.
«Sei un mago… Potresti ucciderci tutti in un sol colpo con quella tua
strana
pietra magica.» I suoi occhi caddero istintivamente sulla luce
rossastra che
trapelava dagli abiti del mago.
Korin
parve indispettito da quel commento. Fece un passo in avanti, provando
a
prendere le difese dell’amico, ma quest’ultimo, molto pacatamente, lo
fermò con
un gesto della mano.
«Non
lo nego, potrei uccidervi tutti senza che nemmeno ve ne accorgiate.»
Ammise con
una sincerità spiazzante. «Ma che vantaggio ne trarrei a parte altro
odio verso
di me e la mia
gente?»
Nessuno
seppe rispondere, così il ragazzo continuò.
«Lo
so cosa dicono di noi. Che ci divertiamo ad uccidere voi umani, che
delle
vostre teste ne facciamo trofei, che non siamo capaci di provare
emozioni
tranne il desiderio di potere. Eppure ditemi, è un mago che ha ridotto
il
vostro mondo in queste condizioni pietose? C’è un mago a governarvi in
questo
momento?»
A
regnare incontrastato nella stanza, fu nuovamente un pesante ed
imbarazzato
silenzio. Alcuni abbassarono gli occhi a terra a disagio, consci del
fatto che
quel ragazzo di fronte a loro, aveva ragione.
«E’
un mago la persona per la quale avete richiesto un sicario?»
Nessuno
rispose e il ragazzo sorrise compiaciuto. Quelle persone lo
intenerivano e
innervosivano al tempo stesso. Erano mossi dalle migliori intenzioni,
la
disperazione li aveva condotti su quella strada senza ritorno, ma erano
ancora
troppo spaventati da tutto per riuscire ad arrivare fino in fondo.
Nonostante le cattiverie degli umani verso i maghi, lui non se la
sentiva di
condannarli del tutto.
Erano stati praticamente costretti a reagire così. Theires era
governata dal
terrore e dalla paura, la gente non osava mai pensare o parlare in
maniera
diversa dai propri sovrani. I bambini crescevano con determinate idee
ed era
molto difficile riuscire poi a cancellarle.
Lui voleva solo dimostrare di non essere affatto diverso da tutti loro.
Che il
colore dorato dei suoi occhi e una pietra magica portata al collo non
lo
rendevano affatto pericoloso.
Voleva
credere che ci fossero umani come Korin da qualche parte, capaci di
andare
oltre le apparenze e le dicerie. Voleva credere che quella solitudine
in cui
era stato costretto a vivere per tutta la vita, potesse giungere
finalmente a
termine.
Il
mago incrociò le braccia sul petto, sospirando. Chiuse gli occhi un
istante,
facendosi pensieroso.
Si domandò se rivelare la propria identità potesse servire. La maggior
parte di
loro non gli avrebbe creduto, altri gli avrebbero riso in faccia, ma
lui aveva
le prove per dimostrare che non era un bugiardo. A quel punto, tanto
valeva
rischiare…
«Il mio nome è Kalintz.»
Dichiarò, cercando di schermare le
emozioni di tutti. Non gli andava ancora di sapere cosa stessero
provando. Non
ancora. «E la persona che volete che io uccida, è mio fratello
maggiore.»
****