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Autore: DearDiary    23/03/2014    1 recensioni
«Le persone che hanno così tanto odio dentro di loro, molto spesso, hanno anche amato con la stessa intensità.»
Genere: Generale, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DUE

 
“Quando i maghi abbandonarono il Regno di Theires per fare ritorno all'Isola di Keladia, anche la magia abbandonò definitivamente la nostra terra. Secoli di continui conflitti avevano fatto comprendere a tutti che esseri umani e maghi non potevano convivere in maniera pacifica. Vinta la guerra, Re Roland li esiliò per sempre dai territori di Theires e prese possesso di Ayril, il luogo che fino a quel momento era stato volgarmente chiamato la “Contea dei Maghi“, poiché era lì che essi avevano vissuto fino all'esilio. A nessun mago sarebbe più stato concesso di vivere fra gli uomini. Fu con la nascita del sesto ed ultimo figlio di Re Roland che il sottile velo di pace che si era faticosamente instaurato, giunse al termine.  La sua venuta al mondo portò con sé una sferzata di terrore e sofferenza, non solo per la famiglia Reale, ma per l’intero Regno di Theires.”

Frammento proveniente dalla Biblioteca privata di Re Roland. 
Zephiro, Contea di Ayril.

Laar, Consigliere del Re

 

Cinque uomini vestiti di nero varcarono le porte del palazzo reale di Zephiro, nella Contea di Ayril. Erano nobili, a giudicare dalla fascia di seta dorata che contornava loro le spalle.
Procedettero l'uno affianco all'altro, attraversando l'enorme salone delle udienze del palazzo. Non si lasciarono distrarre dalla sontuosità della sala, né dai giochi di luce che i raggi solari creavano attraversando le gigantesche vetrate poste lungo le pareti. Procedevano con la sicurezza e l'aria annoiata di chi ha già visto lo stesso luogo per troppe volte. Non c'era nessuno a scortarli, e nessuno di loro teneva lo sguardo basso come il protocollo imponeva. I soldati posti all'ingresso della sala, restarono immobili e permisero loro di passare senza provare in alcun modo a fermarli. Entrambi, accennarono persino un inchino.
I cinque uomini fissavano l'uomo anziano seduto sul trono in fondo al salone. Una volta che gli furono di fronte, s'inginocchiarono a terra. Vi rimasero per qualche secondo, per poi rialzarsi e tornare a guardarlo.  Davanti a loro trovarono un vecchio, consumato dalla stanchezza e dall'età. Per quanto sembrasse non possedere nemmeno più la forza per muoversi, c'era qualcosa che lo faceva ancora apparire regale come sempre. Non era la corona che brillava orgogliosa sulla sua testa, e nemmeno i suoi abiti sfarzosi e troppo lussuosi per chiunque. C'era qualcosa nel suo sguardo glaciale a costringere tutti ad abbassare il capo in sua presenza.
Del resto, Roland era stato il sovrano di Theires per sessanta lunghi anni. Era salito al trono appena quindicenne, dopo la prematura morte del padre e nonostante ora apparisse come un fragile vecchio prossimo alla morte,  vi era sempre un'aura di solennità a circondarlo. Bastava un suo sguardo per mettere in soggezione il più arrogante degli uomini.
Il Re osservò i suoi cinque ospiti uno per uno, con aria piuttosto svogliata. Il primo di loro, quello che apriva la fila a sinistra, fece un passo avanti. Sembrava il più anziano del gruppo e si fece portavoce degli altri : «Ci avete fatti chiamare, padre?»
Le labbra di Roland si mossero, ma non per rispondere alla domanda del maggiore dei suoi figli. I suoi occhi saettarono per l'immensa sala alla ricerca di qualcosa. O forse, qualcuno... In effetti, sembrava stesse tentando di chiamare una persona.
«Sono qui, Vostra Maestà.»
Una voce femminile precedette l'arrivo di una figura incappucciata. Apparve alle spalle del Re, e lo fece in maniera così improvvisa e silenziosa da mettere in allarme tutti e cinque i Principi.
