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Autore: Tomi Dark angel    20/04/2014    7 recensioni
Mi chiamo John Watson e vivo a Londra. È dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di piogge torrenziali. Si trova esattamente sul meridiano della miseria. La mia città, in una parola è… solida. (...) L’unico problema sono le infestazioni: in alcuni posti hanno topi o zanzare. Noi invece abbiamo… i draghi.
Johnlock
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quando era piccolo, John amava le storie. Come tutti i bambini, sognava di principi e principesse, di draghi cattivi e bestie fantastiche. Poi, crescendo, John scopre che le storie sono sbagliate. Si trova tra le mani un libro, un racconto nuovo, reale, distinto. E improvvisamente, i principi non combattono più i draghi. I principi sono i draghi.
 Sherlock è un drago.
Sherlock è un principe decaduto.
E improvvisamente, la bellezza appassita della casa, l’eleganza innata di Sherlock e i suoi modi di fare acquistano un senso. Ogni gesto, ogni parola, hanno sempre traspirato antichità, storie mai narrate, ere distrutte e dimenticate. Adesso, John pensa a lui in maniera diversa, ed è strano. Non riscontra somiglianza tra il viso rilassato del giovane illustrato sul libro e lo Sherlock tenebroso che conosce. Eppure, entrambi sono la stessa creatura, ma con storie diverse. Manca un pezzo.
John accarezza la pagina, scorre gli occhi sulla maestosità della donna, identica a Sherlock. Si specchia nei suoi occhi di vetro e si chiede quanto siano stati fragili, quanta luce abbiano perso quando si sono spenti definitivamente, andando in frantumi. John non può pensare che gli umani abbiano ucciso una creatura tanto bella. La guarda, e legge nel suo sguardo una dolcezza dimenticata, pura, incorruttibile.
Forse è vero che questo mondo non merita d’accogliere la reale purezza.
-E… Sherlock?- domanda John titubante, senza distogliere gli occhi dall’immagine. Noah distende le gambe, flette le dita artigliate dei piedi squamati e rovescia il capo all’indietro.
-Era lì quel giorno. Vide la madre cadere, alcuni dicono che riuscì ad afferrarla e a volatilizzarsi con lei. Quando riuscirono a trovarli, lei era morta e Sherlock non era più lo stesso: alcuni lo accusano di averle inferto il colpo di grazia, perciò fecero a pezzi questa casa e dispersero la famiglia. Da allora, Sherlock ha ricevuto più attentati che sguardi, ma non uccidi facilmente una Furia Buia. Sono l’arma più potente dei cieli e della terra, l’unica razza in grado di racchiudere in sé le qualità di tutti i draghi. Hanno l’agilità dei loro parenti di terra, respirano sott’acqua, volano, sputano fulmini. No, le Furie Buie non si uccidono.-
-Eppure la madre di Sherlock è morta…-
-Sì, ma fu uno scherzo del destino. Non doveva morire, lei era buona… perché i buoni muoiono, John?-
John lo guarda, si specchia nell’innocenza dei suoi occhi lilla. Non sa cosa rispondere, non vuole rispondere. Perché i buoni muoiono sempre? Perché non c’è posto per loro, qui. Perché sono sbagliati, nella loro purezza, laddove marcisce insano il seme dell’odio. I buoni muoiono perché sono buoni.
Improvvisamente, Noah solleva lo sguardo, quattro occhi sbarrati di paura e trattiene il respiro.
Una mano artigliata, coperta sul dorso d’inconfondibili scaglie oscure, afferra delicatamente il libro, lo sfila con lentezza dalle mani improvvisamente sudate di John. L’umano solleva gli occhi, guarda in viso uno Sherlock i cui capelli ricci, lucidi come piume di corvo, cadono a coprire gli occhi. Ha il capo chino, le labbra appena serrate come unico gesto di tensione e le ali troppo grandi per non apparire adeguate in quel luogo così umano, così inadatto a contenerle.
Eppure, adesso che lo vede, John non può impedirsi di paragonare quel viso così adulto, così inespressivo, a quello sereno del giovane illustrato sul libro. Adesso Sherlock è cresciuto, è diventato adulto e bellissimo, ma in lui manca qualcosa, un tassello importante che John non ha mai guardato. La sofferenza celata di quegli occhi, la solitudine autoimposta che l’ha sempre contraddistinto, adesso acquistano un senso.
-Sherlock… scusami, non volevo…- cerca di spiegare Noah, ma Sherlock si volta, raggiunge la libreria e solleva lo sguardo verso il punto più alto, laddove giace ormai vuoto il tassello del libro mancante.
