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Autore: GreedFan    26/04/2014    4 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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η.


Il tempo aveva insegnato a Thomas Heisenhover che la pazienza era una delle doti principali di un buon leader. A volte, però, mantenere la maschera di indifferenza e giovialità per cui il Ministro era noto si rivelava particolarmente difficile.

«Che vuol dire, Beatrisa?». La sua voce vibrava di rabbia.

Nell’ufficio spoglio e semibuio c’erano soltanto il Ministro, seduto dietro una scrivania con le dita intrecciate sulle ginocchia, e una donna. A guardarla distrattamente la si sarebbe detta piuttosto un uomo basso e tarchiato, con le spalle larghe e una muscolatura pronunciata sotto la pelle cotta dal sole; portava i capelli cortissimi, a spazzola, e il vestiario militare ‒ canottiera di tessuto termo-resistente, pantaloni di feltro e anfibi ‒ trasmetteva un’impressione di durezza confermata dallo sguardo deciso dei suoi occhi neri. Beatrisa Zajitzeva era un soldato semplice nel dipartimento anti-contrabbando dell’esercito di Fegith e uno dei luogotenenti più spietati di Thomas Heisenhover.

«Abbiamo scoperto una spia nell’organizzazione». La sua postura era rigida, i pugni stretti «Il suo nome è Weike Sommer, un pesce piuttosto piccolo. Al dipartimento non mi occupo della sezione spionaggio, ma mi è bastato fare un controllo approfondito nei database protetti della centrale per scoprire l’identità della nostra talpa. Vendeva informazioni all’esercito in cambio di soldi, evidentemente quello che guadagnava con noi non gli bastava».

«Porco ingordo». Thomas serrò le dita sul bordo della scrivania «Dov’è adesso? Sappiamo esattamente quante informazioni ha passato all’esercito?».

Beatrisa annuì.

«È ancora vivo, ma abbiamo usato gli psicodroni per accertarci che non si inventasse niente. Lo teniamo in un magazzino fuori città, in attesa dell’ordine di esecuzione».

Gli psicodroni erano insieme un’infallibile macchina della verità e un’arma di tortura spaventosa. Venivano introdotti nel cervello attraverso le orecchie, il naso o i bulbi oculari, e potevano tradurre i segnali elettrici inviati dai neuroni in informazioni leggibili che scorrevano su uno schermo come un film: il dolore, per chi subiva quel genere di interrogatorio, era atroce, i danni al cervello irreversibili. Il loro uso era severamente vietato a meno che non si incorresse in circostanze limite ‒ la minaccia di un gruppo terroristico ai danni dell’intera città, per esempio ‒ ma l’organizzazione di Thomas Redthorn era solita ignorare ogni tipo di regolamento.

Il Ministro sorrise: chiunque fosse stato Weike Sommer, in quel momento non doveva essere molto più che un vegetale.

«Quindi? Cosa sappiamo?».

«Non ha avuto tempo di passare informazioni rilevanti. Come ho già detto, lavorava ai piani bassi: ha causato un paio di arresti tra quelli che smerciavano Progestal per strada, tutto qui. Da quello che ho potuto vedere nel database, era l’unica talpa a disposizione del dipartimento».

«Meraviglioso. Sarebbe davvero molto sgradevole occuparsi dell’eliminazione di altre spie a due mesi dalla prossima consegna. In ogni caso voglio che vengano intensificati i controlli, siate più cauti… e fate in modo che nessuno ritrovi il corpo di quel Wieke Sommer».

Beatrisa annuì di nuovo, senza smuovere di una virgola i muscoli mimici.

«Il carico sul satellite Amaterasu è quasi pronto. Arriverà a destinazione senza intoppi».


◦○◦


Sapeva di non avere tempo per pensare.

Con le dita strette sul naso fino a far scricchiolare la cartilagine saltò di lato una frazione di secondo prima che, annullata in un battito di ciglia la distanza che li separava, Joseph piombasse sul futon. Ringhiando, ringhiando come un cane rabbioso.

