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Autore: GreedFan    29/03/2014    3 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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ζ.


Faceva un effetto strano vedere la copertina ruvida de Le Notti Bianche tra le dita sottili del soldato, i complessi decori color oro sotto polpastrelli abituati a maneggiare armi e marchingegni ad alta tecnologia. Era un'edizione molto antica, rilegata con la pelle di qualche animale la cui specie era andata estinta decenni addietro, e sulla carta ingiallita fiorivano numerose macchie di muffa.

«La traduzione è molto buona». Lienhard trascinò la valigia di titanio anti-urto fuori dalla porta e sbuffò per la fatica «Niente a che vedere con l'originale in Arkesoviet, ovviamente, ma per quello avrai tempo».

Si era portato dietro libri sufficienti per l'intera durata del soggiorno e forse qualcosa in più. Era un vizio che non riusciva proprio a togliersi, quello di sovraccaricare le valige con quantità immani di carta e lasciare uno spazio minuscolo per tutto il resto. Il risultato era che non riusciva nemmeno a sollevare l'involucro leggerissimo di titanio e sarebbe stato probabilmente costretto a indossare più di una volta le stesse magliette.

Non c'è niente che non va con le mie priorità”.

«Serve una mano?». Joseph corrugò le sopracciglia, non senza divertimento, e lo guardò trascinare la valigia per tutto il corridoio tra sbuffi e imprecazioni «Ma cosa ci hai messo, lì dentro?».

«Armi di distruzione di massa».

«Non fatico a crederlo».

La vettura sportiva di suo padre era parcheggiata fuori dal campus, a pochi metri dal cancello principale. Lienhard ringraziò la perizia del vecchio Heisenhover quando, avvicinatosi all'abitacolo, notò la sagoma di una valigetta incastrata tra il sedile e la pulsantiera del cruscotto.

"Lo sapevo. Grazie, papà".

Issò la valigia nel bagagliaio con un gesto che gli provocò una fitta lancinante a livello lombare. Gli ci volle qualche secondo per riprendere fiato e trovare le chiavi, incagliate nel fondo delle tasche sfilacciate dei pantaloni.

«Quanto starai via?». Joseph si rigirava il libro tra le dita come se fosse un oggetto preziosissimo o incredibilmente fragile; non la smetteva di fissare Lienhard con un'inquietudine palpabile, e il professore, ben più smaliziato di quanto non volesse dare a vedere, aspettava solo che si decidesse a parlare.

"Andiamo, Redthorn. Sappiamo perfettamente tutti e due quello che stai per dire".

«Dipende». Cincischiò con le chiavi, una serie di cilindretti di diversi metalli che andavano inseriti secondo un certo ordine nel fianco dell'abitacolo «Più o meno una settimana, ma non so dire per certo. Devo sistemare alcune cose in una proprietà di campagna, e credimi se ti dico che vorrei limitare la rottura di palle quanto più possibile».

«Roba noiosa?».

«Oh, non lo immagini». Rimase zitto, in attesa. Joseph giocherellò ancora un po’ con il libro, lo aprì un paio di volte e insinuò le dita tra le pagine, si schiarì la voce e arrossì. Nevrosi, pensò Lienhard, sta accumulando pulsioni irrisolte come un reattore al deuterio prossimo all’esplosione.

«Io…» quando si decise a parlare, non prima di aver raddrizzato la schiena con il consueto gesto un po’ affettato, il professore avvertì un brivido teso lungo la schiena «… mi chiedevo se quando torni dalla tua vacanza potremmo andare da qualche parte».

Mai richiesta di appuntamento fu più malposta, ma Lienhard sfoggiò un sorriso abbagliante e annuì.

«Joseph, siamo due alfa… scientificamente parlando questo è‒»

«Non mi interessa». Lo sguardo del soldato bruciava «Non mi interessa, davvero. Se è scientificamente impossibile, allora tu e i tuoi amici del dipartimento di anatomia dovrete riscrivere un paio di teorie».

L’istinto arrivava laddove la mente si vedeva sbarrato il passo dalle false convinzioni. Joseph non sapeva che il suo comportamento stava rispondendo agli imperativi della fisiologia in un modo quasi paradigmatico.

Lienhard inclinò il capo, inspirando a fondo. Se si concentrava poteva catturare il profumo di Joseph, trasportato dai refoli di vento caldo, e il suo corpo non riusciva più ad ignorarlo ‒ nemmeno la sua mente, per dirla tutta, voleva ignorarlo. Quello che stava per fare era una follia, e se solo suo padre avesse potuto dare un’occhiata ai progetti che turbinavano nella sua testa lo avrebbe rinchiuso in un carcere di alta sicurezza per poi buttare via la chiave.