-Se prendete un libro, poi dovete rimetterlo a posto.- dice soltanto. Trattiene ogni deduzione, si impone di chiudere e sigillare qualsiasi porta del Mind Palace. Nessun dato, assenza totale di informazioni. Non vuole guardare John, non vuole guardare Noah. Semplicemente, si limita a saltare, ad aggrapparsi agilmente agli scaffali per raggiungere il loro punto più alto. Fa scorrere il libro al suo posto, si impone di non accarezzarne la copertina. Quell’ammasso di fogli è nient’altro che spazzatura, sentimenti racchiusi tra pagine maledette. Non gli servono, sono una distrazione.
Sherlock si lascia andare e atterra con grazia, piegando le ginocchia per non danneggiare il parquet col suo peso eccessivo.
-Tu… sei un… principe?- mormora John, con la gola secca. Adesso Sherlock lo guarda, e il suo è uno sguardo talmente glaciale che John deve costringersi a non abbassare gli occhi, a sostenere quella terribile occhiata. Ha davanti lo sguardo di ere trascorse e dolore asfissiante, uno sguardo antico, senza tempo, che fa sentire John piccolo e indifeso.
Lentamente, con calma, Sherlock si china, accosta il viso a quello di John, che trattiene il respiro, ascolta i battiti impazziti del suo stesso cuore. Si costringe a non guardarlo negli occhi, a non inspirare il suo profumo, a non andare nel panico. Sente di non doversi tradire, perché quello che sta vivendo è un momento raro, prezioso, inaspettato.
La guancia di Sherlock accarezza la sua, i capelli corvini gli solleticano il mento in una carezza perversa che gli ricopre la pelle di brividi angosciati e sudore gelato. Un fiato bollente gli sfiora l’orecchio, soffia l’inferno fin dentro il suo animo, portandovi scompiglio e confusione.
-Non fare domande stupide, John.- mormora Sherlock con voce morbida, pericolosamente sensuale. E improvvisamente, le mani di John si chiudono a pugno, i muscoli si tendono nello sforzo di restare immobili, la mente vola verso scenari sensuali, a luci rosse, che allarmano l’umano più di ogni altra cosa. Immagina quegli artigli piantati nella sua schiena, quella pelle mista a squame sotto le dita, quella voce che più e più volte mormora il suo nome…
Improvvisamente, un urlo. Sherlock si ritrae lentamente mentre John al contrario si volta di scatto, rosso in viso e col fiatone. Noah lo imita, irrigidendo la coda e le ali, pronto a scattare.
-Oh, a proposito: la tua amica si è svegliata.- comunica Sherlock con calma. John sbarra gli occhi.
-Da quanto?!-
-Da circa cinque minuti.-
-E tu non me lo dici?! Già è qualcosa se non è scappata?-
-Come sempre, parli prima di ragionare, John. Ogni essere umano reagisce in maniere differenti allo shock: fuga, caduta in stato confusionale o delirante, isteria, paralisi. Respiro affannoso, occhi sbarrati, battito cardiaco in pressante aumento e sudorazione della pelle, sono tutti sintomi di uno stato di paralisi. In effetti, immaginavo che ci avrebbe impiegato di più a riprendersi, ma in ogni caso sarebbe risultato da escludersi la fuga dalla zona, considerata l’altezza della cascata e i miei simili ben visibili anche ad occhi umani. Credo appunto che sia uscita e poi rientrata urlando.-
John mastica un’imprecazione e corre nella stanza adiacente, dove una Molly terrorizzata preme la schiena contro la parete più lontana, gli occhi sbarrati, il cuore a mille. Ansima, si sente prossima ad un attacco di panico. Poi, quando vede Noah e le sue due teste, la reazione non si fa attendere.
Un altro urlo, un'altra scarica di tensione. Molly si afferra la testa tra le mani, si raggomitola, dondola sul posto. Vorrebbe svegliarsi, vorrebbe uscire da quell’incubo.
-Molly, calmati. Sono io.-
John non si avvicina, ma lascia che le ginocchia poggino terra, che il corpo si accucci per sembrare meno minaccioso, meno torreggiante. Molly non lo guarda, scuote convulsamente la testa, emettendo un affanno violento, sempre più pesante.
-Rischia un infarto, se continuiamo così.- mormora John, ma poi qualcosa lo distrae. Vede gli occhi di Molly saettare su Sherlock, dilatare la pupilla. John quello sguardo lo conosce bene: probabilmente anche lui lo guardava così, all’inizio. È un piccolo indizio, ma può aiutarlo a sbloccare la situazione prima che diventi disastrosa.