«Joseph−» provò, indietreggiando verso la porta che collegava la camera da letto alla zona giorno «Joseph, sono io. Sono Lienhard. Tu non ti rendi conto di quello che stai facendo». Nella sua voce c'era una nota isterica. I ferormoni del soldato erano capaci di attrarlo anche se respirava soltanto con la bocca − organo vomeronasale di merda e adesso che cazzo mi invento non posso usare un braccio sono nudo come un verme - e sapeva che se avesse trascorso troppo tempo in sua compagnia non avrebbe più potuto fare affidamento sulla parte razionale del suo cervello. Il profumo dell'alfa era intossicante, irresistibile.

In quel momento si ricordò delle p'vorot.

Joseph emise un verso che si collocava a metà tra un gemito di frustrazione e un basso brontolio, poi artigliò con la mandritta la federa del cuscino e la stracciò in un gesto che gettò Lienhard in un vortice di terrore gelido. Il soldato era più vicino di lui alla porta del bagno, era più forte e più veloce. Non sarebbe mai riuscito a raggiungere le p'vorot e a chiudersi dentro prima che l'altro lo raggiungesse, e comunque sarebbe servito a poco: nel bagno c'era un'unica finestrella, troppo piccola per permettergli di scappare, e la porta era sottile.

«Vieni qui, Leny». Quando Joseph parlò la sua voce era quasi irriconoscibile, un gorgoglio cupo e velenoso come il ringhio di una iena «Ti prego, ti prego. Stai solo rendendo le cose più difficili, puttana bugiarda». La schiena tesa sotto il tessuto di una maglietta chiazzata di sudore, l'espressione a metà tra la ferocia incontrollata e un disappunto che scavò nelle viscere di Lienhard con il dolore metodico del senso di colpa. Non sarebbe servito a niente, ma provò lo stesso a giustificarsi.

«Non potevo dirtelo». Un passo indietro, poi un altro; il tavolo della cucina non troppo lontano, qualcosa dietro cui nascondersi. «Mi avresti denunciato. Per quelli come me c'è la condanna a morte». Deglutì, mentre Joseph si voltava lentamente − ancora in ginocchio sul letto sfatto − e i suoi occhi brillavano, fiamme fredde nell'oscurità. «E anche perché non mi avresti mai dato una possibilità, da omega. Mi avresti etichettato... come una cosa inferiore. E io non volevo».

Redthorn scoprì i denti e fece un passo avanti, lo sguardo appannato. Le pupille dilatate sembravano voler inghiottire l’iride.

«E perché non volevi?». Un passo avanti, i muscoli del collo tesi fino a scoppiare «E perché, Lienhard? Per evitare questo?».

Si lanciò in avanti, abbrancando l’aria. Di nuovo lo evitò, con una mezza piroetta che lo mandò a sbattere con il fianco contro il tavolo ‒ «Ah, cazzo!». ‒ mentre Joseph scivolava sul pavimento e si aggrappava allo schienale di una sedia per non cadere. Si ritrovarono a poco più di un metro di distanza, a fissarsi dai lati opposti del tavolo. Joseph ansimava pesantemente, chiazze rosse sulla guance e sulla fronte, mentre Lienhard cercava di controllare il tremito delle gambe e inghiottiva un rantolo terrorizzato dopo l’altro.

È più forte, non riuscirai a scappare. E dopo, quando si sarà ripreso e sarete Legati, ti odierà al punto da ammazzarti.

«Non sei in te». Esalò, stringendo una sedia con la mano libera «Joseph, te ne pentirai. Non devi farlo. Trattieni il respiro per qualche secondo, io sono sicuro che‒»

«Stai zitto». Si chinò in avanti, uno spostamento lento e millimetrico «Se solo potessi sentire il tuo odore, Leny… è come se mi stesse chiamando». Socchiuse gli occhi e inspirò a fondo, con un viso che era quello Joseph e al tempo stesso non lo era «Pensavo di essere strano, malato. E invece… invece mi ero soltanto fatto fregare dalle tue cazzate».

Il connubio tra massicce dosi di testosterone e rabbia non era migliore di quello tra fiammiferi accesi e nitroglicerina. Gli alfa, per natura aggressivi, diventavano completamente incapaci di controllarsi.

«Tu…» non riusciva a concentrarsi, l’odore pungente di Joseph lo riempiva di brividi e sudore «… tu mi avresti trattato allo stesso modo se mi fossi presentato come un omega?».