Vestiva di grigio, e metà del suo volto era occultato da un pesante cappuccio. Le sue labbra si piegarono in un sorriso sincero, capace di mettere a tacere qualunque dubbio sul suo conto.
«Voi chi siete?» domandò il maggiore dei Principi, le dita già strette attorno all'elsa della propria spada. Il padre lo ammonì con un gesto della mano.
«Devo la vita a questa donna.» dichiarò Re Roland, con voce stanca ma ferrea. «Mi ha curato da un male che nessun guaritore di Theires era riuscito a debellare. Per loro avevo i giorni contati.»
I cinque uomini parvero presi in contropiede e si scambiarono sguardi confusi. Stavolta fu il terzo a prendere la parola. «Non sapevamo aveste problemi di salute.»
«E perchè mai avrei dovuto scomodarmi per mettervene al corrente?» Il Re sorrise amaramente. «Come se a voi importasse qualcosa della mia vita, come se non sapessi che non aspettate altro se non la mia morte per potervi contendere il mio trono e il mio regno»
Nessuno di loro osò controbattere, sarebbe stato inutile provare a convincerlo del contrario. La verità era che nessuno di loro lo considerava come un padre. Roland rappresentava unicamente un ostacolo al loro vero obiettivo. Erano cinque fratelli... Solo uno di loro avrebbe potuto succedere al padre. Avrebbero dovuto affrontarsi per decidere chi sarebbe stato il nuovo re. Così funzionava a Theires. C'era stato un tempo in cui spettava al primogenito maschio il compito di seguire le orme del padre e governare il regno, ma la legge era stata cambiata secoli prima. A seguito di una maledizione lanciata da un mago, un antenato di Roland ebbe solo figlie femmine. Egli non considerava nessuna di loro degna di salire al trono, ma giunto alla fine dei suoi giorni si vide costretto a prendere una decisione. Fece cambiare la legge di successione e decretò che a salire al trono sarebbe stata la figlia che fosse sopravvissuta a tutte le altre. Così che potesse dimostrare di possedere la forza, la freddezza e la risolutezza degne di un sovrano. Fu la sorella minore a diventare regina, e una volta al potere, non modificò quella legge. Pensando che avrebbe così evitato inutili dispute per il potere, la lasciò invariata. Una guerra ci sarebbe stata comunque per la successione, ma non sarebbe rimasto coinvolto il regno. Si sarebbe consumata fra le mura del palazzo.
«Questa donna si è guadagnata il mio rispetto e la mia fiducia, molto più di quanto io ne riponga in voi.» Continuò Roland, ignorando gli sguardi truci e sdegnati dei suoi figli. «Ha qualcosa di molto importante da dirvi, quindi la lascerete parlare e l'ascolterete. Ubbidirete a lei come se le sue parole fossero state pronunciate da me, è chiaro?»
Nessuno di loro osò contraddirlo. I loro occhi saettarono sulla donna che vestiva di grigio e non si sprecarono a trattarla come un'ospite.
«E' un vero onore incontrare tutti e cinque i Principi Guardiani.» Esordì la donna, con un sorriso che a tutti loro apparve tremendamente falso. «Vostro padre il Re, mi ha chiesto di condividere con voi alcune informazioni che, sono certa, troverete parecchio interessanti.» Notando che nessuno dei cinque faceva domande, continuò. «Chi di voi è  Eiden, il Principe Guardiano della Contea di Sheiran?»
Ognuno dei figli del Re governava una delle cinque contee che formavano Theires. Venivano chiamati «principi guardiani», perchè non erano dei veri e propri sovrani. Roland aveva in ogni caso il potere assoluto su ognuna delle Contee. Lui lo definiva «addestramento», ma la verità era che i suoi figli erano nulla più che delle temporanee balie per quei territori. La definizione di «Guardiani» suonava semplicemente meglio. Li lasciava ad occuparsi di tutte quelle cose noiose come far rispettare le leggi, occuparsi delle tasse e delle condanne, mentre lui si godeva gli agi della vita di corte.
Il figlio maggiore fece un passo avanti. «Io, mia signora.» dichiarò, sforzandosi di mantenere un tono reverenziale.