Tu pensi di potermi amare soltanto perché ai tuoi occhi sono un alfa. Cosa faresti se scoprissi la verità?”. Non era sicuro di voler conoscere la risposta.

«Va bene, Joseph». Allargò le braccia «A volte le teorie scientifiche vengono riscritte».

Un sole accecante pioveva sull’Universitas, indorando gli alberi e riempiendo di riflessi azzurrognoli i capelli di Joseph. «Hai gli occhi quasi trasparenti». Quel commento sfuggì a Lienhard in un sussurro senza peso «Ma il tuo sguardo è pieno. Non ne ho mai visti di così belli».

Joseph incrociò le braccia sul busto e si guardò intorno, cercando di mascherare una traccia di rossore sugli zigomi. Non si sarebbe avvicinato più di così, non valeva la pena forzare la mano.

«Ti ringrazio». Asciutto, ridicolmente professionale.

«Non devi». Lo salutò con un cenno del capo «Arrivederci, Joseph. Nel frattempo proverò a capire come si usa l’O-screen che mi hai regalato… ma tu devi promettermi che finirai il libro».


◦○◦


La scatola di acciaio inossidabile aveva profili aguzzi e incastri perfetti. Ospitava un letto di sintolattice morbidissimo, in cui era stato sagomato un incavo a forma di punta di freccia.

Nell’incavo, opalescente alla luce bianchissima del laboratorio, c’era un osso.

Si trattava di una struttura cava e delicatissima, fatta di strati lamellari così sottili da risultare trasparenti; aderiva perfettamente al sintolattice, con le tre cuspidi più pronunciate a sfiorare appena la superficie liscia, ed era di un colore tra l’azzurro e il glicine chiaro. Una vertebra aliena perfettamente conservata.

Rudolf Gosween trattenne il respiro e non osò toccarla. Il valore di quel minuscolo ossicino era esorbitante al punto da costituire un rischio per chiunque lo possedesse.

«La reliquia di un Miraggio». Sussurrò, selezionando un bisturi sottilissimo tra i vari attrezzi che aveva disposto sul tavolo. Il Governo aveva distrutto quasi tutte le prove tangibili dell’esistenza dei Miraggi, ma per fortuna qualche collezionista privato era riuscito a procurarsi – e a conservare – reperti inestimabili come quello. Gosween aveva dovuto faticare parecchio per convincere un collega a procurargli la vertebra, arrivando a scomodare la sicurezza planetaria e il bene di un intero gruppo sociale.

Con il bisturi praticò un’incisione quasi impercettibile in un punto nascosto, asportando una scaglia d’osso. Le sostanze che componevano lo scheletro dei Miraggi, aveva scoperto, erano in alcuni casi simili a quelle umane: eccezione fatta per dei minerali endemici di Nenya – quali il caliadnio, ad esempio, che donava ai tessuti il colore azzurrino – contenevano una quantità incredibile di collagene e un pizzico di fosfato di calcio e idrossiapatite. La differenza fondamentale stava nella consistenza: la vertebra su cui stava lavorando era elastica e flessibile, quasi molle; era probabile che i Miraggi prediligessero un ambiente acquatico e fossero dotati di una struttura fisica leggera.

Se solo avessi più materiale, quante cose potrei scoprire”.

Prelevò la scaglia con un paio di pinze sterili e la lasciò cadere in una provetta piena di gel. Il macchinario per l’analisi del DNA mitocondriale, poco discosto, accolse la provetta in uno dei numerosi alveoli che ne decoravano la superficie globosa.

In teoria offriva una scansione quasi immediata del DNA, ma Gosween aveva come la sensazione che con quel frammento alieno ci sarebbero stati dei problemi. Incrociò le caviglie e si mordicchiò l’unghia del pollice, attendendo il responso.


◦○◦


La proprietà in campagna non era che un bungalow circondato da un giardino incolto, a parecchi chilometri da Fegith. Lienhard, indolenzito dalle troppe ore di viaggio, abbandonò la vettura sull’unica piazzola magnetica di posteggio (dubitava, del resto, che nelle vicinanze vivessero altre creature senzienti) e riuscì a farsi largo tra le erbacce fronzute nonostante avesse le mani occupate da bagaglio e valigetta. Gli sembrava di essere finito in uno dei libri della sua infanzia, che parlavano di esploratori coraggiosi su pianeti lontani milioni di anni luce – la distribuzione di quel genere letterario era stata vietata dal Gerarca per le sue chiare inclinazioni esterofile, e Thomas Heisenhover l’aveva diligentemente somministrata al figlio appena undicenne.