No, certo che no. Non gli interessava la risposta in sé, ma gli istanti di tempo prezioso che gli avrebbe fatto guadagnare: Joseph corrugò le sopracciglia, il suo sguardo si fece per un attimo più lucido in un impeto di concentrazione, e Lienhard ebbe il tempo di elaborare un’idea. Un’idea folle, quasi impraticabile per il suo corpo distrutto, ma che rappresentava l’unica alternativa.

«Io avr‒» Liberò il naso, trattenne il respiro e agganciò il bordo del tavolo con entrambe le mani. Lo rovesciò addosso a Joseph prima che avesse il tempo di finire la frase o di rendersi conto di quello che stava succedendo, un grido galvanizzato tra le labbra arricciate. Il soldato cadde a terra, intrappolato tra il bordo del mobile ‒ era pesante, di legno pieno ‒ e la sedia a cui si era aggrappato, vomitando imprecazioni. A quel punto Lienhard prese l'unica sedia rimasta in piedi e assestò un colpo non troppo forte  sulla schiena di Joseph− se anche si fosse impegnato dubitava di poter fare davvero del male all'alfa, che emise un grido di dolore e poi rimase immobile, boccheggiando, sul pavimento di assi. L'aria nei polmoni cominciava a scarseggiare.

Barcollò fino al bagno, urtando ogni spigolo possibile, e spalancò l'armadietto dei medicinali con una forza che per poco non fracassò l'anta. Infilò una p'vorot con gesti affrettati, incamerando una boccata d'aria che sapeva − grazie alle due lune di Nenya - di niente, e, afferrata la seconda forcella, si precipitò su Joseph. Non poteva permettersi di esitare, ma le sue mani tremavano come fuscelli mentre sollevava il viso del soldato − «Maledetto bastardo, maledetta puttana bugiarda...» − e posizionava la p'vorot. Il corpo del soldato sembrò sgonfiarsi, rilasciare in un colpo solo tutta la tensione accumulata.

Dopo ci fu un attimo di quiete, in cui Lienhard crollò a terra ed emise un lamento − l'eco della disperazione, forse, o della paura. Il suo corpo appariva miseramente magro nella luce azzurrognola che lo inondava dalle pareti vetrate, rivoli umidi tra le cosce e chiazze arrossate dove il bacino aveva colpito il legno. Si sentì svuotato, debole.

Joseph tossicchiò, facendolo sobbalzare.

Un attimo dopo la sua voce − ed era veramente sua, stavolta, morbida e roca al tempo stesso − emerse dall'intrico di legno e stoffa e rabbia malamente imbrigliata. Come un riverbero stanco, scheggiato.

«Quindi è questo che si prova,» mormorò, abulico, le labbra a sfiorare appena il pavimento «ad essere una bestia senza controllo». Ogni parola strappava via un pezzo di carne dal cuore di Lienhard, lo divorava a poco a poco.

«Joseph, perdonami, non vole−»

«Per tutta la vita ho cercato di controllarmi, Lienhard. Di bloccare questi impulsi disgustosi che sono la parte più vile dell'essere un alfa». Il professore vide il luccichio indistinto di quella che sembrava una lacrima sulle ciglia nere del soldato «E per colpa delle tue bugie ho tirato fuori il peggio di me».

Si coprì il viso con le mani, Lienhard, per non guardare il corpo sconfitto di Joseph e la luce incantevole delle lune, per non guardare il tavolo rovesciato e il groviglio di coperte sul pavimento della camera da letto. Stavolta non c'era nessuno a salvarlo dalle conseguenze dei suoi errori, a ricucire le ferite da cui fiottava sangue amaro di senso di colpa.

Rimasero entrambi immobili, respirando piano, senza sapere esattamente cosa stessero aspettando.

 

Fu Joseph, quasi un'ora di silenzio più tardi, a parlare.

«Quando hai scoperto di essere un omega?». Chiese, il tono soffice, senza accennare a togliersi di dosso le sedie. Le ombre cadevano sul suo viso, nascondendolo, e Lienhard ne cercò a lungo i lineamenti prima di rispondere − straniato, le braccia avvolte intorno alle ginocchia in una posa che poco si addiceva ad un uomo adulto. Camminava sul limite estremo di un baratro, barcollando, a pochi metri dalla persona che avrebbe potuto ferirlo più di tutte le altre e a cui rischiava di fare del male con ogni parola. Era come lucidare un vaso di cristallo con la lana d'acciaio.

