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Autore: soel95    10/04/2014    2 recensioni
L'arte è ricchezza, passione, studio, dedizione. A tutto questo François ha dedicato l'intera esistenza, ha consacrato sé stesso; quell'idea, quel concetto vago, eppure, allo stesso tempo, tanto definito, ha mosso la sua mano, spingendolo oltre i limiti della storia. Oltre il tempo e lo spazio.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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François correva trafelato attraverso gli angusti vicoli di Versailles, là dove durante gli anni dell’innocenza aveva giocato con gli amici, organizzato e subito scherzi, riso e pianto. Li superava uno dopo l’altro con naturalezza, come se non fosse trascorso più di un giorno dall'ultima volta, incurante degli ostacoli che urtava e del fango, la pioggia che incessante era caduta nei giorni precedenti, che rallentava il suo passo. Il fiato corto e lo sguardo semiannebbiato lo costringevano a concentrare la propria attenzione unicamente sulla folla che gradualmente si materializzava alla fine del percorso con il consueto clamore. Quando finalmente riemerse da quel dedalo oscuro per un momento venne accecato dal caldo sole di mezzogiorno, frastornato dalle grida della gente che si era accalcata ai margini del viale che conduceva alla reggia. A breve sarebbe passato il corteo dei rappresentati dei tre ordini.
-François... François...- si sentì chiamare con forza; voltandosi scorse in mezzo alla folla il volto familiare di un uomo che, agitando un braccio per richiamare l’attenzione, gli si avvicinava -... Accidenti ce ne hai messo di tempo ad arrivare...- lo apostrofò con un sorriso
-Jacques, come stai? Lo sai fin troppo bene…il maestro Vien ha l'animo del dittatore...- replicò François mentre stringeva con calore la sua mano -... ho faticato parecchio per convincerlo a lasciarmi venire-
-Dannato vecchiaccio- riprese subito con tutta la sfrontatezza di cui era capace -non riesco a capire come ancora tu possa ostinarti a lavorare in quel buco miserabile del suo studio…-
-E' stato lui ad insegnarmi a dipingere, lo sai...- tentò di farlo ragionare mentre si immergeva nei propri ricordi -ha fatto molto per me…e persino per te! Comunque glielo dovevo…-
-Bah, io non vedevo l'ora di andarmene. Insomma, ci schiavizzava...-
-Ad ogni modo io gli devo tutto ed è per questo che non riesco a lasciarlo- François Mathis Gijon e Jacques Louis David si erano conosciuti quand’erano ancora bambini, durante il periodo di apprendistato nella bottega di colui che veniva considerato da tutti come uno dei più grandi pittori del secolo, un grande innovatore: Josephe-Marie Vien. Non trascorse molto tempo e i due divennero amici inseparabili; entrambi avevano trovato nell'altro un sincero compagno, un sostegno nei momenti di difficoltà; soli com’erano in un mondo di adulti erano un punto fermo l’uno per l’altro. I primi anni erano stati particolarmente duri: la lontananza dalla famiglia, il lavoro interminabile, la mancanza dei giochi avevano raffreddato il loro animo; François aveva iniziato ad odiare tutto e tutti, in particolar modo il maestro, lo riteneva responsabile di avergli strappato l'infanzia. Aveva odiato le sue giornate sempre uguali, stancanti e interminabili. Le aveva odiate intensamente sino al giorno in cui i suoi occhi si erano posati per la prima volta su di un quadro in lavorazione, sino a che non aveva afferrato il suo primo pennello, sino a che non si era macchiato le mani ed i vestiti di colore per la prima volta. La prima, ma molte altre l’avrebbero seguita. 
Ora era consapevole di non poter più sopravvivere senza tutto questo, avrebbe preferito morire piuttosto che abbandonare la pittura e non gli importava di lavorare ancora, dopo tutti quegli anni, per il vecchio maestro; bastava poter dipingere per essere felice, tutto il resto era privo di significato.
-Secondo me inve...- le parole di Jacques vennero interrotte da un improvviso clamore che annunciava l'inizio della parata. In mezzo a due ali compatte di curiosi, i rappresentati dei tre ordini iniziarono la loro marcia verso la sala dell'assemblea. 
