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Autore: Ser Balzo    19/04/2014    6 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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7.

Guerrieri sacri e carne da cannone

 

 

 

 

“D’altra parte i giovani servono a questo.”

- Adolf Hitler, a proposito delle necessità della guerra

 

 

Fiamme.

Erano dappertutto. Feroci, diaboliche, mortali. Illuminavano la notte buia, gettando il loro bagliore rossastro sulle case sventrate.

«Che diavolo succede?» chiese Lee in un sussurro, come se temesse di farsi sentire.

Dan camminava come ubriaco, intontito dall’imprevedibile svolta degli eventi.

«Non ne ho idea.» 

«Una nuova rivolta?»

«No, non credo.» Dan scavalcò una pila di mattoni rossi che avevano inondato la strada. «È qualcosa di diverso. Qualcosa di grosso.»

Quanto grosso, Dan non ne era certo. Ma quando girò l’angolo e si vide tre fucili puntati addosso, seppe che era abbastanza.

«Mettete le mani dietro la testa e ci eviterete la fatica di uccidervi.»

Non erano Pacificatori: invece che bianca, la divisa era di un colore grigio scuro. Avevano i volti scoperti, elmetti neri e un fucile dall’aria piuttosto minacciosa fra le mani.

«Ma voi chi siete?» chiese Lee sgomento.

«Noi, figliolo, siamo la maledetta cavalleria.» L’uomo al centro fece un passo in avanti. «Sergente Lycard Fennis, al vostro servizio.»

«Da quando il nostro Distretto ha un esercito?»

«Non ce l’ha, infatti, ma è solo questione di tempo.»

«E allora da dove venite?»

Il sergente fece un sorrisetto.

«Mai sentito parlare del Distretto Tredici?»

 

Il colonnello Rorke e Clove erano di nuovo uno di fronte all’altro, separati da una scrivania. La stanza era cambiata, più grande, scura e di forma ovale; loro due no.

«Pavlov» disse Rorke, sfogliando una serie di carte raccolte in una cartelletta. «Imram Geralt. Io ti avevo chiesto Ianos e tu mi porti un vecchio minatore.»

«Pavlov sa chi è Ianos» rispose Clove. «Sa dove si trova, quanti uomini hanno i ribelli e cosa hanno intenzione di fare. Pavlov sa tutto. Forse più di Ianos.»

Rorke si adagiò sullo schienale della poltrona. «Dunque ritieni di aver portato a termine la missione.» 

«Oh no. Io ho fatto di meglio.»

Gli occhi verde smeraldo del colonnello la fissarono. Uno sguardo ammaliante, potente, implacabile. Clove ricambiò l’occhiata, spavalda, cercando di nascondere l’inquietudine che cominciava a formicolarle lo stomaco.

Poi il colonnello sorrise, come l’ultima volta che si erano visti, e lei non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.

«Pavlov ha parlato. Nomi, date, luoghi, tutto quanto: una gallina dalle uova d’oro. Ci è voluto un po’, ma anche l’uomo più forte ha delle... leve su cui fare perno.» Rorke ghignò, mostrando i denti come uno squalo che avverte l’odore del sangue. «I Pacificatori hanno arrestato i principali capi dei ribelli mezz’ora fa.»

«Lieta di aver contribuito alla pace nel mondo» disse Clove, sollevando un angolo della bocca nella sua caratteristica smorfia.

Rorke intrecciò le dita. «Hai mai sentito parlare del Battaglione Sacro?»

Clove rimase interdetta: Rorke non era tipo da perdersi in chiacchiere. «Una volta, all’Accademia. Lezione di Tattica e Storia Militare. Erano dei soldati dell’antica Grecia, se non ricordo male. Un corpo scelto della città-stato di Tebe.»

«Composto esclusivamente da coppie di amanti» continuò Rorke. «Così che, per proteggere il proprio compagno e non rischiare di apparire disonorevole ai suoi occhi, i soldati sarebbero stati motivati a combattere al massimo delle proprie forze. Vinsero tutte le battaglie che combatterono, tranne una. L’ultima. Dove morirono tutti, dal primo all’ultimo.»