«Avevo... undici anni, credo. Me lo disse mio padre». Si tenne sul vago, ma una risposta come quella non avrebbe mai soddisfatto la curiosità di Joseph.

«Com'è stato?». Sentì un fruscio, immaginò il corpo dell'alfa disteso in una posa inerme sotto l'intrico di legno.

«Prova a pensare di essere un bambino di undici anni come tutti gli altri, in una classe piena di alfa che non fanno altro che sognare la loro futura carriera militare e raccontare di quanti omega possiederanno quando saranno adulti». La voce di Lienhard, incerta fin dall'inizio, si incrinò: «Prova ad immaginare di fare come uno di quei bambini, con la testa piena di favole sulla forza degli alfa e l'intelligenza degli alfa e il potere degli alfa. Poi, un giorno, tuo padre ti tira in disparte e ti dice senza troppi preamboli che quei sogni li puoi anche buttare nel cesso». Joseph si mosse, un frullare lieve di ombre. «Che sarai proprio quella persona debole e meschina che ti hanno insegnato a disprezzare fino a ieri. Che, non so, tutte i tuoi amici un giorno ti vedranno come qualcosa di non molto diverso da un'incubatrice sforna-alfa, che diventerai un oggetto sessuale e nient'altro. Che qualsiasi cosa tu dica la tua opinione avrà poco o nessun valore, perché le tue saranno le parole di un omega».

Il soldato si schiarì la voce e fece per dire qualcosa, poi rimase in silenzio.

«Non riesci ad immaginare com'è, vero?». La domanda sfumò nella tenebra, Lienhard sospirò: «Hai tutte le ragioni per odiarmi, Joseph. Ti ho preso in giro fingendo di essere qualcosa che non sono. Questo è un crimine punibile con la pena di morte o l'ergastolo, e io non−»

«Una parte di me,» Joseph lo interruppe, spezzando il flusso concitato delle sue parole senza il minimo riguardo «vorrebbe chiamare la centrale e farti arrestare in questo preciso istante. Un'altra parte vorrebbe strapparsi questo dannato affare dal naso e finire quello che avevo cominciato, e solo le Stelle sanno quanto sia dolce il tuo odore, Lienhard». Inspirò, una sedia cadde da una parte con un tonfo secco «Ma l'ultima parte, quella che ho intenzione di ascoltare, sa che nei tuoi panni avrei fatto la stessa cosa. Tu sei... più intelligente di me, più consapevole. È come se capissi le cose più a fondo di quanto fanno tutti gli altri. Lo pensavo quando credevo che fossi un alfa e lo penso anche adesso». Si alzò in piedi, e le due lune improvvisamente illuminarono il suo sguardo deciso. «Se mi trovassi in pericolo e dovessi scegliere qualcuno da cui farmi guardare le spalle, quello saresti tu. Non c'è nessun alfa che sceglierei prima di te».

Il professore trattenne il respiro, attonito. Il complimento si scavò un posto nel suo cuore e mise radici lì, in un angolo da cui poteva guardare speranzosamente il mondo e sperare di venire irradiato da un po' di luce, ma la paura rimaneva ad assediare quella minuscola oasi di calore. Cercò di deglutire, ma la bocca secca glie lo impedì.

«Però c'è una cosa che voglio sapere. Quando hai detto che ti sei preso gioco di me, intendevi anche...» Joseph si guardò intorno, come se l'arredamento spoglio del bungalow potesse suggerirgli le parole giuste. E Lienhard capì cosa voleva chiedergli anche solo da quello, dalla tensione delle spalle e dall'imbarazzo malcelato delle mani contratte.

«No». Sicuro, per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione «No, Joseph».

Il soldato non sorrise − erano successe troppe cose − ma annuì bruscamente e il suo viso si rilassò.

«Non potresti rivestirti?». Aggiunse «Non riesco a parlarti come si deve, altrimenti».

Mentre correva in camera da letto, una confusione febbrile nel cervello, a Lienhard arrivò un'ultima frase, come trasportata dall'oscurità.

«Mi chiedo se riuscirai mai a perdonarmi».