Per primi vennero gli esponenti del terzo stato, avanzavano con solennità, lo sguardo alto pieno di orgoglio per l'essere stati scelti per rappresentare il popolo. La sobrietà degli abiti, rigorosamente neri, contrastava palesemente con la ricchezza ostentata dall'aristocrazia, pomposa e superba in quelle giacche di seta impreziosite dai ricami d'oro, nei capi di lino e raso, nelle scarpe dalle fibbie laccate, e le sfarzose piume dei tricorni mosse dal vento che accompagnava i suoi membri al loro passaggio e faceva tremare le candele che trasportavano. Incuranti di coloro che non appartenevano per nascita al loro mondo, non temevano di ostentare quel lusso ottenuto sulle spalle della povera gente. Ed era questa naturalezza a far crescere nella folla il risentimento, un odio profondo sempre meno controllabile verso quei pochi privilegiati, colonia di parassiti intenti a consumare quel che rimaneva di un corpo altrimenti sano; era la fame a nutrire l’odio. Chiusero la processione i rappresentanti dell'alto clero e le loro toghe damascate riconoscibili per il caratteristico colore scarlatto, per le mantelline adornate da pellicce di primissima fattura.
-François hai visto?- domandò all'improvviso Jacques richiamando la sua attenzione
-Cosa?- replicò incuriosito
-Laggiù... in mezzo ai deputati del terzo stato... quello è il conte di Mirabeau...- esclamò meravigliato -avevo sentito dire che era stato eletto per rappresentare il popolo ma non credevo... pensavo fosse solo una storia priva di fondamento-
-Non mi sarei mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere...- replicò  sinceramente stupito -un nobile che rappresenta il terzo stato...- aggiunse quasi tra sé e sé.
Fu durante quella conversazione che François venne attraversato da un'intensa emozione e un disperato bisogno di dipingere lo pervase; nella sua mente un'immagine prendeva vita e forma in ogni dettaglio, mentre il suo sguardo cominciava a perdersi nel vuoto. Distrattamente seguito a discorrere con l'amico mentre la folla di curiosi, chiusasi la processione, tornarono a dedicarsi alle proprie occupazioni; distrattamente seguì quanto gli disse perso com'era in un mondo tutto suo. Una volta giunti dinnanzi alla soglia della casa di Jacques si salutarono con affetto, lieti di aver trascorso dopo tanto tempo qualche ora assieme, come quando erano ragazzi. Fu nell'istante in cui la porta si richiuse dietro le sue spalle che il desiderio di François esplose in tutta la propria dirompente intensità. Così come aveva fatto poche ore prima riprese a correre per le vie della città, guidato ora da un impulso incontrollabile, urtando persone, scansando oggetti all'ultimo istante, rischiando continuamente di  inciampare sui propri passi e con un unico obbiettivo impresso nella mente: rifugiarsi in quella casa che usava come studio, nonostante il lavoro con il maestro, e lì dare finalmente libero sfogo alle emozioni represse, all'immaginazione che galoppava, che aveva scavato nei meandri della sua mente e degli eventi per poi riemergerne rinnovata.

Le setole del pennello accarezzavano dolcemente la superficie della tela, i colori la attraversavano definendo i contorni delle figure generate dalla sua mente. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando aveva fatto irruzione nella stanza e, come una furia, lanciata la giacca sul pavimento, raggiunta la propria postazione da lavoro. Minuti, ore, forse persino diversi giorni: aveva completamente perso la cognizione del tempo. Nell'istante stesso in cui aveva preso posto di fronte al cavalletto e posato il proprio sguardo sulla candida tela che vi era appoggiata, gli era parso di poter riprendere a respirare dopo aver trattenuto il fiato sott’acqua per un tempo interminabile, anzi, di ritornare a vivere dopo aver dimenticato come fare, tanto era stato in balia di eventi ed abitudini che lo avevano annientato. Le tinte si mischiavano, si completavano a vicenda, si arricchivano sino a trasformarsi in ciò che i suoi occhi erano in grado di scorgere nel vuoto, sino a realizzare quei rapidi accostamenti in grado di definire lo spazio. La frenesia che lo aveva guidato nel proprio ritorno a casa, il bisogno assolutamente fisico di tenere in mano un semplice pennello ora scemava lasciandolo in compagnia di una ben più piacevole sensazione di tranquillità. Era sufficiente il semplice gesto del braccio alzato, l'andamento sinuoso che questo descriveva, apparentemente privo di logica, a fargli ritrovare pace e serenità, a svuotare la sua mente da ogni preoccupazione, da ogni dubbio, sino a che non vi rimase altro che la nitida immagine alla quale stava dando vita.
Dipingeva. Dipingeva senza tregua, mai stanco. Era convinto di essere nato unicamente per quello: dare forma ai propri pensieri e alle proprie emozioni attraverso la pittura. Per renderli accessibili e comprensibili anche alle altre persone. Trasmutare la realtà sino a renderla fulcro di un vortice dal quale generava le proprie opere. Questa era l'unica cosa che si riteneva in grado di fare, l’unica che valesse la pena fare. 
Non aveva fatto caso, tanto era immerso nel proprio lavoro, all'arrivo di madame Bertrand. 