«E dunque? Vuole creare un esercito di innamorati?»

Rorke non sorrise. «Non rientra nelle mie potenzialità. Se non posso far combattere i miei soldati per amore, posso farlo per il desiderio di vittoria... e la sana competizione.» Si alzò in piedi, e premette un tasto su un telecomando poggiato sulla scrivania. Uno schermo alla sua sinistra si accese.

«Ianos è stato sconfitto, ma l’attentato al Tour della Vittoria è solo l’inizio. Qualcosa si sta muovendo, e presto o tardi esploderà. E sarà la guerra.»

«Guerra?» disse Clove, scettica. «I Distretti non sono capaci di fare una guerra. Non hanno i mezzi, ne’ le capacità.»

«Sottovalutare il nemico è il primo passo verso la sconfitta» disse Rorke. «Lo zar di Russia e l’imperatore Austriaco sottovalutarono Bonaparte, quando lo videro indietreggiare pavidamente, sgombrando l’altopiano del Pratzen e abbandonando una posizione sopraelevata che gli avrebbe garantito la superiorità strategica. Attaccarono a testa bassa il fianco destro nemico, troppo esteso e disorganizzato, ignorando che era stato mal distribuito apposta per attirarli proprio dove l’imperatore di Francia voleva. E mentre marciavano con gli stendardi al vento, sicuri della vittoria, la Grande Armata sbucò dalla nebbia e tranciò a metà l’esercito alleato, dividendolo e sterminandolo. E così il settimo figlio di un avvocato sconfisse due imperatori... e la battaglia di Austerlitz entrò nella storia come un capolavoro di strategia. Ma comunque non hai tutti i torti» aggiunse, rendendosi conto di essersi lasciato un po’ trasportare. «I Distretti potrebbero crearci dei grattacapi, ma non riuscirebbero mai a sconfiggerci. Sono contadini, agricoltori, minatori, taglialegna, e senza qualcuno che conosca l’arte della guerra resteranno tali.»

«E quel qualcuno esiste?» chiese Clove, avendo intuito dove il colonnello andava a parare. «Magari nel Distretto Tredici?»

Per un attimo, il colonnello Rorke non poté fare a meno di rimanere decisamente sorpreso. Ma si riebbe rapidamente, e ricompose sul suo volto il sorriso da squalo. «Esattamente, mia cara Clove. Sapevo che era uno spreco lasciarti nell’aldilà.»

Clove sorrise. «I pecoroni degli ultimi Distretti si potranno lasciare abbindolare, ma la faccenda del Tredici puzza di carogna lontano un miglio. Avevano un arsenale di armi nucleari, e non l’ha mai usato. Sono spariti così, da un giorno all’altro. Troppo semplice.»

«Durante la rivolta, il Distretto Tredici e il Presidente Snow hanno fatto un accordo. Il Tredici avrebbe giocato a fare il morto e la capitale avrebbe fatto finta di non accorgersene. Si sono nascosti sotto terra, mentre i Distretti ribelli cadevano uno dopo l’altro.»

«Come i codardi che sono» sentenziò Clove.

«Hanno fatto bene i loro calcoli» disse Rorke «Non li posso biasimare. Ma ora il Tredici ha cominciato a sollevare la testa, fiutando l’aria. E sentendo la puzza di opportunità, sta valutando l’idea di fare la sua mossa. I Distretti sono di nuovo agitati, Katniss Everdeen sta diventando un simbolo. Basta una scintilla per dare fuoco alle polveri. E per il Tredici, questa potrebbe essere la volta buona.»

Katniss Everdeen.

L’odio divampò potente e incontrollato. Improvvisamente, Clove provò il feroce impulso di andarsene di lì, andare a caccia della Ghiandiaia Imitatrice e strapparle le ali, una per volta e con molta, molta calma.