◦○◦


Appostato in una traversa poco lontano dalla Via delle Lanterne, Kaïre si rigirava una capsula di Progestal tra le dita e attendeva l'arrivo di qualche compratore. Ogni tanto facevano capolino nel vicolo, controllavano che non ci fossero militari in vista e si avvicinavano con i soldi già in mano: lo scambio avveniva in pochi istanti silenziosi, tanto che a volte l'albino non riusciva nemmeno a guardare in faccia i suoi clienti − conosceva le loro dita, quelle sì, la sensazione di sfregamento sudaticcio e fastidiosamente umano dei polpastrelli. I ragazzi giovani e benestanti avevano mani di velluto, affusolate e gentili mentre ghermivano le capsule, mentre i calli della classe operaia grattavano la pelle come carta vetrata.

Puoi anche riempirti la faccia di trucco per mascherare chi sei veramente, pensava l'albino, vendita dopo vendita, ma le tue mani racconteranno sempre la verità.

Non abbassava mai la guardia. La minima distrazione sarebbe risultata fatale in un lavoro come il suo, dove non erano infrequenti gli incontri con disperati disposti a tutto per un paio di capsule di progesterone.

Dal fondo del vicolo spuntò un uomo alto e magro, sulla trentina, con i capelli cortissimi e una camminata rigida che dava piuttosto nell'occhio. Kaïre tese ogni muscolo del corpo e si staccò dal muro con un mezzo passo, veloce, immergendosi più profondamente nell'ombra tesa del palazzi neri; cacciò una mano tra le pieghe della felpa, le dita strette sul fusto sottile di uno storditore antisommossa, e attese con il fiato sospeso.

«Due». Il viso dell'uomo era parzialmente nascosto dall'oscurità, ma i suoi occhi castani perforavano la cortina di tenebra. «Quant'è?».

Kaïre inspirò a fondo e non trovò nessun odore omega. Piuttosto una scia sottile, abilmente nascosta ma impossibile da celare al suo naso allenato, gravida di testosterone − attivò lo storditore con una pressione lieve delle dita e frugò nella tasca della felpa con l'altra mano, per dare l'impressione di star cercando il Progestal. Tendini tesi sotto la pelle, respiro corto.

«Trenta». Lo storditore era ricoperto da un rivestimento opaco, color carne, che non catturò la luce della luna mentre l'albino allungava la mano verso il compratore sospetto. Ci fu un momento di trambusto quando l'alfa gli strinse le dita in una morsa d'acciaio e lo strattonò verso di sé, flettendo il braccio libero nell'anticipazione di un pugno da manuale. In quel preciso istante lo storditore entrò in azione, sfrigolando contro la pelle dell'alfa, e quello si afflosciò a terra come un sacco vuoto.

Kaïre, minimamente scosso, assestò un calcio nel ventre dell'uomo − non che lui potesse percepire alcunché, con il sistema nervoso in blackout per almeno un quarto d'ora − e si chinò a frugargli nelle tasche. Ne emerse una piastrina O-screen di un blu cobalto difficile da fraintendere.

"Un soldato semplice". Aggrottò le sopracciglia, preda di un fremito di disprezzo. "Da quando l'esercito si immischia nei nostri affari?".

Piastrine O-screen come quella venivano distribuite ai soldati troppo poveri per permettersi di acquistare un dispositivo più avanzato. L'albino ne aveva già viste diverse, considerato che sottrarle alle reclute più sprovvedute e rivenderle per pochi soldi sul mercato nero era una specie di sport nazionale, nel ghetto; c'era chi le collezionava e se le appendeva al collo per dimostrare quanti soldati era riuscito a fregare.

Nella piastrina, dunque, nulla di insolito. Il problema stava nel fatto che un soldato, evidentemente alfa ed evidentemente malintenzionato, l'aveva avvicinato con l'intenzione di aggredirlo − voleva arrestarlo, forse? Ma perché? C'era sempre stato un accordo tacito, tra militari e abitanti della Via delle Lanterne, per cui i primi ricevevano sconti sulla droga e sulle case di tolleranza e i secondi non venivano infastiditi.

"Nessuno spezzerebbe quell'equilibrio". Rivoltò le altre tasche del soldato, ma non ne uscì nulla. "Questo è folle".