Non avendo udito risposta al proprio saluto, si era diretta immediatamente nella piccola stanza usata dall'uomo come studio. Era certa di trovarlo lì, le spalle rivolte alla finestra, lo sguardo concentrato, i numerosi barattoli di colore sparsi attorno alla sua sedia, il pennello saldo nella mano sinistra che instancabile continuava a muoversi. Non si era minimamente accorto del suo arrivo.
-Monsieur Gijon... monsieur Gijon...- continuava a chiamarlo nella speranza di farlo risvegliare dallo stato di torpore nel quale era sprofondato. Inutile. I sensi di François lo isolavano dal resto del mondo; dei calorosi richiami di madame Bertrand non gli giungevano che lievi echi lontani, una tenue carezza sulla guancia per nulla in grado di richiamarlo alla realtà.
-Monsieur Gijon!...- riprovò più forte; lo vide alzare gli occhi di scatto, spaventato, e guardarsi intorno, meravigliato di vederla, prima di ricomporsi e drizzarsi sulla sedia
-Madame Bertrand, cosa ci fate qui? Quando siete arrivata?- le chiese
-Pochi istanti fa monsieur... eravate così preso dal vostro nuovo dipinto che non vi siete neanche accorto della mia presenza- gli fece notare con espressione bonaria
-Avete ragione... spero vorrete perdonare la mia totale mancanza di cortesia...- si scusò mortificato riabbassando quegli intensi occhi azzurri che l'avevano colpita sin dal primo istante per la loro luminosità e per la sincerità che trasmettevano. Più che gli occhi di un uomo adulto somigliavano a quelli di un bambino ancora puro ed innocente
-Oh... non vi preoccupate...- lo tranquillizzò -piuttosto, a che cosa state lavorando? Sono trascorse solo poche settimane da quando avete presentato il vostro ultimo dipinto al Palais Royal...-
-Avete ragione, ma questo...- si interruppe per un istante che parve infinito -... questo è una cosa diversa...- affermò e un rapido sorriso si disegnò sulle sue labbra, lo sguardo quasi intenerito mentre osservava il frutto del proprio ingegno. Presto lo avrebbe  completato
-Cosa intendete?...-
-Venite a vedere... forza- la incoraggiò, il braccio proteso verso di lei come ad invogliarla ad avvicinarsi a quella postazione, sino ad allora ritenuta sacra, affinché contemplasse con i suoi occhi ciò di cui stavano parlando. L’intima natura della magia che gli consentiva di trasferire dalla propria mente ad un ente concreto il frutto dell’immaginazione, persino in quel momento gli sfuggiva, probabilmente si trattava di un mistero che non sarebbe mai stato in grado di svelare; nondimeno anche laddove le parole tragicamente perdevano la loro potenza e capacità espressiva, al contrario, la sua pittura era perfettamente in grado di comunicare efficacemente qualunque cosa.
Madame Bertrand gli si avvicinò lentamente, temendo quasi di invadere uno spazio troppo personale e l’intimità di quell'uomo che negli anni aveva imparato a conoscere e a cui voleva bene.
Il suo sguardo si posò su una tela ancora incompleta, ma numerosi dettagli già risultavano perfettamente intelligibili: sullo sfondo, gli imponenti palazzi barocchi, con i lunghi porticati, le ampie vetrate incorniciate da colonne addossate con trabeazioni orizzontali e la tipica composizione articolata, svettavano ai margini di un'ampia strada, illuminata dal sole di una serena giornata di maggio; in primo piano, si accalcavano molteplici figure nere, seguite da altrettante di svariati colori, i cui volti emergevano gradualmente. Questi sembravano avanzare con dignità, lo sguardo fiero, reggendo il simbolo della ragione che guidava il loro cammino, duro ed impervio, attraverso i sentieri oscuri della storia; gli astanti applaudivano concitati, offrivano vigorose pacche sulle spalle di coloro che concedevano un sorriso, di coloro che avevano accettato di buon grado un compito onorevole quanto arduo.
François aveva riprodotto la processione avvenuta quello stesso giorno, oppure svariati giorni prima, non lo sapeva più, evidenziandone tutte le caratteristiche, ritraendo i rappresentanti dei tre ordini così come la vasta folla che aveva preso parte all'evento, con una fedeltà definitiva, assolutamente stupefacente. Ognuno dei presenti avrebbe potuto riconoscersi in quelle macchie di colore non ancora delineate con precisione. Dal cielo limpido un fascio di luce guidava il corteo, perdendosi in un punto lontano, in corrispondenza dell'osservatore esterno, accendendo le candele che le figure in nero sostenevano; i rappresentanti dai colori sgargianti, tuttavia, venivano abilmente evitati da quella luce allegorica, lasciandoli in ombra, relegati in un angolo del quadro, lontani dagli occhi della folla. Lontani dai loro cuori.
  
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