A volte Lienhard si scopriva ad apprezzare davvero la vecchia faina.

Il bungalow era piccolo e giallo, una palafitta dalle linee pulite a cui si accedeva tramite una scaletta di legno. Sulla veranda, un grazioso esempio di incuria su cui qualcuno aveva ammassato rotoli di corda marcia, si era abbarbicata una pianta di edera carnivora dai fiori rossi, profumatissima e bella; Lienhard, spalancando la porta con un calcio, si disse che l’avrebbe lasciata dov’era.

L’interno era polveroso e ordinato, come se nessuno mettesse piede nel bungalow da anni. La camera da letto e il bagno erano gli unici due ambienti separati: il resto dello spazio era occupato da un salotto-cucina a pareti vetrate, da cui si poteva ammirare l’intrico di erbacce che spadroneggiavano nel giardino e degli alberi alieni dai colori bizzarri. Lienhard appoggiò la valigia sul letto, un futon a due piazze che sembrava quasi chiamarlo, e si sciacquò la faccia nel lavandino di ceramica turchese; per curiosità aprì l’armadietto dei medicinali, e quando vide cosa conteneva sorrise senza rendersene conto. Su un ripiano qualcuno aveva dimenticato delle p’vorot, forcelle nasali autoreggenti che, una volta fissate alle narici, filtravano l’aria ripulendola dai ferormoni; erano oggetti di uso comune tra i dottori, e suo padre ne lasciava sempre qualcuna in giro ‒ succedeva spesso che ospitasse gruppi profughi alfa e omega nelle sue proprietà, e le p’vorot avevano evitato più di un incidente.

L’arredamento era tutto nei toni del verdazzurro, dalla cucina al tavolo da pranzo con le sue quattro sedie, dal lampadario al divano di tela stinta. Accogliente, un porto sicuro in cui passare quei cinque giorni d’Inferno.

Lienhard si rese conto di aver avuto un bisogno disperato di quella solitudine rilassata, del profumo familiare della polvere. Doveva sfruttare quel tempo per riordinare le idee e stabilire un piano d’azione sia per quanto riguardava Joseph Redthorn, che per la reliquia di Rudi e il non tanto misterioso uomo senza odore di Kaïre. Se avesse trascurato anche solo uno degli aspetti del quadro generale, gli altri sarebbero finiti in pezzi.

Prima, però, c’era un’altra cosa da fare.

La valigetta che suo padre aveva lasciato nella vettura si sbloccava tramite il riconoscimento delle impronte digitali. Poco sopra la cerniera c’era un quadrato di materiale sensibile, su cui Lienhard premé l’indice e il medio; con un sibilo e uno sbuffò di vapore freddo, la valigetta si spalancò rivelando il suo contenuto.

Una siringa sottile, piena di liquido trasparente, era ancorata al fondo con due fascette di gomma; subito a fianco la mano previdente di Thomas Heisenhover aveva disposto un pacchettino di ovatta e una fiala di alcool denaturato. Lienhard poteva immaginare quale fosse il contenuto della siringa: il Prostaglandin PGF-2α di solito veniva usato per riattivare il ciclo ormonale degli omega che facevano uso di soppressanti. A differenza del Progestal era una sostanza legale, e un medico come Thomas Heisenhover aveva accesso ad una fornitura praticamente infinita di PGF-2α.

Lienhard disinfettò la pelle poco al di sotto della spalla con il cotone imbevuto di ovatta e praticò un'iniezione intramuscolare, osservando come rapito la punta sottile dell'ago che spariva nella sua carne. Analizzò con attenzione quasi scientifica il bruciore che lo punse quando abbassò lo stantuffo, il colore vivace della goccia di sangue che sbocciò sulla pelle e la sensazione di attesa, di smarrimento, di paura. Erano passati troppi anni dall'ultimo calore e l'ansia lo inghiottì.

Si stese sul futon, cercando di normalizzare il respiro. Sapeva che ci sarebbero volute delle ore prima che il Prostaglandin facesse effetto, e non intendeva trascorrere quel tempo nei marosi dell'angoscia; infilò una mano in una delle tasche laterali della valigia da viaggio e tirò fuori un volume tascabile, tutto sgualcito, la cui copertina recitava: "Shakespeare Sonnets − The Oxford Critical Edition".

Lasciandosi avvolgere dal caldo umido che permeava il bungalow, Lienhard cominciò a leggere.