Sgattaiolò fuori dal vicolo, e via di corsa nelle strade deserte del ghetto. Doveva avvertire gli altri prima che quella situazione inquietante rivelasse delle pieghe ancora peggiori di quanto sospettava.

◦○◦


«Voglio farti vedere una cosa». Zoppicando, affaticato, Lienhard si appoggiò alla porta del bungalow e abbassò la maniglia «Andiamo».

Joseph non se l'aspettava. Aveva sistemato le sedie attorno al tavolo della sala da pranzo e si era seduto, la testa tra le mani, senza sapere cosa fare; gli sembrava di incespicare su una crosta di vetro sottilissimo, prossima a spezzarsi e ferirlo al minimo passo falso, e per quanto si sforzasse non riusciva a guardare il viso di Lienhard senza precipitare in uno stato di profondo malessere.

"Mi ha mentito," emergeva, ogni tanto, nella baraonda dei suoi pensieri "e io per poco... io per poco non l'ho..."

Arricciava le labbra, cercando di concentrarsi su qualcos'altro. Joseph era sempre stato abituato a vedere il mondo sotto un filtro perenne di bianchi di neri, di colpevoli e innocenti: in quella circostanza, però, trovare qualcuno che fosse colpevole e allo stesso tempo non lo fosse era impossibile. Poteva incolpare Lienhard per aver violato la legge, per avergli mentito, ma ogni volta che pensava alla sua voce mentre leggeva e al suo sguardo − alfa tra gli alfa − gli sembrava che quello fosse giusto, che quello fosse naturale. Non poteva immaginarlo in un vivaio, con il camice bianco delle fattrici e il cranio rasato − il chip impiantato poco sotto l'orecchio destro, i tentacoli biomeccanici a sporgere dalla pelle sottile − senza provare raccapriccio. Ricordava gli omega che componevano gli harem dei suoi cugini, la casata regnante dei Redthorn, con le loro divise sfarzose e i collari a elettroshock e le teste chinate e gli occhi pieni di rassegnazione, docili: Lienhard Heisenhover non era e non sarebbe mai potuto essere nulla di tutto ciò.

"Puoi davvero accusarlo perché si è ribellato?".

Affondò le dita tra i capelli, squassato da quel conflitto invisibile. Non si meritava la pace, ma in quel momento la desiderava più di ogni altra cosa − "Se solo tu non esistessi, se solo non ti avessi mai incontrato..."

Ed era vero, anche quello, fino ad un certo punto. Non sapeva più cosa pensare.

«Andiamo».

Lienhard si era infilato una tuta di ultraneoprene e sopra i pantaloni e una camicia aperta. Era strano vederlo con qualcosa di così moderno, con la luminescenza dei polimeri sintetici ad accarezzargli il collo fin sotto la mandibola, e Joseph si disse che la tuta doveva avere a che fare con il calore.

«Dove?». Si tirò in piedi come se qualcuno gli avesse attaccato delle zavorre pesantissime alle spalle, a fatica «Forse sarebbe meglio se me ne andassi».

«Non credo». Lienhard si sistemò uno zainetto sulle spalle, cinghie di cuoio consumato e stoffa crivellata di buchi «E perché, poi? Per rinchiuderti da qualche parte e avvelenarti il sangue?».

«È così sbagliato avvelenarsi il sangue per una cosa del genere?». Joseph alzò la voce «Lienhard, adesso non puoi fare finta che sia tutto−»

«Stop». Aprì la porta, rivelando uno scorcio di campagna immersa nel chiarore lunare «Stop alle conclusioni affrettate. Andiamo, Joseph, ormai ti ho fatto tutto quello che potevo farti. Questo non sarà peggio di una sediata».

Un sorriso appena accennato si dipinse sul viso del soldato, che sussurrò: «Non ne sono così sicuro».

Lo seguì, alla fine, fuori dal bungalow e attraverso una boscaglia di felci alte e fronzute che nascondevano l'orizzonte. Il terreno era morbido, coperto da un'erbetta violacea che ricordava la mucillagine, e Lienhard si muoveva come se stesse seguendo un sentiero preciso in quel sottobosco privo di riferimenti.

«Dove stiamo andando?».

«C'è un frutteto». Il professore si abbassò sotto le fronde di una felce particolarmente grossa e sparì in una macchia di oscurità nera come lo spazio profondo «Öbstgrun, file di alberi a perdita d'occhio. Ci andavo da piccolo».

