{I woke up, I was stuck in a Dream
you were there, you were tearing up everything
and we all know how to fake it, baby
we all know how it's done}
Apre gli occhi come gli succede da una
vita: con i rami che battono sui vetri e l'ansia nel sangue,
oltrepassando il confine sbiadito tra il sonno profondo e la
realtà assopita. Sogna di allontanarsi dai respiri
ora placidi, ora affrettati dei corridoi in veglia, per scambiare
l'alito caldo e soffocante della vecchia fattoria con quello graffiante
del vento. È solo un sogno, si dice. Uno che
domani archivierà, come fa sempre, come
continuerà a fare. La sua razionalità rimane
abbandonata per terra, con la felpa di April, tessuto stropicciato che
aspetta il suo risveglio per tornare ad essere indossato. Tacciono i
numeri. Tacciono le idee. Gli infiniti NB, prendi nota,
gli scorni di chi è convinto che si possa tirare avanti
senza appuntarsi necessità impellenti – scomposte,
da proteine in amminoacidi semplici, a beneficio dell'intero gruppo.
Tace, la svogliatezza di creare senza avere un solo spunto buono in
mente, per pura spinta a migliorarsi, in loop.
Non troverebbe mai il coraggio di raccontare a se stesso la
verità, di ammettere che non è un miraggio
notturno a farlo alzare nel cuore di questa notte. E non sa, quanto di
ancora animale sia in loro, per poter imputare l'angoscia al semplice
istinto. Teme i parti della propria mente, e ancora di
più ciò che non riesce a spiegarsi.
È la stessa urgenza che avverte nel sangue quando
è il momento di combattere, la medesima spinta a muoversi. A
non rimanere inerte ad aspettare, ascoltando un silenzio che non gli
parla all'orecchio da troppo tempo, che non canta più per
lui.
Talvolta l'ascolta. Talvolta gli fa paura. Estranea. Dimenticata. Soffia
sulla polvere depositata da mesi su qualcosa che non esiste
più.
Sogna di mettersi dritto sul materasso cigolante. Le coperte gli cadono
in grembo e nelle tubature del muro alle sue spalle gocciola
ininterrotta l'acqua. Oltre le tende si agitano le ombre furiose della
quercia. Essere coronata di gemme non le basta. Il principio della
primavera è irascibile e collerico quanto Raph, nelle sere
in cui è assolutamente convinto che il mondo faccia schifo e
si meriti ogni briciolo di rovina, ogni conflitto, guerra e petroliera
affondata nel Pacifico che il fato gli scaraventa contro.
Scivola giù dal letto senza che quello stesso mondo cambi
per lui. Mentre passa in rassegna le stanze, Michelangelo è
ancora abbracciato stretto al cuscino, Raphael non interrompe il suo
russare sordo e gli occhi di Leonardo sono sempre aperti, vigili, a
porre domande senza bisogno di voce. Un dialogo muto si dipana tra
loro. Stai bene?
Sì, e tu? Non dovresti essere in piedi, ti stanchi troppo:
torna a letto. Tra poco.
Tra poco.
Nulla muta. Nulla si smuove.
Tutto sussurra.
È incredibile come Leo riesca a distogliere sempre
l'attenzione da sé, in favore degli altri –
questo, il pensiero del primo gradino – è
surreale, così familiare da essere estranea. Al secondo, la
sua mente è già altrove e il suo corpo in
tensione verso l'ululato che spazza il tetto. Su, su e più
su ancora, oltre la botola che chiude la soffitta e il suo
odore di cose dimenticate, abbandonate, lasciate indietro contro ogni
principio di buon senso. Di giorno non le degna di un'occhiata, di
notte le scorre con lo sguardo con solennità, passandole in
rassegna come davanti ad cimitero decrepito.
Poi c'è l'abbaino, e la prima folata d'aria pungente che lo
investe e gli sfila il respiro di bocca. Si arrampica ad occhi chiusi,
facendo il funambolo tra pensieri che si rifiutano di dargli
appiglio. Fessure che sbattono, infissi che cigolano.
Sogna la delusione, sempre, per non trovare il mare di luci e l'odore
penetrante di New York .
Sogna la diffidenza, quando schiude le palpebre e davanti a lui si
stendono le colline, le foreste lambite dalle ultime lingue di neve
testarda e, in fondo alla vallata, i fili di fumo dissolto del
villaggio – perché questa non è casa,
non sarà mai casa, nemmeno se ieri Mike ha visto un cervo e
si è lasciato andare alla prima, vera risata da quando hanno
abbandonato il rifugio per colpa di Shredder. Nemmeno se Leo e Raph si
scambiano la tensione con la facilità di vasi comunicanti,
né più né meno come facevano correndo
sui tetti.
Per infinite notti, ha sognato la rabbia, sotto una luna bianca e
sterile come una lampada da laboratorio. L'impossibilità di
abbandonare una tana dove la loro sanità mentale sta
lentamente scolando via, una goccia alla volta, verso un futuro di
probabilità calcolate e parabole tracciate da forze
più grandi di loro.