Rorke nel frattempo continuava ad elencare il suo piano. «I nostri problemi sono dunque due: Katniss Everdeen e i Distretti. Quanto alla ragazza, il Presidente ha deciso di occuparsene gettandola di nuovo nell’arena e sperando che i tuoi Mentori riescano a toglierla di mezzo. Per i Distretti, invece ha affidato la questione a me. Ed ecco che entra in scena il Battaglione IEROS.»

«Ieros?»

«Vuol dire “sacro” in greco antico. I termini arcaici danno un tocco più affascinante alle cose più banali.»

«La tua squadra di innamorati, giusto?»

«La tua squadra, vorrai dire» puntualizzò Rorke. Poi premette un altro tasto del telecomando e sullo schermo comparvero sette fotografie. «I tuoi compagni di scudo. Tutti aspiranti Tributi, tutti del Distretto Due.» Rorke ingrandì la prima foto. Una ragazza dai capelli rossi tagliati a caschetto fissava l’obbiettivo con sguardo neutro, la bocca perfettamente dritta. «Callissa, sedici anni. Arco. Di poche parole, ma può staccare le ali in volo ad una mosca senza che lei se ne accorga.» La ragazza dai capelli rossi venne sostituita da una faccia familiare. «Cicero, trentadue anni. Tiratore scelto. È il capo della squadra, e di gran lunga il più anziano.»

Il Nero.

Dopo l’uomo di colore, venne il turno del Bianco, con la sua pelle diafana e il sorrisetto insolente. «Plato, venticinque anni. Specializzato in assalti tattici e combattimenti in spazi ristretti. Se vuoi sfondare la porta e uccidere cinque uomini prima che abbiano il tempo di sbattere le palpebre, lui è l’uomo che fa per te. Insieme a Cicero, è l'unico membro che non sia un aspirante Tributo.» La fotografia cambiò di nuovo e Clove sollevò automaticamente un sopracciglio. Una ragazza dai magnetici occhi verdi messi ancora più in risalto da una pesante mano di trucco nero come la cascata di capelli che le incorniciava il volto magro si esibiva nella stessa, identica smorfia spavalda che era sempre stato il suo marchio di fabbrica. «Artemisia, diciotto anni. Spade corte. Ti somiglia parecchio: sarà la tua migliore amica o la tua peggiore nemica. In entrambi i casi, finirete per fare disperatamente a gara di bravura, ed è esattamente quello che voglio.»

Questa volta, al posto di una fotografia singola, sullo schermo comparvero due volti nella stessa inquadratura. Facce smunte, capelli unti, orbite vuote: due gocce d’acqua sporca. «Phobos e Deimos. Sedici anni, gemelli. Inseparabili: hanno quasi ucciso due guardie prima che acconsentissi a fargli fare la foto assieme. La sorella paralizza i soldati con dardi avvelenati mentre il fratello scivola alle loro spalle e gli taglia la gola. Sono efficienti e inquietanti: esattamente quello che mi serve. E per finire» aggiunse Rorke visualizzando l’ultima foto «il nostro ragazzo d’oro.»

Clove non riuscì a trattenere un fremito. Il ragazzo era inquietantemente simile a Cato: stessa mascella squadrata, stessi occhi piccoli e risoluti. I capelli biondi erano sostituiti da una corta cresta castana, ma per il resto la somiglianza era evidente. «Ares, diciassette anni. Spada lunga. Combatte con uno scudo tondo non regolamentare che si è costruito da solo, a foggia di quelli che portavano gli Opliti greci. Ho provveduto a fargliene avere uno di titanio al carbonio rinforzato con polimeri di acciaio e kevlar. È una macchina da guerra, serio e disciplinato. Semplicemente perfetto.»

Il colonnello spense il televisore. «Allora, Clove, che te ne pare?»

«Una bella accozzaglia di disadattati.»

«Un buon assassino deve essere anche un po’ folle, ma credo che tu lo sappia.»

«Ed essere anche parecchio giovane, a quanto pare.»

Il sorriso da squalo di Rorke si accentuò. «Molti miei superiori considerano l’esperienza una qualità fondamentale. Ma i signori della guerra africani addestravano interi squadroni di soldati bambino, perché non avrebbero avuto paura, ne’ rimorso, ne’ pietà. E sai perché, Clove?»