«So che all'incirca dieci anni fa, avete capeggiato un gruppo di vostri soldati, per andare ad uccidere una persona. Un bambino, per l'esattezza.»
«Le vostre informazioni sono esatte. Fu mio padre ad affidarmi quella missione e fui onorato di portarla a termine.»
La donna sorrise. Non era un sorriso gentile, tutt'altro. Aveva un velo di minaccia e derisione . «E ditemi, siete a conoscenza dell'identità di quel bambino che avete ucciso?»
Il Principe trasalì. Quella era una storia di cui era proibito parlare. Cercò lo sguardo del padre che lo invitò a proseguire con un cenno del capo. «... Era il minore dei miei fratelli.»
«Ne siete certo?»
L'uomo le scoccò un'occhiata irritata. «Cosa state cercando d'insinuare esattamente?»
«Che abbiate ucciso la persona sbagliata.»

***

 
Le strade di Valcalia erano deserte, appena illuminate dai raggi lunari che faticavano ad oltrepassare la perenne coltre di nubi che affliggeva quella contea.
Lo strato di sale che ricopriva i ciottoli delle stradine brillava gentilmente, riflettendo le deboli luci notturne e quelle delle fiaccole che danzavano lungo i muri delle case. Le onde del mare cullavano l'intero villaggio, accompagnando i sogni dei suoi abitanti, così come i cigolii delle barche ancorate al porto.
A questi suoni, se ne aggiunse un altro. Quello di passi. Passi di qualcuno ancora sveglio, qualcuno tanto folle da non avere rispettato il coprifuoco.
Un uomo incappucciato scendeva lungo la via che conduceva al porto. La sua andatura era sicura, per nulla intimorita all'idea di rischiare di venire sorpreso fuori casa dalle guardie.  
Non si guardava mai alle spalle, non controllava se ci fosse o no qualcuno quando svoltava in strade secondarie. Proseguiva senza indugio,  come se si trovasse alla luce del giorno, come se le macchie di sangue dell'ultimo malcapitato che aveva osato infrangere il coprifuoco, e che ancora macchiavano la piazza del mercato, non lo toccassero minimamente.
L'uomo raggiunse la parte più povera di Valcalia, sebbene in quella città non esistesse una parte ricca. Più poveri, meno poveri; quella era l'unica distinzione che si poteva fare.
L'unico ricco era Eiden, il Principe Guardiano. Era il figlio maggiore di Re Roland, ed era lui ad amministrare la Contea di Sheiran. Era il territorio più grande e più povero di tutto il regno di Theires. Come le altre contee, anche Sheiran era afflitta da un'antica maledizione. La sua gente non camminava sulla terra, o sulle pietre, o sulla sabbia... camminava su uno spesso strato di sale marino.  Era distribuito uniformemente su tutto il territorio, e rendeva i campi incoltivabili, paralizzava del tutto ogni tentativo di allevamento, persino l'acqua dei fiumi era imbevibile. La gente di Sheiran sopravviveva con le razioni di cibo e acqua che il Principe distribuiva. Ma per ottenerle bisognava rispettare ogni sua legge, anche la più crudele. Alla minima trasgressione, si rischiava di venire esclusi dalla distribuzione delle razioni e di morire di fame.
Eiden non era amato dal popolo, esattamente come suo padre. La sua crudeltà, la sua prepotenza e la sua nefandezza lo rendevano un vero e proprio tiranno agli occhi di tutti. Era malvagio, e quella stessa malvagità l'aveva trasmessa ai suoi soldati, le guardie che giorno e notte si aggiravano ovunque. Loro avevano qualsiasi potere. Non gli serviva una legge particolare per far torturare o  giustiziare una persona, il Principe aveva dato loro la libertà più assoluta.
Il Principe Eiden si faceva beffe della disperazione della sua gente e cercava di convincerli che l'alto numero di condanne a morte che lui e i suoi uomini elargivano erano solo una benedizione, che i condannati sarebbero state persone in meno da sfamare, che la loro fine avrebbe significato  più cibo per chi restava in vita.