Nessuno, nessuno
saprà mai davvero quant'è devastante per lui e i
suoi fratelli scoprirsi goffi nonostante gli anni di ossa spezzate,
cicatrici e sudore; quanto per la prima volta sia difficile condividere
lo stesso spazio vitale senza ferirsi a vicenda, camminando sui cocci
della sopportazione l'uno dell'altro – urtandosi,
perché nessuno ha mai insegnato loro ad amare in maniera
omologa. Si fanno del male senza volerlo, stretti nella morsa di
un'immobilità sempre più vorace.
La chiamano adolescenza. Naufragio. Anni terribili. Dicono che non ci
si può far nulla – aspettare e vedere, aspettare e
vedere. Ma vedere cosa? Cosa, se non sanno nemmeno cosa tengono
nascosto dietro la sincronia, la sinestesia con cui agiscono? Cosa, se
non sanno cosa sono, dove stanno andando, che cosa sarà di loro?
Stanotte, con l'acquazzone che romba e ruggisce e strappa l'erba per
farla volare lontano, e la pioggia che gli gocciola lungo la schiena e
il mento e il collo, Donatello si sveglia e scopre che, nonostante il
Sogno avesse raggio, dimensione e spazio, ora li ha esauriti. Il Sogno
non è più – e il tetto sferzato dal
temporale è reale, come reale è il freddo che gli
rompe aghi sottopelle, e le braccia che si è stretto intorno
per non tremare. Per non farsi schiacciare, nell'aria che gli strappa
un respiro rantolante.
È sveglio, e l'attesa è finita, la maschera
è in pezzi. Lo legge negli occhi di Splinter, alzando lo
sguardo e trovandolo davanti a sé – come ogni
notte che ha trascorso qui, spogliato delle proprie difese fino
all'osso, sballottato dalla corrente fino a perdere il senso
dell'orientamento, la sensibilità di nervi corrosi. Lo
avverte vibrare nell'aria, nelle radici della casa addormentata e dei
gemiti di fondamenta gettate cinquant'anni fa, più vecchie
di lui, più salde di lui su un terreno che si sfalda e si
sgretola.
Ogni presagio, ogni sensazione tocca corde assopite dentro di lui.
Eppure, quando si rivolge al suo maestro, la sua voce suona piccola
piccola.
“ ' Tou – san?”
“Ti ascolto.”
“È finita?”
Ha bisogno di una conferma, di una mano tesa.
Splinter non sorride, e tuttavia la sua espressione non è
severa.
“È finita,” conferma, soffice.
“Ed è appena cominciata. Rallegratene,
perché non tutte le battaglie si vincono
combattendo.”
La peggiore nemica che
Shredder potessi porgli davanti, l'inerzia, non l'ha sconfitto.
Donatello sfiata una nuvoletta di condensa tra le labbra, lasciando
andare un respiro trattenuto da mesi. Grato, lascia che la pioggia lo
pieghi e gli ricordi com'è, accondiscendere senza spezzarsi,
flettersi senza temere che la corrente lo porti alla deriva. Ad ogni
ondata, la lezione scivola più a fondo dentro di lui,
modellandosi lentamente in midollo e muscoli e forza.
Avrà paura e proverà dolore. Non
tornerà indietro. Avrà infinite domande, dieci
per ogni risposta mai ricevuta: non poterle saziare lo farà
a pezzi, ma non si guarderà alle spalle per vedere la
desolazione di questo periodo disseccato. Userà quei
frammenti per ricostruire una fortezza.
È
sopravvissuto.
Arretrare mai, neanche per prendere la rincorsa.
{Set my body free
and the wind in the trees, singing 'Do you believe?'
We must be killers
Children of the wild ones}
We must be Killers, Mikky Ekko.
La seconda One - Shot che pubblico in questo fandom, e presumibile follow - up di Crystallize. Non avrei mai detto di riuscire a scrivere qualcosa incentrato interamente su Donatello così a freddo, in un periodo in cui scrivere per me equivale a camminare sui vetri e fallire (non piacermi, procrastinare, rimandare) è fin troppo facile. Eppure, eccola qui. A dispetto di qualunque aspettativa. Questo è uno di quei lavori che io chiamo barfing, per il semplice fatto di venir fuori tutti in una volta, a getto continuo. Le ending spesso sono deboli e gli inizi pure, ma d'altra parte la situazione non è fatta per essere stabile.
Dunque. Il nemico principale di April erano i ricordi. Ciò con cui Donatello ha fatto i conti, in questa shot, è l'attesa. Attesa incancrenita di capire cosa fare, quando tornare, come muoversi. Non è strettamente collegata al fumetto, e più largamente potrebbe essere presa anche come un riferimento alla serie del 2003: il setting, in questo caso, è sempre la fattoria di Casey, post attacco a New York. Il resto non è particolarmente importante.
L'inerzia è una brutta, brutta bestia.
Kei