«Perché erano stupidi e ingenui?»

«No. Perché erano convinti che fosse un gioco.» Rorke si risiedette sulla poltrona, intrecciando di nuovo le dita. «Perché questo è il segreto dell’arte della guerra, Clove: non è altro che un gioco. E ogni gioco che si rispetti ha delle regole che possono essere infrante.»

 

 

L’ufficiale di reclutamento sedeva dietro un traballante tavolino di plastica recuperato da chissà dove. Una discreta fila di uomini, donne e ragazzi attendeva il proprio turno, mentre le fiamme della battaglia al Distretto Dieci si andavano lentamente spegnendo.

Una ragazzina che non doveva avere più di dodici anni si presentò all’ufficiale. «Dana Serkins.»

«Età?»

«Undici anni e tre quarti. Ne farò dodici la prossima settimana.»

L’ufficiale parve pensarci su. «Mmh, si può fare. Dana Serkins, dodici anni. Mestiere?»

«Non ne ho ancora uno. Devo finire la scuola, prima.»

«Mmh. Sai fare di conto?»

«Me la cavo.»

«Perché vuoi arruolarti nella Fanteria di Linea?»

«Perché non ho nessuno e non voglio morire di fame. E non voglio che un altra come me in futuro debba fare la mia scelta.»

«Bene. Aiuto apprendista furiere, ventesimo reggimento compagnia D, quarto battaglione. Una firma, prego.»

La giovane prese la pena e con tratto incerto scrisse il suo nome e cognome in stampatello maiuscolo.

«Il prossimo» borbottò l’ufficiale.

«Danyl Martin.»

«Età?»

«Diciotto anni.»

«Mmh, bene bene. Mestiere?»

«Mandriano.»

«Sai cavalcare?»

«Si signore.»

«Perché vuoi arruolarti nella Fanteria di Linea?»

«Mia sorella è morta negli ultimi Hunger Games.»

«Bene. Potresti finire nei corpi ausiliari di cavalleria, se fai il tuo dovere. Soldato semplice, diciottesimo reggimento, compagnia C, quinto battaglione. Una firma, prego.»

 

Dopo il briefing, Clove era stata accompagnata nel suo alloggio. L’indomani sarebbe iniziato l’addestramento intensivo, e avrebbe conosciuto i suoi compagni di squadra.

Quando le porte scorrevoli si aprirono con uno sbuffo, non fu sorpresa di trovare Cato seduto sul suo letto.

«È un po’ di tempo che non ci si vede» disse il ragazzo, accarezzando la coperta del letto con gesti lenti.

«Ho avuto da fare» disse Clove. Rimase in piedi, incerta, poi decise di andare a sedersi accanto al suo compagno di Distretto. «A quanto pare non ero la sola a dover compiere la missione. C’erano cinque candidati: il primo che sarebbe riuscito a portare a termine l’obbiettivo avrebbe avuto il posto nello IEROS. Uno di loro...» Improvvisamente si bloccò. Le parole erano pronte a lanciarsi fuori dalla sua bocca, eppure qualcosa le teneva piantate in gola. «Io... ho creduto che fossi morto, non vedendoti fra le foto della squadra. Che diavolo hai combinato?» aggiunse poi velocemente, parlando con tale rapidità che le parole quasi si accavallarono. Poi, senza che potesse fare niente per impedirlo, arrossì. E si sentì una stupida ragazzina.

«Rorke ha altri piani per me» fu la laconica risposta del ragazzo biondo.

Il rossore sparì, sostituito da un improvviso moto di stizza. «E cioè?»

«Mi dispiace, ma non posso rivelarteli. Protocollo Protheus.»

«Che diavolo è il Protocollo Protheus?»

«Il mio incarico. Posso dirti solo questo, non di più.»

Clove sbuffò, frustrata. 

«Lo so che non ti piace. Neanche a me piace tenerti all’oscuro, ma non possiamo sapere tutto. Dobbiamo fare quello che possiamo con quello che abbiamo.»