◦○◦


Seppe che si trattava di Ibrahim non appena udì i colpi.

Aveva un modo tutto suo di bussare, l'uomo senza odore, una specie di codice morse che lo avvertiva della sua presenza. L'aveva usato la prima volta, tre colpi veloci e uno più deciso a distanza di pochi secondi, e la memoria di Kaïre non ci aveva messo niente ad assimilare quella sequenza. Era a abituato a ricordare tutto, dai codici cifrati ai dettagli più inutili dei posti che frequentava ogni giorno: con il tempo aveva imparato che una conoscenza accurata delle inezie migliora sensibilmente il controllo che si ha del quadro generale, e lui amava il controllo.

Quella sera la sua maîtresse gli aveva detto di prepararsi bene, per un cliente ricco. Si era messo il suo unico completo elegante, aveva sistemato il buco di stanza che gli avevano assegnato e, nell'attesa, si era seduto accanto all'unica finestra per godersi un po' il panorama della Via delle Lanterne. Era una strada magnifica, forse la più bella del ghetto: filari e filari di lanterne di carta scarlatta, a cui doveva il suo nome, ondeggiavano nella brezza della sera su fili sospesi da una facciata all'altra, e vetrine di bordelli e locali a luci rosse si affacciavano sui marciapiedi affollati come portali di chiese in un luogo di venerazione. Le insegne al neon dei night-club si affastellavano le une sulle altre in un caos di colori squillanti che dava quasi alla testa, mentre impianti di filodiffusione risalenti a una trentina d'anni prima vomitavano musica elettronica a tutto volume − la cacofonia era tale che la maggior parte delle case di tolleranza, compresa quella in cui Kaïre lavorava, si riservavano il privilegio di aumentare i prezzi se dotate di finestre insonorizzate.

Si percepiva il pulsare potente e frenetico di esistenze artificiali, di corpi che si dimenavano sotto lo stimolo del sangue corroso dalle droghe e da una vita dove l'unico piacere disponibile era quello sporco, corrotto, il sesso a pagamento in qualche cubicolo di un settore malfamato. Ogni volta che i suoi occhi si posavano sulla folla Kaïre avvertiva un senso di vuoto, di commiserazione; anche lui era stato più volte sull'orlo di abbandonarsi alle facili lusinghe della Via, prima di capire che certe cose valeva la pena viverle soltanto dietro le quinte, dove il rischio di coinvolgimento era pressoché nullo.

«Vediamo se indovino...» esclamò, alzando la voce quel tanto che bastava perché l'uomo al di là della porta lo sentisse «... chi è venuto a trovarmi oggi».

Non era una persona socievole o accomodante, Kaïre, ma la vita di strada gli aveva insegnato che le maniere gentili erano il modo più semplice per intortare chiunque − soprattutto i nobili, che tendevano a scambiare i sorrisi della gente del ghetto per manifestazioni di ammirazione e riconoscenza. Si sforzò di stirare le labbra in una smorfia che somigliasse il meno possibile a quella di un cane rabbioso e aprì la porta, appoggiandosi con grazia allo stipite.

Ibrahim, una fiore dal lungo stelo tra le dita, lo salutò con un mezzo inchino.

«Mi sei mancato». Gli occhi del nobile erano dolci ed espressivi, di un verde straordinario «È un vero peccato che per trovarti sia costretto ad attraversare questa palude».

«Ogni cosa ha il suo prezzo». Accettò il fiore con un sorriso e se lo rigirò fra le dita, dedicandogli un'occhiata solo apparentemente distratta. Era di una specie rara e molto costosa, con grandi petali di un viola intenso che si coprivano di riflessi metallizzati se esposti ad una luce forte. «Vedo che me ne attribuisci uno piuttosto alto».

«Mai troppo alto, Helorì». Lavorava con uno pseudonimo, ovviamente: non si era mai abbastanza prudenti, visti i frequenti rastrellamenti nella Via delle Lanterne.

«Ti ringrazio, accomodati».

Ibrahim si avvicinò al letto − legno lucido fino a brillare, due piazze di materasso di piume e coperte di seta sintetica − e incrociò le braccia, esitante. Aveva un bel viso dai tratti decisi, con gli occhi a mandorla truccati di nero e i capelli corvini raccolti in una treccia che arrivava fino a metà schiena; la pelle era dello stesso colore dell'ambra, così liscia che Kaïre fremeva al pensiero di toccarla.

Come al solito, al di là del profumo di colonia costosa, l'albino non percepì nessun odore.