Nessuno gli credeva, ma nessuno osava neppure ribellarsi. Il terrore di una morte dolorosa paralizza anche gli uomini più coraggiosi…
I passi dell'uomo incappucciato si arrestarono di colpo. La sua attenzione parve soffermarsi sulla porta di una casa apparentemente abbandonata.
C'era un’insegna appesa al muro, cigolava timidamente cullata dalla brezza marina. Il disegno sopra di essa era ormai quasi del tutto cancellato ma l'uomo riconobbe quella che un tempo era stata una taverna. Una delle tante di Valcalia... e una di quelle che assieme a tutte le altre era stata costretta a chiudere per la totale assenza di clienti. Ce n'era solo una che ancora operava, ma non era frequentata dagli abitanti della città. Era l'unico punto di ristoro per i commercianti stranieri.
A differenza dell'insegna, sulla porta c'era un segno rosso ben visibile. Non aveva una forma precisa, era sospettosamente casuale, sembrava una specie di "S" storta e allungata . Forse nessuno ci avrebbe mai fatto caso, ma lui notò subito che quel segno fosse stato fatto da poco.
Per chiunque l'avesse visto quel simbolo non aveva alcun senso, per lui invece assumeva enorme importanza.. Sorrise e fu a quel punto che per la prima volta si guardò attorno con circospezione.
Sicuro che non ci fosse nessuno tranne lui, bussò cinque volte alla porta, assicurandosi con precisione di far passare un paio di secondi  fra un colpo e l'altro.
Pochi istanti e la porta si socchiuse appena. L'uomo l'aprì poco di più per riuscire a sgattaiolare all’interno e poi la richiuse.
Dentro alla vecchia taverna in disuso vi era un'oscurità soffocante. L'uomo infilò una mano dentro i suoi abiti per tirarne fuori un oggetto luminoso che scacciò via parte di quel buio. Una pietra che emanava una luce rossastra e rischiarò parte della stanza.
«Korin ?» chiamò, cercando d'illuminare ogni angolo dell’ambiente circostante. «So che ci sei, per quale motivo ti nascondi?»
Un colpo. Poi un altro più deciso, seguito da altri rumori di oggetti che cadevano a terra, subito dopo un ragazzino entrò nel raggio luminoso dello strano oggetto che l'uomo teneva fra le dita.  
Era ruzzolato a terra, incespicando sui resti di un tavolo. Non aveva più di tredici anni, era esile, dall'aspetto malaticcio ed affamato, come tutti gli abitanti di Valcalia. I suoi occhi scuri erano segnati da profonde occhiaie, i suoi capelli erano neri e scompigliati.
Il ragazzino guardò la fonte di luce con timore, arretrando istintivamente. 
«Potete metterla via quella?» domandò visibilmente impaurito.
Gli umani erano soliti essere sia attratti che spaventati a morte dalle Lacrime di Luna. C’era il desiderio di possederne una, per quella strana leggenda sulla longevità che potevano donare. E poi c’era la paura, dovuta al fatto che fossero in fin dei conti delle vere e proprie armi, la fonte di tutto il potere di un mago.
«Solo quando vedrò dove metto i piedi.»
Il ragazzino parve indugiare, ma alla fine si alzò da terra e si mosse verso un vecchio camino. La legna al suo interno era fresca, doveva averla preparata lui stesso.
Si inginocchiò a terra e prese a strofinare energicamente due pezzi di legno. Non ottenne altro che poche, deboli scintille. Fece parecchi tentativi, ma nessuno andò a buon fine.
L'uomo sospirò con estrema pazienza, quasi intenerito dai disperati tentativi di quelle fragili mani, indebolite dalla miseria, di rendersi utili. Senza fermarlo e sicuro che lui non potesse vederlo, mosse appena le dita della sua mano facendo percorrere loro un arco invisibile. L'istante immediatamente successivo, delle fiamme presero vita dai due pezzi di legno che il ragazzino stava strofinando. Lui si spaventò e perse l'equilibrio, cadendo impacciatamente all'indietro.
«Fai attenzione.» Gli suggerì l'uomo, nascondendo a fatica il senso di serenità nel vedere il volto del ragazzino finalmente sorridente e soddisfatto.  