Clove lo fulminò con lo sguardo. «Cos’è, sei diventato un amante della filosofia spicciola?»

«È semplicemente la verità.»

«Vai al diavolo» rispose lei, alzandosi di scatto. Non sapeva perché era arrabbiata, ma qualcosa nell’atteggiamento di Cato la faceva impazzire. Come un insetto che si infila nei pantaloni e lentamente risale la gamba, aggrappandosi alla pelle con le sue zampe aguzze.

Fumante di rabbia, Clove uscì dalla porta.

«Dove vai?» le chiese il ragazzo.

«Lontano da te. Goditi pure il tuo Protocollo Protheus, e buona fortuna.»

Alla fine del corridoio, il soldato scelto Thomas Revere vide Clove sparire dietro l’angolo, i pugni serrati e il passo rapido. Sollevò le spalle, borbottò qualcosa sugli adolescenti e gli ormoni della crescita e tornò a fare il suo dovere.

 

Lo sciabordio delle onde sul mezzo da sbarco si mischiava al rumore acuto del motore in una strana cacofonia. Ogni tanto uno spruzzo salato superava i fianchi alti della barca, innaffiando gli elmetti dei soldati ammassati come bestiame.

«Statemi bene a sentire, signorine, perché non mi ripeterò. Il nostro obbiettivo è semplice, quasi offensivo nella sua stupidità: dobbiamo prendere la spiaggia e tenerla al caldo e al sicuro fino all’arrivo delle divisioni corazzate. Tutto chiaro?»

Quasi nessuno rispose. Il quinto battaglione, compagnia C del diciottesimo Fanteria di Linea Volontaria era troppo impegnato a farsela sotto dalla paura. Pressato in mezzo ai suoi commilitoni, Dan lottava con tutte le sue forze per non ributtare la colazione sulla schiena del soldato davanti a lui. Alla sua sinistra Lee guardava dritto di fronte a se’, mormorando qualcosa che aveva tutta l’aria di essere una sentita preghiera.

«Non ti facevo così devoto» disse Dan, cercando qualunque pretesto per non ricordarsi del contenuto del suo stomaco.

«Nessuno è ateo in trincea» rispose una voce alla sua desta. Una ragazza snella con una coda bassa di lunghi capelli neri che fuoriusciva dall’elmetto cercava di comporre  un sorriso sul volto cosparso di lentiggini. Riuscì a sostenere una smorfia storta per qualche secondo, poi fu costretta a rinunciare. Abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro.

Dan le mise una mano sulla spalla, in un pallido tentativo di rassicurarla. «Ricorda il tuo addestramento, e andrà tutto bene. E forse, e dico forse, non finirai a sbucciare le patate.»

La ragazza fece un timido sorriso. Era così che si erano conosciuti, lei, Dan e Lee: in punizione.

Durante l’addestramento, un sergente aveva deciso di prendersela con Dan, insultandolo e minacciando di farlo correre nudo davanti a tutto il campo. Lee si era opposto, e così aveva fatto quella strana ragazza dagli occhiali dalla montatura spessa, citando il codice militare. Il sergente, per evitare che la cosa degenerasse, aveva mandato tutti e tre in detenzione, a sbucciare le patate per una settimana intera. Durante quel periodo, Dan aveva avuto modo di conoscere colei che lo aveva difeso senza neanche sapere il suo nome. Si chiamava Agnes Grey, veniva dal Distretto Nove, amava leggere tutto quello su cui riusciva a mettere le mani e ascoltare della buona musica dal suo vecchio grammofono, che aveva trovato insieme ad una ventina di dischi miracolosamente intatti abbandonato in un vicolo dietro casa sua. Era silenziosa e preferiva starsene sulle sue, ma detestava le ingiustizie e quando decideva di aprire bocca era sempre per dire qualcosa che nessuno avrebbe facilmente dimenticato. Fu l’unica persona che Dan conobbe durante l’addestramento, ma non ebbe bisogno di conoscere nessun altro.