«Ti sta bene». Ibrahim accennò con il capo al completo, un collage di sete in diverse gradazioni di grigio chiaro che poco si accordavano con il bianco accecante della sua pelle. «Sembri... diverso».

«Sembro uno degli omega che si portano dietro i ricchi. Sei mai stato al palazzo del Gerarca, Ibrahim?». Si sfilò la giacca e la buttò a terra senza alcun riguardo. L'uomo privo di odore abbassò lo sguardo e si produsse in un «no» incerto che era un chiaro come il Sole.

«No? Peccato, mi piacerebbe così tanto parlare con qualcuno che c'è stato...»

La maglia seguì la stessa sorte della giacca, poi Kaïre si stiracchiò con fare provocatorio. Sapeva di avere un corpo dalle proporzioni aggraziate, insolitamente muscoloso per un omega, appena intaccato dalle cicatrici; lo sguardo di Ibrahim si accese, lento e sensuale mentre gli si avvicinava a passi misurati. Accarezzò in punta di dita la clavicola sottile, un contatto che Kaïre accolse con un brivido compiaciuto, poi appoggiò il palmo sul suo petto, sopra il cuore, e rimase assorto ad osservarlo.

«Tu non provi niente». Mormorò, spostando la mano sul collo «Come una macchina. Mi sono sempre chiesto come facciate ad essere così tranquilli, se dovessi farlo io−»

«Non è una vita per tutti». Prese il polso del nobile tra le dita e lo staccò da sé con delicatezza, facendo un passo avanti «Ma mi accontenterò dell'onore di far sentire un nobile fortunato, almeno per una notte».

Tutte stronzate, solo stronzate. Potendo avrebbe sgozzato Ibrahim per poi vendere il suo cadavere ad un trafficante di organi, l'avrebbe guardato dibattersi sul pavimento con le mani ad arginare i fiotti di sangue e la sua risata nelle orecchie. Fegith doveva la sua miseria ai nobili, alle loro brame ingorde, e Kaïre aveva pagato personalmente il fio della società costruita da quei viscidi bastardi. Non erano che bestie insensate e brutali.

Mentre allacciava le braccia attorno al collo di Ibrahim e avvicinava il viso al suo, sulla pelle il calore intossicante di quel corpo quasi sconosciuto, pensò a come sarebbe stato riempirlo di calci e ascoltare le sue grida di dolore, le sue suppliche disperate. Immaginò di tenergli la testa sott'acqua, i suoi capelli nerissimi come un'aureola di nastri d'inchiostro, finché non fosse annegato.

Si accorse di avere un'erezione soltanto dopo, con la bocca premuta contro quella del nobile e le sue mani forti tra i capelli, frenetiche, e poi sulle spalle e sulla schiena e suoi fianchi, a slacciare i pantaloni troppo stretti. Sostituire l'immagine di Lienhard a quella di Ibrahim fu il passo successivo, e ben presto si ritrovò ad accarezzare le spalle forti del professore − era chiara, la sua pelle, coperta di lentiggini − a baciarne gli zigomi alti e le labbra che sapevano di caffé e fumo. Il suo amore dispiegava i petali come un fiore di sangue e gli consumava la carne e il cervello, carbonizzava tutto il suo essere con una ferocia totalizzante. Non aveva pietà di lui, quel sentimento.

"Mi brucerò," pensava, lasciandosi stendere sul letto "e la colpa sarà soltanto tua, fratellino".


◦○◦


Era ormai buio quando Lienhard mise da parte il libro e decise di dare un'occhiata all'O-screen.

Lo toccò con tutte e cinque le dita e rimase fermo finché il bracciale non cominciò a scaldarsi sensibilmente. Interdetto, aggrottò le sopracciglia e scosse il polso nel tentativo di suscitare qualche reazione più interessante ‒ magari aveva sbloccato la funzione “stufa portatile” o qualcosa del genere, visto che la temperatura dell’O-screen non accennava a diminuire.

Una frazione di secondo dopo lo schermo olografico si materializzò nell’aria, in un lampo accecante bianco e azzurro. A pochi centimetri dal braccio di Lienhard fluttuavano due riquadri celesti: il primo riportava “ATTIVAZIONE MODALITÁ MANUALE”, il secondo “ATTIVAZIONE TUTOR VIRTUALE”.

Toccò il secondo senza esitazione. Le particelle di luce azzurrina si rimescolarono fino a creare una sagoma vagamente umanoide, una specie di bambolina che fluttuava a mezz’aria ondeggiando la testa e le braccia sottili come lacci di scarpe.