Fu a quel punto, quando la stanza venne invasa dalla debole e traballante luce del fuoco, che si tolse il cappuccio.
Non fu affatto un uomo a mostrarsi, bensì un ragazzo che dimostrava poco più di vent’anni. Eppure il suo sguardo pareva quello di un uomo già anziano stanco degli orrori del mondo.Ma non erano unicamente la severità e la stanchezza della sua espressione a colpire. Le sue iridi avevano quel particolare colore che lo avrebbe fatto condannare subito a morte.
Gli occhi dorati erano il male. Chiunque li possedesse andava eliminato, poiché pericoloso e propenso ad uccidere. Eppure, non c’era odio negli occhi dorati di quel ragazzo. Persino Korin, nell’umiltà dei suoi tredici anni, vedeva in essi solo tanta tristezza.
«Vi ha visto qualcuno?» domandò, riluttante.
Il ragazzo infilò nuovamente la sua Lacrima di Luna nei propri abiti e studiò attentamente la stanza. Nient’altro che detriti di legno marcio, resti di mobili bruciati e stoviglie in pezzi. L’aria era pesante e odorava di muffa. Non era il massimo come nascondiglio, ma sapeva quanto Korin dovesse essersi impegnato per trovarlo. Senza considerare i rischi che aveva corso. A Valcalia nessuna guardia s’impietosiva davanti a un bambino.
Davanti alla domanda di Korin, il ragazzo piegò le labbra in un mezzo sorriso. «Nessuno può avermi visto.»
Korin si corrucciò dalla curiosità, per poi lasciare spazio all’entusiasmo. «Avete fatto qualche incantesimo?»
«Diciamo solo che mi sono assicurato che ogni uomo, donna o bambino di Valcalia dorma profondamente fino al sorgere del sole. Tutti, persino i ratti nelle fogne, stanno dormendo.»
Korin parve davvero elettrizzato a quelle parole, facendo inevitabilmente sorridere il ragazzo. Era talmente raro trovare qualcuno che apprezzasse la sua natura di mago…  
«Tutti tranne me e gli altri?» chiese poi, con ancora quell’espressione piena di ammirazione a renderlo più simile al bambino che era, anziché all’adulto che era dovuto diventare in fretta e furia.
«Tutti tranne te e gli altri. Il simbolo che ti ho fatto tracciare sulla porta ha protetto questa casa dall'incantesimo.» Gli spiegò l’altro. «E a tal proposito, forse è il momento che io li incontri questi altri, non credi?»
Korin annuì, visibilmente ansioso di assistere a quell’incontro.
«Loro non sanno chi siete in realtà.» Si premunì di avvisare. «Come dovrò chiamarvi?»
«Prima di tutto non servono tutte queste formalità, rivolgiti a me come ti rivolgessi ad una persona qualunque. Per quanto riguarda il nome, non è necessario dirlo, se nessuno lo chiederà.»
Korin parve poco convinto. «Lo chiederanno.»
«Allora diremo loro la verità. Sicuramente mi accuseranno di essere un pazzo e un ciarlatano, ma come ben sai, ho con me le prove per mettere a tacere ogni loro più che giustificato dubbio.»
Korin parve molto rassicurato, i suoi occhi si erano riempiti di una fiducia totale. Lo guardava come un figlio fa con il padre.
Senza aggiungere una parola, andò dietro i resti di quello che un tempo doveva essere stato il bancone dove venivano servite le vivande. Si accucciò a terra, tastò il pavimento polveroso per qualche istante, fino a che non si udì un suono simile allo scatto di una serratura. A quel punto Korin, alzò alcune assi del pavimento.
Una botola segreta. Nulla di più semplice e niente di più efficace.
Il ragazzo dietro di lui sorrise soddisfatto. Non poteva trovare aiutante migliore di lui.
Dall’interno della stanza nascosta, proveniva una luce molto più intensa che al piano superiore, accompagnata da un flebile vociare di persone. Korin saltò dentro con un balzo. 
Non c’erano scale o corde per scendere, così anche l’altro ragazzo fu costretto a fare lo stesso.
Il vociare cessò nell’esatto istante in cui toccò terra. Si rimise in piedi ed osservò senza la minima ritrosia il gruppo di gente davanti a lui.