Dan sollevò lo sguardo: il sole stava per sorgere, e in un pezzo di cielo le stelle erano ancora visibili. Uno scenario decisamente poco adatto ad una zona di guerra.

«I Capitolini non si aspettano il nostro arrivo. Abbiamo fatto in modo che i loro culetti immacolati fossero nel posto sbagliato al momento sbagliato, ad affrontare un improbabile attacco al Distretto Tre. Perciò a meno che non premiate per sbaglio il grilletto e facciate saltare la testa del vostro compagno, nessuno morirà quest’oggi.»

«Così ce la tiri, maledetto bastardo» sibilò Lee.

«Chissà che ha combinato per essere qui» disse Agnes, lanciando uno sguardo obliquo all’ufficiale in comando che aveva appena parlato.

«Che intendi dire?»

«È uno del Tredici: se non bastasse il malcelato disprezzo che prova verso di noi a testimoniarlo, c’è anche la sua maledetta uniforme grigia. Avrà passato tutta la notte a stirarla, senza dubbio. Deve aver fatto perdere a carte qualcuno di importante per finire a comandare la carne da cannone.»

Dan sentì uno strano pizzicorio alla nuca al suono di quelle ultime due parole. Non era la prima volta che la sentiva, sibilata da soldati maliziosi o urlata da sergenti istruttori infuriati. 

La propaganda era di tutt’altro avviso, ovviamente. Loro erano la gloriosa Fanteria di Linea Volontaria: “dodici Distretti, un solo fine: libertà!” era il loro motto. Il popolo oppresso che si solleva in armi contro la tirannia, gli umili che combattono i forti armati dell’inestinguibile fuoco della rivoluzione: un esercito di santi, un’armata di eroi. 

Sulla carta era tutto uno squillo di trombe: ma nella pratica il suono era più simile a quello di un vecchio tamburo sfondato.

Nel Distretto Tredici tutti erano soldati, dal primo all’ultimo: ma erano pochi, troppo pochi per sostenere una guerra contro la capitale. Ed ecco dunque fare il suo trionfale ingresso la Fanteria di Linea Volontaria: là dove il Distretto Tredici poteva schierare un soldato scelto ben addestrato, la Fanteria di Linea aveva a disposizione un’intero battaglione, ossia un centinaio buono di padri di famiglia, ragazzi, figlie, nonni e nipoti, con un elmetto in testa, un fucile e una vaga idea di come usarlo. Non avevano neanche un uniforme: il comando logistico le aveva promesse una volta preso possesso delle fabbriche tessili del Distretto Otto, ma ora erano alle porte del Quattro e Dan indossava ancora il suo sdrucito vestito marrone del giorno del Tour della Vittoria. 

Ma quali che fossero le sue mancanze, la Fanteria di Linea Volontaria sopperiva alla scarsità di addestramento con una delle migliori qualità che un esercito possa avere: il numero.

«Bene, signori, tenetevi pronti: ci siamo!»

Fu in quel momento che Dan si ricordò della colazione che aveva disperatamente cercato di tenere a bada in pancia. Si piegò in avanti e vomitò, cercando di evitare di sporcare qualcuno: impresa vana, dato l’assenza quasi fisica di spazi vuoti tra un soldato ed un altro. Qualche giorno prima Dan aveva sentito un sergente tarchiato del Tredici dire che quei mezzi erano stati costruiti per trentacinque persone: lì dentro ce n’erano almeno il doppio, se non di più.

«Restiamo vicini, ok?» disse Lee, con una nota di panico nella voce.

«E lasciamo andare avanti gli altri» aggiunse Agnes tentando disperatamente di assumere un’aria spavalda.

Dan strinse forte il fucile. Non gli era sentito di udire alcuno sparo fino ad ora. Forse sarebbe andata davvero bene.

Il motore del mezzo da sbarco scese improvvisamente giù di giri. Dan si sentì sprofondare.

Ci siamo.

«Avanti, signorine, e ricordate il vostro addestramento!» latrò il capitano.