«E perché dovremmo andare proprio lì?». A malincuore, Joseph ricordò un bambino con lo sguardo troppo severo che sedeva tra i tronchi alti degli öbstgrun, tremando mentre i richiami irati di suo padre echeggiavano nella lontananza.

«Perché quel frutteto è mio». Si stavano spostando sul limitare di un campo di papaveri, che Lienhard indicò con un gesto ampio «Li vedi quelli? Sono controllati da unità volanti che si spostano in sciami lungo i perimetri e sentinelle armate. Se provi a staccare un solo bocciolo sono autorizzati a disgregarti, e non sarebbe saggio accamparsi lì in mezzo».

«Accamparsi?». Joseph aggrottò le sopracciglia e si rese conto, con un certo sollievo, che quella camminata in campagna lo stava effettivamente distraendo «E perché mai hai un frutteto? Non mi sembri un amante dell'agricoltura».

«Era di un vecchio che mi lasciava sempre stare lì, purché non gli rovinassi le piante e cose così. Mi sdraiavo sotto gli alberi e potevo mangiare tutte le bacche che volevo. Poi il vecchio è morto e ho comprato il frutteto per evitare che qualche compagnia interplanetaria lo trasformasse nell'ennesimo campo di papaveri da oppio». Lienhard fece spallucce, un accenno di nostalgia nella piega delle labbra «Di quelli ce ne sono già abbastanza».

Gli alberi di öbstgrun comparvero come una macchia scura sul cielo buio, un merletto dai bordi irregolari che si estendeva per metà dell'orizzonte e spandeva il suo profumo zuccherino a decine di metri di distanza. Gli alberi erano piantati secondo uno schema regolare, una griglia di tronchi lisci da cui pendevano grappoli di fiori bianchi − chiusi, sembravano punte di lancia intagliate nell'osso − e bacche bioluminescenti, rosa pallido.

Lienhard si fermò in uno spiazzo tra quattro alberi e radunò alcuni sassi, con cui formò un piccolo recinto approssimativamente circolare. Joseph si sedette a pochi centimetri dal circolo di pietre, osservando le danze di qualche insetto notturno che depredava i grappoli di bacche e spariva ronzando nell'intrico di fronde − a quanto pareva, il proprietario del frutteto non si era mai preoccupato di potare gli alberi, i cui rami lasciavano vedere appena qualche squarcio di cielo stellato.

Corrugò le sopracciglia quando Lienhard si chinò a raccogliere qualche ramo secco e sistemò una piccola pira al centro del recinto, per poi armeggiare con uno strano arnese di metallo che aveva tirato fuori dallo zaino. «Che stai facendo?». Chiese, mentre il professore usava l'aggeggio per vaporizzare chissà quale sostanza sui rametti «È una trappola per insetti?».

«Immagino che tu non abbia mai acceso il fuoco». Lienhard ridacchiò «Non nella maniera antica, almeno».

«Fuoco?». Stupito, Joseph si protese verso i ramoscelli una frazione di secondo prima che una scintilla scaturita dall'attrezzo metallico facesse scaturire una vampata di fiamme; sobbalzò, colto alla sprovvista, mentre strie di fuoco arancione si avviluppavano come serpenti sul legno secco e rischiaravano lo spazio scuro tra gli alberi. «Non è legale accendere del fuoco vero, soprattutto in un posto pieno di materiale infiammabile come−»

«Lo so, lo so... ma guarda quant'è bello». Lienhard appoggiò il mento sulle ginocchia e si accostò al falò, una mano protesa per scaldarsi «È vivo, a differenza degli ologrammi. Senti che caldo».

Joseph inarcò le sopracciglia, trattenendosi dall'imitare il gesto del professore, e sbottò: «Sì, è bello, ma che senso ha tutto questo?».

«Shhh...» l'omega socchiuse gli occhi «... prova a non pensare, Joseph. In questo momento è una facoltà più dannosa che utile».

«Vorrei avere la tua calma». Ringhiò, in risposta «E la capacità di ignorare i problemi come se non−»

«Shhh». Lo interruppe di nuovo, aggiungendo un ciocco più robusto al fuoco ormai avviato «Abbi pazienza».