Erano più numerosi di quanto avesse mai potuto immaginare. Uomini di ogni età e persino donne. C’erano anche bambini più piccoli di Korin. Saranno stati forse una cinquantina di persone.
Ci fu qualche momento di scrupoloso silenzio, fatto di scambi di sguardi, di valutazione… Lui era pur sempre un mago. I suoi occhi erano dorati e dalla stoffa dei suoi abiti s’intravedeva una luce rossastra, tutti elementi che non aiutavano a fidarsi di lui.
Alcuni fissarono quel punto del suo petto, immaginando che aspetto dovesse avere la Lacrima di Luna lì nascosta, se fosse davvero come si diceva in giro. Nessuno sembrò abbastanza coraggioso per verificarlo, e nemmeno per rompere quel silenzio.
Solo dopo qualche infinito minuto, qualcuno si decise a prendere la parola per primo. Un uomo basso e tarchiato, dall’aspetto rozzo ed inflessibile, non era giovanissimo, ma nemmeno era fra i più vecchi lì presenti. Avanzò di un passo, scrutò il nuovo arrivato dalla testa ai piedi e sul suo volto si posò un velo di delusione.
«Sei solo un ragazzo.» Disse senza preoccuparsi di nascondere il disappunto.
«E’ un problema?» rimbeccò l’altro, senza scomporsi.
«Sì diamine, lo è! Ci è stato promesso un sicario, non un ragazzino troppo giovane per aver combattuto in una qualsiasi guerra!»
Alla sua, si aggiunsero anche le voci di altre persone dello stesso avviso. Ma ancora una volta, nulla scompose il ragazzo dagli occhi dorati.
«Serve aver combattuto una guerra per essere in grado di uccidere qualcuno?» li sovrastò tutti quanti con la propria voce piena di sicurezza.  «Avete portato a questo incontro donne e bambini, e vi preoccupa il fatto che io sia un ragazzo? Voi vi aspettavate un sicario, io d’altro canto mi aspettavo esclusivamente uomini forti e vigorosi! Siete così esperti nel combattere ed uccidere, così fieri di saperlo fare dal volerlo insegnare anche alle vostre mogli e ai vostri figli?»
Tutti tacquero, anche l’uomo burbero di fronte a lui. I vecchi, le donne e i bambini, abbassarono lo sguardo a terra, sentendosi improvvisamente a disagio.
«In questo Regno, si combattono guerre sin da prima che io nascessi.» Continuò il mago, con una fermezza quasi destabilizzante per chi lo ascoltava. «E badate bene, sto parlando di guerre prive di eserciti. Miseria, fame, ingiustizia, sono nemici ben più potenti di un gruppo di soldati armati che ti marcia contro. Quelli non li puoi trafiggere con una spada… Io ho conosciuto a fondo ognuno di loro, e sono sicuro che l’abbiate fatto anche voi o non sareste qui a costringervi a riporre la vostra fiducia in un mago, ossia una creatura che vi hanno sempre insegnato ad odiare  e temere. Ditemi, ho forse sbagliato qualcosa?»
Korin lo fissava ammirato e divertito dal modo in cui aveva zittito tutti.
Lui conosceva quasi tutte le persone lì dentro, e aveva previsto la loro ritrosia. Vederli ammutoliti, incapaci di tenere testa al mago, lo elettrizzava più del dovuto. Lui era uno dei pochi che non temeva i maghi e non credeva nella loro malvagità.
Anche i suoi genitori erano stati dello stesso avviso ed erano stati torturati ed uccisi per questo. Korin era rimasto orfano all’età di undici anni, senza nessuno che si prendesse cura di lui.
A Valcalia, tanti erano a conoscenza della sua situazione, ma nessuno si era mai preoccupato di aiutarlo in qualche modo. La gente pensava unicamente a sé stessa a alle proprie famiglia. Nessuno poteva concedersi il lusso di aiutare il prossimo.
L’unico a farlo, era stato quello straniero dagli occhi dorati apparso sulla spiaggia una mattina d’inverno. Un mago. Lo stesso che ora cercava di convincere quel branco di ottusi umani che non aveva cattive intenzioni.