-Sherlock, fai un passo avanti. Lentamente.-
-Cosa? John, non essere illogico…-
-Sono un medico, e ti dico che rischia un infarto se non la calmiamo. Forse in te riconosce l’identità del suo salvatore, perciò al momento tu sei l’unico punto fermo che ha.-
Sherlock sbuffa scocciato prima di avanzare di un passo. John vede le ali contorcersi nel vano tentativo di schiacciarsi tra loro, di risultare più piccole. Anche se lontana, la parte più sensibile di Sherlock adesso lampeggia, si sforza di capire, di studiare le illogiche reazioni umane. Paragona gli occhi scuri di Molly a quelli di John, così vivi, così lucenti, come zaffiri affondati nell’insignificante bigiotteria. Si costringe a sostituirli, a rimodellare il viso di Molly. È tutto un esperimento, una prova.
Vuole capirsi, Sherlock.
John. Come reagirebbe se in quella situazione ci fosse John?
Attraversa i corridoi, apre le stanze più importanti. Dodici, quarantotto, sessantadue. Quelle porte non le spalanca quasi mai, solitamente non gli servono.
-Vieni.-
Molly smette di ansimare, ancora stordita solleva lo sguardo sulla mano tesa. È pallida, artigliata, coperta sul dorso da micidiali scaglie luminescenti. Eppure, è anche umana, come prova la pelle pallida che si tende sul palmo.
-Vieni.-
Molly ascolta quella voce calma, profonda come gli abissi della terra. Chiude inconsciamente gli occhi, inconsapevolmente calma il respiro e il battito rallenta, la sudorazione diminuisce. Le fa male tutto, ma adesso è calma, serena. Come animata di vita propria, la sua mano si tende, sfiora timorosa gli artigli, le squame, per poi scivolare sul palmo morbido di seta. Tocca l’incavo del polso, scopre timorosa l’abbraccio tra squame e pelle. È bello. Bellissimo. Sono questi i veri draghi? Molly non riesce a paragonare quel volto d’angelo, quelle corna ad anelli, quegli occhi consapevoli, intelligenti e anziani, a quelli delle bestie che attaccano la città.
Guarda John, studia i suoi occhi, lo sguardo di totale dolcezza che posa sulla creatura. Lo fissa con affetto e fedeltà incondizionati, un intreccio paradisiaco di totale fiducia e… amore. Quelli sono gli occhi di chi è pronto a sacrificare tutto pur di proteggere il destinatario di tale sguardo. E lentamente, davanti ad esso, tutti i pezzi scivolano al loro posto: il caso risolto di Lestrade, le continue sparizioni di John, la sua depressione e il persistente bisogno di lasciare sul davanzale una tazza di tè caldo. Non era pazzo. Era… innamorato. È innamorato.
-Mio Dio.-
John sorride. –Sei al sicuro.- dice.
Ma Molly non lo ascolta. Fissa ancora la sua mano, poggiata su quella di Sherlock così grande, così diversa dalla sua. È un incontro, un morbido abbracciarsi di due diversità allo stesso tempo così simili. D’improvviso appare tutto stupido, insensato, grigio. Morti inutili, paura immotivata, guerra malata. Per cosa lottano da così tanti anni? Per quale motivo lei ha perso amici e famiglia?
-Voi siete… diversi.- mormora con voce roca, gli occhi improvvisamente lucidi, il cuore palpitante. Sherlock annuisce, sente di dover trattenere qualsiasi inumana risposta perché questo è un momento importante, il segno che qualcosa alla fine si muove per il bene.
-Voi siete… semplicemente diversi.- Molly si ripete, guarda John con occhi sbarrati d’improvviso rancore. –Perché?-
Così Sherlock sente che il suo ruolo è finito, che adesso è il momento di John. Ha fatto abbastanza.
Si raddrizza lentamente sotto gli occhi attoniti di Molly, indietreggia di cinque passi per condursi accanto a John. Si volta, lo guarda di sfuggita. Poi, fa un cenno a Noah ed entrambi si allontanano, varcano la porta ed escono.
 
-Non posso crederci. Non voglio crederci.-
Adesso, Molly singhiozza apertamente. Si preme una mano sulla bocca, stringe forte gli occhi mentre gocce di cristallino dolore le scivolano sul viso ancora sporco di fuliggine. John le passa un braccio intorno alle spalle, le bacia i capelli, ma non può fare nulla per alleviare la sua sofferenza. L’ha affrontata anche lui, e non è facile pensare che per tutta una vita hanno lottato contro un nulla di fatto. I draghi agiscono in nome di una sovrana defunta, gli uomini a causa della loro ignoranza. Ormai, il dilagarsi dell’odio ha radici ben più profonde di quelle storiche.
Forse nessuno ricorda perché tutto è iniziato, forse a nessuno interessa davvero più. Adesso si combatte, si uccide, e questo è tutto ciò che conta. È la guerra. Funziona così.