Il portellone si aprì, rivelando una bianca spiaggia sabbiosa, che terminava in una serie di dune macchiate qua e là da arbusti e cespugli. L’acqua era limpida e si infrangeva sommessamente sul bagnasciuga. Se non fosse stato per le difese anticarro e per il filo spianto, sarebbe stato un gran bel posto dove passare una giornata libera.

Non a caso il Quattro è uno dei distretti più ricchi.

Passò qualche secondo di completo silenzio. Tutti trattenevano il fiato, in attesa della comparsa del nemico. Ma l’unico rumore era quello delle onde e del vento.

Non c’era nessuno. La spiaggia era deserta.

Dan chiuse gli occhi, lasciando che il sollievo lo pervadesse con la sua benefica energia. Agnes si lasciò scappare un risolino isterico.

«Che vi avevo detto, ragazzi? Una passeggiata!» sbottò il capitano, burbero.

Lee diede una pacca sulle spalle a Dan, facendogli calare l’elmetto davanti agli occhi.

Per un istante divenne tutto nero. Poi Dan rimise l’elmetto a posto, e i suoi occhi colsero quella che il suo cervello non poté che interpretare come una strana anomalia.

Le dune brillarono.

Fu una questione di microsecondi, il tempo che l’informazione fosse decodificata e trasmessa al resto del corpo. Un tempo infinitesimo. Ma fu comunque troppo tardi.

E il mezzo da sbarco divenne una trappola mortale.

Le prime file non fecero neanche in tempo ad accorgersi di nulla: furono letteralmente falciate dalle raffiche di mitragliatrice. Sbuffi rossastri esplosero nell’aria salmastra, mentre i corpi dei Fanti di Linea si trasformavano in grotteschi stracci martoriati di carne sanguinolenta. Urla agghiaccianti aggredirono i timpani di coloro ancora in vita, aumentando la confusione e il panico. Uomini e donne disperati tentavano di districarsi dal peso dei cadaveri, cercando disperatamente di sfuggire alla grandinata di pallottole che si abbatteva senza pietà su qualunque cosa osasse ostacolare il loro cammino.

Il capitano strappò la trasmittente dalle mani tremanti dell’addetto alle comunicazioni. «Alfa Uno, Alfa Uno! Incontriamo pesante resistenza, la spiaggia non è sicura! Ripeto, la spiaggia non è sicur...»

La testa del capitano esplose, proiettando l’elmetto in aria e spargendo cervello e schegge di cranio tutto intorno a se’. Quello che restava dell’ufficiale si afflosciò a terra, spruzzando sangue dal collo martoriato.

Dan veniva sballottato, spinto inesorabilmente verso il fondo del mezzo, dove la gente cercava inutilmente di trovare scampo dalle mitragliatrici. Riusciva soltanto a vedere un groviglio di braccia, elmetti e spruzzi di sangue. Le urla erano così forti che dovette premersi le mani sulle orecchie. Perse l’equilibrio e scivolò sul pavimento bagnato dall’acqua, dal sangue, dal vomito e dalla materia cerebrale, cadendo su qualcuno. Un gomitò lo colpì allo stomaco, mentre uno stivale gli schiacciò il piede destro. Era immobilizzato, impotente e assolutamente terrorizzato. L’orrore gli mozzava il respiro.

«Di lato, di lato! Arrampicatevi sulle paratie!»

Un braccio volò in aria, separato brutalmente dal suo proprietario. Il suono secco delle mitragliatrici ammorbava l’aria. Il quinto battaglione  aveva abbandonato qualunque traccia di civiltà, regredendo allo stato animalesco: tutti cercavano scampo come potevano, spintonandosi, facendosi scudo con i corpi degli altri, vivi o morti che fossero.

«Dan! Dan!»

Lee era a cavalcioni della paratia, e gli tendeva la mano. Un proiettile si conficcò nella borraccia a qualche centimetro dalla sua gamba, facendo fuoriuscire una fontanella d’acqua.

Dan raccolse tutte le proprie forze, riuscendo a sollevare il proprio braccio al di sopra della calca e arrivando a stringere la mano dell’amico. Sbuffando e gemendo, si issò sulla fiancata del mezzo.