Korin gli avrebbe affidato la sua stessa vita. Si fidava più di lui che di qualsiasi altro umano.
Il ragazzo dagli occhi dorati tacque qualche istante. Non in attesa di risposte, ma perché impegnato a sondare le emozioni dei presenti. Percepì molta paura provenire da loro.
Avevano paura di lui, non osavano parlare perché spaventati da una sua reazione. Sospirò e cercò di far assumere un tono più rassicurante alla propria voce.
«Non è importante chi o cosa siamo. E nemmeno se siamo giovani o no! Vogliamo tutti la stessa cosa, e se la desideriamo con lo stesso ardore, i dettagli riguardanti la nostra età o la nostra natura non contano nulla.»
Un leggero mormorio si alzò dalla piccola folla di gente. Il mago iniziò a percepire i primi consensi. 
«Chi ci dice che non sia tutta una trappola?» a parlare era stato lo stesso uomo di prima, sembrava essere diventato a tutti gli effetti il portavoce del gruppo. «Sei un mago… Potresti ucciderci tutti in un sol colpo con quella tua strana pietra magica.» I suoi occhi caddero istintivamente sulla luce rossastra che trapelava dagli abiti del mago.
Korin parve indispettito da quel commento. Fece un passo in avanti, provando a prendere le difese dell’amico, ma quest’ultimo, molto pacatamente, lo fermò con un gesto della mano.
«Non lo nego, potrei uccidervi tutti senza che nemmeno ve ne accorgiate.» Ammise con una sincerità spiazzante. «Ma che vantaggio ne trarrei a parte altro odio verso di me e  la mia gente?»
Nessuno seppe rispondere, così il ragazzo continuò.
«Lo so cosa dicono di noi. Che ci divertiamo ad uccidere voi umani, che delle vostre teste ne facciamo trofei, che non siamo capaci di provare emozioni tranne il desiderio di potere. Eppure ditemi, è un mago che ha ridotto il vostro mondo in queste condizioni pietose? C’è un mago a governarvi in questo momento?»
A regnare incontrastato nella stanza, fu nuovamente un pesante ed imbarazzato silenzio. Alcuni abbassarono gli occhi a terra a disagio, consci del fatto che quel ragazzo di fronte a loro, aveva ragione.
«E’ un mago la persona per la quale avete richiesto un sicario?»
Nessuno rispose e il ragazzo sorrise compiaciuto. Quelle persone lo intenerivano e innervosivano al tempo stesso. Erano mossi dalle migliori intenzioni, la disperazione li aveva condotti su quella strada senza ritorno, ma erano ancora troppo spaventati da tutto per riuscire ad arrivare fino in fondo.
Nonostante le cattiverie degli umani verso i maghi, lui non se la sentiva di condannarli del tutto.
Erano stati praticamente costretti a reagire così. Theires era governata dal terrore e dalla paura, la gente non osava mai pensare o parlare in maniera diversa dai propri sovrani. I bambini crescevano con determinate idee ed era molto difficile riuscire poi a cancellarle.
Lui voleva solo dimostrare di non essere affatto diverso da tutti loro. Che il colore dorato dei suoi occhi e una pietra magica portata al collo non lo rendevano affatto pericoloso.
Voleva credere che ci fossero umani come Korin da qualche parte, capaci di andare oltre le apparenze e le dicerie. Voleva credere che quella solitudine in cui era stato costretto a vivere per tutta la vita, potesse giungere finalmente a termine.
Il mago incrociò le braccia sul petto, sospirando. Chiuse gli occhi un istante, facendosi pensieroso.
Si domandò se rivelare la propria identità potesse servire. La maggior parte di loro non gli avrebbe creduto, altri gli avrebbero riso in faccia, ma lui aveva le prove per dimostrare che non era un bugiardo. A quel punto, tanto valeva rischiare…
«Il mio nome è Kalintz.» Dichiarò, cercando di schermare le emozioni di tutti. Non gli andava ancora di sapere cosa stessero provando. Non ancora. «E la persona che volete che io uccida, è mio fratello maggiore.»

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