Le stelle crebbero, disegnando i loro archi bizzarri nella volta celeste, mentre  lo sguardo di Joseph si faceva assente, perso nei guizzi sinuosi delle fiamme. Lienhard riavviò il fuoco con qualche ramo secco e si sdraiò su un fianco, giocherellando con i fiocchi di cenere che cominciavano ad accumularsi ai margini del falò improvvisato.

«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».

«Mi ricorda qualcuno».

«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».

«Di alcuni più che di altri». Asciutto, Joseph spezzò distrattamente un ramoscello e lo buttò nel fuoco «Mi hai portato qui per impartirmi una lezioncina filosofica? Funziona meglio nella tua biblioteca, credimi».

Lienhard ridacchiò senza nemmeno darsi la pena di aprire bocca, riflessi arancioni e bagliori metallici nei capelli biondi. «Trovo che il modo migliore per riportare una situazione alla normalità sia ristabilire le consuetudini». Tra le sue mani comparve, come per magia, un libretto sottile «Le mie lezioni ti sono mancate, Joseph?».

L'espressione sul viso del soldato non poteva definirsi altrimenti che sconvolta.

«Lienhard, non mi sembra il momento».

«È sempre il momento per i sonetti di Shakespeare». Aprì il volume con un gesto distratto, voltando velocemente le pagine «Non ci sono istan-traduttori, quindi ascolta e goditi il suono. Si narra che Shakespeare abbia scritto opere di pregio ben maggiore, ma sfortunatamente ci sono rimasti solo frammenti delle sue opere teatrali. A me personalmente i sonetti piacciono molto».

«Di che parlano?». Joseph decise di assecondare le stramberie del professore − l'alternativa, alzarsi e cercare di ritrovare la strada in quei campi sterminati e bui, non era praticabile. Lienhard, realizzò, l'aveva confinato in quel boschetto oscuro senza possibilità di fuga.

«Amore». Il modo in cui lo disse inviò una serie di scariche elettriche lungo la schiena del soldato «Amore per un uomo ricco e dalla bellezza favolosa. Torniamo all'argomento della prima lezione, ricordi?».

Joseph ripensò al Lienhard Heisenhover di quei giorni, al suo sorriso sfrontato e allo sguardo luccicante dietro le lenti degli occhiali. Era tutto incredibilmente lontano, quasi irreale, come la danza dei granuli di polvere nella luce dorata del sole e il lento serpeggiare delle fiamme.

La voce di Lienhard, però, non era cambiata − il suo incantesimo non aveva perso di efficacia.

«Devouring time, blunt thou the lion paws, and make the earth devour her own sweet brood». Con il mento appoggiato tra le braccia conserte e una vaga sensazione di vacuità nell'animo, Joseph ascoltò senza fiatare parole di una lingua che non capiva, inintelligibili dichiarazioni d'amore fatte da un uomo la cui memoria era stata divorata dal tempo. In qualche modo gli sembrò che il senso profondo della poesia penetrasse comunque in lui, così come lo colpiva la bellezza delle stelle senza che ne conoscesse i nomi o il vero aspetto − così come l'aveva colpito la bellezza di Lienhard anche quando non sapeva chi fosse realmente. A volte, si disse, la vera essenza del mondo trapela anche quando si fa del tutto per nasconderla, e solo dopo capì di trovarsi uno di quei momenti in cui ogni cosa trova miracolosamente il suo posto e si ha quasi paura di muoversi per non infrangerne la perfezione.

Inspirò l'odore forte di legna bruciata, chiuse gli occhi, e ascoltò la voce di Lienhard fino allo spuntare dell'alba.

«Yet, do thy worst, old Time: despite thy wrong, my love shall in my verse ever live young».












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Questo capitolo ha vari difetti, il primo dei quali è quello di essere arrivato *appena* in ritardo. Poi c'è il fatto della smielatezza molesta, che mi auguro non risulti eccessiva (in genere non sono una persona zuccherosa, ma con questi due devo trattenermi per evitare di sfornare la brutta copia omegaverse di Tre Metri Sopra il Cielo).

Vi faccio i soliti ringraziamenti per recensioni/seguite/ricordate/preferite e spero di trovarvi ancora qui per il prossimo capitolo. I cestini con le uova marce sono alla vostra sinistra.

Lovvovi,

Greedfan


   
 
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