«Attivato tutor virtuale». L’avevano dotato di una voce preimpostata metallica e impersonale, ma Lienhard era sicuro che quel modello permettesse di scegliere il timbro e l’intonazione più gradevoli per il proprietario. Suo padre ne possedeva uno simile, e l’A.I. aveva una voce bassa e modulata che ricordava da vicino quella di Dietmut.

«Vorrei… attiva la funzione esplora risorse». Provò, sperando che le sue parole fossero abbastanza chiare.

«Funzione attivata. L’O-screen Kosmos-Evo X3100 offre una grande varietà di programmi per la ricerca di dati all’interno dello SpazioLog, per la messaggistica, per le transazioni bancarie, per…»

Lo ascoltò in silenzio per un quarto d’ora circa, scorrendo di volta in volta le varie icone che comparivano sull’oloschermo ed esaminandone le caratteristiche; proprio mentre stava controllando le potenzialità della funzione di fotografia 3D, un trillo interruppe l’operazione e l’A.I. si immobilizzò.

«È in arrivo un messaggio da parte di un dispositivo sconosciuto. Apro il programma di messaggistica?».

«Vai». Lienhard sorrise, sapendo già chi poteva averlo contattato a quell’ora «Non hai informazioni sul contatto del dispositivo?».

«Il suo ID è Joseph Redthorn. Avvio la conversazione?».

«Sì».

«Deve scegliere un ID che verrà visualizzato dall’altro O-screen».

«Lienhard Heisenhover». Scandì, senza preoccuparsi minimamente della mancanza di fantasia.

«Gradisce utilizzare la funzione video aggiuntiva?».

Lienhard ghignò: «No. Niente funzione video, vanno benissimo i messaggi».

Una stringa di lettere di un bianco abbacinante si dipanò nell’aria, come se Joseph le stesse battendo in quel preciso istante.

Ti stai annoiando? Pensavo che a quest’ora già dormissi.

Dettò la risposta all’A.I. senza abbandonare il sorriso.

Non sono esattamente il tipo che va a dormire presto. Tu, invece?

Sono appena uscito dalla caserma. Oggi ci hanno trattenuto più del solito… sembra quasi che si siano trovati qualcosa da fare anche quando tu non combini cazzate, Lienhard.

Aggrottò le sopracciglia: il quinto distretto era un posto tranquillo fino alla noia, e la caserma annoverava una media di arresti tra le più basse di Fegith. Era strano che ci fosse del movimento, lì.

Ti prego, dimmi che abbiamo un serial killer. O uno stupratore, magari. Potremmo farne il nostro vanto.

Che pessimo gusto.

Mi fai la paternale, Joseph? Potrei ritrattare la risposta che ti ho dato non più tardi di stamattina.

Ci fu qualche secondo di immobilità, poi un torrente di lettere inondò l’oloschermo.

Vorrei ricordarti che ho il tuo libro in ostaggio. Bello, a proposito… sono ancora all’inizio, ma la descrizione della città è particolarmente suggestiva.

Vorrei ricordarti che qualsiasi danno a quel libro equivarrà ad una mutilazione sul tuo corpo. E comunque stiamo parlando di Dostoevskij, ci mancherebbe che fosse brutto.

La seconda pausa fu più lunga della precedente, e Lienhard si chiese se saltare il turno di Joseph e inviare un altro messaggio costituisse una violazione dell’etichetta. Poi, finalmente, il suo interlocutore manifestò la propria presenza.

Volevo chiederti una cosa, ma dubito che mi risponderai.

Se mi dici una cosa del genere è chiaro che muori dalla voglia di farmi questa domanda. Tutt’al più farò finta di non aver letto nulla.

Quell’uomo che ho incontrato a casa tua era veramente il tuo fratellastro?

Lienhard incamerò un lungo sospiro e fu quasi tentato di chiudere la conversazione. Se saper usare l’O-screen significava esporsi a quelle conversazioni sgradevoli, avrebbe disimparato quanto prima.

Sì.

Non sapevo che Thomas Heisenhover avesse altri figli, a parte te.

Dal punto di vista giuridico Kaïre non figura come figlio di mio padre. Non porta il suo cognome e non potrà ereditare nulla alla sua morte. Nessuno ai piani alti si cura del bastardo deforme di un ministro, ce ne sono talmente tanti…

Scommetto che sua madre vive (o viveva) in un vivaio.

Sorpreso, per un attimo non seppe cosa rispondere.

Come fai a saperlo?