Lo sbarco si era trasformato in un massacro. Le mitragliatrici non risparmiavano nessuno: i pochi soldati che riuscivano a districarsi dal groviglio di cadaveri dei mezzi da sbarco venivano trucidati senza pietà. Colonne di fumo si sollevavano nel cielo mattutino, là dove le imbarcazioni avevano preso fuoco. Un addetto al lanciafiamme venne colpito alla tanica di propano ed esplose, carbonizzando altri due uomini che si trovavano nelle vicinanze.

«Agnes! Agnes, prendi la mia mano!»

Il quinto battaglione era quasi stato spazzato via: il mezzo da sbarco era lastricato di corpi, arti e teste sbrindellati dalle mitragliatrici.

Dan e Lee tesero le proprie mani. Agnes le afferrò, gli occhi spalancati dall’orrore.

«Al mio tre ti tiriamo su! Uno, due... tre!»

Poc.

Il proiettile bucò l’elmetto, entrò dalla tempia destra ed uscì da quella sinistra. Niente sangue, niente cervella. Solo un piccolo schiocco.

Ed Agnes si afflosciò sulla paratia, morta sul colpo.

No. 

Dan non riuscì neanche a gridare. Qualunque forza possedesse era stata spazzata via come la vita dal corpo della sua giovane amica. 

Lee lo spinse all’indietro, fuori dal mezzo da sbarco. Cadde in mare, come un sacco di carne. L’acqua era gelida, ma fu un piacere esserne avvolto. Tutto era fuori. Tutto era lontano.

Si lasciò andare, cullato dall’oblio. Solo quando i polmoni cominciarono a bruciargli si ricordò che non sapeva nuotare.


















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: come Rorke, anche io mi sono lasciato andare in questo capitolo (sopratutto la mia vena storico-militare), e devo dire che mi sono piuttosto divertito. A parte quando ho ammazzato Agnes Grey, quello non mi è piaiciuto per niente.  Dopo uccidere i poveri ragazzi innocenti, uccidere le povere ragazze innocenti è al primo posto delle cose che detesto fare ma che sono costretto a fare, perchè questo è un lavoro sporco e qualcuno deve pur farlo. Elias sono riuscito a portarlo avanti un capitolo e mezzo prima di farlo sopprimere, con Agnes ho dovuto fare ancora più in fretta o non sarei riuscito a farcela. Non ha sofferto, almeno questo ve lo posso assicurare.

La morte di Agnes era necessaria per rafforzare l'idea simboleggiata dall'agghiacciante citazione a inizio capitolo. I giovani sono forti, entusiasti, speranzosi e drammaticamente ingenui: dei perfetti soldati giocattolo, ottimi per farsi maciullare sotto le mitragliatrici. Dan e Clove forse hanno cominciato a sospettarlo, ma non sono altro che pedine in una guerra più grande di loro. E per quelli come Rorke, il gioco è bello solo se si vince.

L'attacco al distretto quattro è una brutta copia dello sbarco in Normandia: se volete un racconto decente su cosa si provi a sbarcare in mezzo ad una tempesta di proiettili, sapendo che sei lì solo per fare da scudo a quelli che vengono dietro di te, allora guardatevi i primi minuti di Salvate il Soldato Ryan: a mio modestissimo parere una delle scene più evocative del cinema contemporaneo. Già che ci siete guardatevelo tutto, direi, dato che ci recita gente tipo un sempre gradito Tom Hanks, un altro "ce fa sempre piacere" Matt Damon e con le simpatiche apparizioni di Vin Diesel (sì, non ci credevo neanche io) e Nathan Fillion (mito imprescindibile per qualunque whedoniano che si rispetti).

Vabbè insomma gente, direi che ho parlato abbastanza. Come sempre, spero che abbiate gradito le mie farneticazioni: in ogni caso, se avete qualunque cosa da chiedere sarò più che lieto di rispondervi.

Alla prossima, allora, e ricordate il vostro addestramento!



 

 

  
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