Perché se fosse stato figlio della prima e unica moglie di Thomas Heisenhover, tua madre Dietmut, quasi sicuramente lei l’avrebbe tenuto con sé nonostante l’albinismo. I bambini nati nei vivai, al contrario, sono trattati come esseri umani di serie B.

Quel messaggio lo stizzì ‒ come, del resto, qualsiasi affermazione poco urbana rivolta al suo fratellastro, anche se in quel caso non si trattava affatto di un insulto. Dettò la replica due o tre volte, prima di decidersi a inviare quella definitiva.

Mio padre non tratta nessuno come un essere umano di serie B, e mio fratello Kaïre ha scelto spontaneamente quella vita.

Non c’è bisogno che ti giustifichi, Lienhard. Io so com’è. Mia madre era una Fattrice.

«Oh, cazz‒» l’idea era quella di lanciarsi in una risposta piena di scuse (come sempre, lui e Joseph riuscivano a trattarsi in maniera indelicata anche quando la conversazione partiva da premesse ottime), ma, prima che potesse dettarla al’A.I., quello gli comunicò l’ultimo messaggio che avrebbe voluto sentire.

«L’ID Joseph Redthorn si è disconnesso. Desidera inviare messaggi all’utente offline o continuare con la funzione esplora risorse?».

Lienhard abbandonò la testa sul cuscino e sbuffò, masticando una mezza imprecazione.

«Continua con la funzione esplora risorse. Tanto, peggio di così non può andare».

«Funzione riattivata. L’O-screen Kosmos-Evo X3100 offre una grande varietà di programmi per la locazione tramite ID e codice apparecchio, per il rilevamento delle radiazioni ambientali, per la scansione veloce e la trasmissione di documenti cartacei…»


◦○◦


Joseph si passò una mano sul viso e bevve una lunga sorsata di liquore. Era molto raro che bevesse e nel suo appartamento spoglio non c’era che un’unica bottiglia il cui contenuto potesse definirsi alcoolico, ma il pensiero di Lienhard Heisenhover lontano chilometri da Fegith e della conversazione appena avuta gli torceva le viscere.

Sono un’imbecille irresponsabile”. Si disse. Se i suoi superiori avessero saputo a che livello di coinvolgimento emotivo era arrivato, lo avrebbero immediatamente rimosso dall’incarico ‒ non del tutto a torto, peraltro. In quello stato non sapeva dire se sarebbe riuscito ad arrestare Lienhard Heisenhover, se anche si fosse messo a propagandare contro il Gerarca e la sua intera famiglia.

Maledizione”.

Quando e come era cominciata?

Non lo so, non lo so, non lo so…”

Di sicuro vedere quel maledetto albino nell’appartamento di Lienhard gli aveva schiarito le idee. Non era mai stato così furioso con qualcuno, la sua parte alfa aveva ringhiato e scalpitato per prendere il sopravvento e avventarsi su quello che aveva classificato immediatamente come un rivale. Si era reso conto che la sua parte istintiva era ben più forte di quanto pensasse.

E tuttavia quello non era che il culmine di un processo molto più lento, cominciato ‒ almeno così credeva ‒ quando aveva ascoltato la lettura di Delitto e Castigo in Arkesoviet, quando aveva sperimentato le magie che Lienhard sapeva fare con quella sua voce stupenda. Forse l’aveva colpito perché era una persona diversa sotto ogni punto di vista: non aveva mai conosciuto nessuno che somigliasse a Lienhard Heisenhover, che fosse altrettanto sicuro di sé. straniato dal mondo e autoreferenziale.

Un alfa nel senso più puro del termine, che si sentiva tanto superiore agli altri da poterne ignorare il giudizio. Arrogante e degno d’ammirazione allo stesso tempo.

Se chiudeva gli occhi vedeva i suoi occhi scuri, la piega decisa delle labbra sottili. Vedeva la pelle chiara, le mani lunghe e un po’ goffe, i capelli che incorniciavano il collo con le loro ondulazioni dorate. I pensieri che la sua mente gli suggeriva erano così mortificanti che preferiva relegarli in un angolo e continuare a concentrarsi sui quei dettagli in sé privi di peso, piuttosto che figurarsi il corpo nudo di Lienhard e le sue gambe distese tra le lenzuola di un letto ruvido, da caserma.

Ricordati che è un alfa”.

L’attrazione sessuale tra due appartenenti alla stessa Classe – alfa e alfa, omega e omega, beta e beta – era un evento rarissimo e sempre molto blando, che generalmente si verificava in condizioni particolari: Joseph aveva sentito racconti di amori brevi e fugaci nati tra i ranghi dell’esercito, composto da soli alfa, nelle guerre interplanetarie che costringevano interi contingenti ad accamparsi in zone isolate per mesi e mesi. La dinamica tra lui e Heisenhover era completamente diversa.

Sentiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto, ma non capiva cosa. Non era sicuro di voler aspettare ancora per avere le sue risposte.


◦○◦


Cominciò con il languore.

Il mattino successivo alla conversazione con Joseph Lienhard si svegliò in preda ad una sensazione strana, come una pressione irrisolta all’altezza del bassoventre. Non aveva voglia di alzarsi dal letto.

Dopo un paio d’ore al disagio si sostituì la smania. Era come una fame, un bisogno pressante che partiva dal bassoventre e serpeggiava per tutto il colpo, annullando qualsiasi altra necessità. Il solo pensiero di mangiare lo disgustava, l’unica arsura che sentiva era quella, insopportabile, dalla cintola in giù, e senza che se ne accorgesse una sostanza umida cominciò a colargli tra le gambe ‒ avvisaglia del calore imminente, del suo corpo che si preparava con trepidazione.

L’odore dei ferormoni divenne gradualmente più forte, una nube zuccherina che impregnò le lenzuola e la stanza fino a nausearlo. Era così denso e opprimente, mescolato con l’aria umida dell’estate, che parecchie volte pensò di soffocare. Gli girava la testa, si sentiva male.

Quella notte non riuscì a dormire; si tolse tutto quello che aveva addosso e cambiò le lenzuola, ammucchiando quelle sporche nella vasca da bagno. Mandavano un profumo disgustosamente dolciastro, erano umide e stropicciate dai suoi movimenti incessanti.

All’alba già gemeva, cercando di soffocare la voce con la faccia affondata nei cuscini. Ogni sforzo di trattenersi risultava vano: sentiva, con una precisione disarmante, che se in quel momento fosse passato un alfa davanti al bungalow gli si sarebbe buttato addosso senza remore, chiunque fosse.

Non per forza Joseph, no ‒ il solo pensiero del suo odore lo faceva quasi gridare ‒ sarebbe andato bene chiunque. Ed era qualcosa di cui si vergognava, una debolezza inammissibile.

Aveva provato a spicciarsela da solo, ma non bastava. Il suo corpo aveva una fame incredibile, accresciuta da più di un decennio di stasi, e le pulsioni mortificate chiedevano a gran voce soddisfazione.

Voglio morire,” si disse, dopo quella che gli sembrò un’eternità “questo tormento non finirà mai”.

Fu così che, quando sentì il rumore di una vettura che si fermava davanti al bungalow, inizialmente pensò ad un’allucinazione.

Il Sole stava scivolando oltre l’orizzonte, un disco d’oro rosso nel cielo infiammato, e la concentrazione di ferormoni nell’aria della stanza era ben oltre la soglia dell’insopportabile. “Sto impazzendo,” pensò “sto davvero impazzendo”.

Poi avvertì i passi ‒ affrettati, pesanti, irregolari.

Un secondo ancora, e qualcuno cominciò a prendere a spallate la porta.

Lienhard scattò a sedere come una molla, gli occhi sgranati nella penombra, e ascoltò gli schianti secchi di un corpo che si abbatteva violentemente contro il legno sottile; capì subito cosa stava succedendo. Lo capì anche prima che l’odore pungente di un alfa gli raggiungesse le narici, percuotendo il suo corpo con un’intensità che lo lasciò senza fiato.

La parte più brutta fu realizzare che non si trattava di un alfa qualsiasi.

«No, no, cazzo, no…»

Fece appena in tempo a tapparsi il naso che la porta si spalancò con uno schianto e il viso alterato di Joseph Redthorn, contratto in una smorfia irriconoscibile, si stagliò contro il cielo scuro.













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Non so se questo capitolo si possa definire “di passaggio” oppure “baraonda indefibile”. IMHO la seconda definizione è più accurata :D

Ci sono parecchi personaggi e parecchie situazioni diverse, la storia comincia a stratificarsi e siamo arrivati ad un punto di svolta importante. Cosa succederà adesso? Abbiate fiducia in me, molto probabilmente il prossimo capitolo sarà molto diverso da come ve lo aspettate ;)

Grazie a chi ha messo la storia tra le ricordate/seguite/preferite e a chi recensisce [i vostri commenti sono il bene]. Fatemi sapere se il procedere della storia vi appassiona o se, a vostro gusto, c’è qualcosa da migliorare… i consigli sono il pane quotidiano di noi poveri scrittori amatoriali ;3

Al prossimo capitolo,

Greedfan


   
 
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