-Puoi piangere, se vuoi.- si limita a rispondere John, e allora Molly lo accontenta. Artiglia il suo maglione sbrindellato, affonda il viso nell’incavo della sua spalla e rilascia un grido sofferente, liberatorio, rivolto al cielo dei draghi e alla terra degli uomini. Piange lacrime innocenti, che nessuno vedrà mai, delle quali nessuno saprà interessarsi.
Ha visto troppo, Molly.
Ha perso troppo.
Ha sempre pianto troppo poco.
John le accarezza la schiena, anche lui stringe forte gli occhi per trattenere altre lacrime: ricorda i visi della sua famiglia, i momenti trascorsi tra le braccia di sua madre e le carezze di suo padre. Litigava spesso con sua sorella Harry, ma era divertente. Adesso però, intorno a lui c’è silenzio. Li ha visti morire tra le macerie di un palazzo caduto, ha ascoltato gli ultimi gemiti di sua madre.
“Sta bene tua sorella?”, era riuscita a chiedere mentre moriva. Non poteva vedere John, che stringeva a sé il corpo di Harry appena un metro più su, oltre i detriti dove erano rimasti bloccati tutti loro. Harry aveva il collo spezzato e la colonna vertebrale in frantumi. Quando l’avevano tirata fuori dalle macerie, era ridotta a un informe ammasso di carne.
“Sì, sta bene. Stiamo bene tutti, anche papà”, aveva risposto John. Ancora oggi si illude di averle donato quel po’ di serenità che le mancava, ma sa bene l’ormai giovane uomo che le madri sentono i figli morire. È una sensazione che riconoscono, un vuoto che invade il ventre, come se portassero ancora in grembo i loro bambini.
-Non le ho mai detto la verità, sai?- mormora alla fine. –Non le ho mai detto che Harry era morta. Sarebbe stato come ucciderla due volte.-
Molly smette di singhiozzare, leva su di lui due grandi occhi brillanti di lacrime. Capisce di cosa parla John, trattiene il respiro perché lui della morte della sua famiglia, non parla mai. È la prima volta, e per Molly è come avere davanti un John nuovo, ritornato bambino. Per un attimo fissa l’uscio di casa, sorride appena e silenziosamente, ringrazia Sherlock Holmes per quel miracolo.
 
È quasi sera quando John esce dalla casa. Varca la porta timoroso, forse aspettandosi di trovare un drago nemico pronto a sputargli in faccia l’inferno dei suoi polmoni. Ma non accade niente del genere. Al contrario, ciò che si stende dinanzi agli occhi di John, è una nuova, splendida facciata di paradiso.
È calata la notte, ormai. Il cielo dovrebbe essere blu scuro, forse punteggiato da sporadiche stelle. Ma non è così.
Sulla sua testa si stende la più gloriosa delle aurore boreali. Danza nel cielo, scuro di un delicato blu cobalto, distende le sue appendici, graffia la continuità del colore base per tingerlo di sfumature nuove, in continuo mutamento, come pelle di camaleonte. A intervalli, la lucentezza esagerata delle stelle fisse, così come delle continue ma fugaci comete, buca la coltre boreale nei suoi punti più sottili per illuminare il terreno di sottili fasci di diamante. 
La luna appare gigantesca, grande più dei draghi, come un enorme tramonto, e affonda le sue radici all’orizzonte, nella terra che, spaccata a metà dalle acque della cascata, si tuffa in ogni direzione coi suoi fiori, la sua erba di smeraldo, i suoi sporadici ma insoliti alberi secolari.
Ed è proprio dinanzi all’acqua che si erge Sherlock: non indossa più il cappotto, ma John è lieto di notare che almeno i pantaloni non li ha dimenticati. Ha un braccio alzato, impugna un violino trasparente, di cristallo forse. Alla luce della luna, le sue squame… semplicemente non hanno un colore. Sono punti luce, come se diamanti splendenti sporgessero dal corpo pallido e delineato, dipinto d’ombre che evidenziano ogni muscolo, ogni vena e arteria sporgente. Il palco di corna pare illuminato d’argento purissimo misto a screziature d’oscurità laddove la luce non tocca, e gettano sul viso rilassato l’ennesima ombra, l’ennesimo mistero che pone ancora più antichità in quegli occhi lontani secoli e secoli, invecchiati, tanto intelligenti quanto stanchi.
Le ali sono chiuse ma chine a terra, come drappi di pregiata seta oscura che si aggrappano alla schiena e scivolano di morbido mantello sull’erba, oltre la coda avvolta in larghe spirali intorno al corpo.
-Non suoni?- chiede John, incuriosito. Nota infatti che Sherlock impugna il violino, ma l’archetto non si sposta. Vede il drago sbattere le palpebre, riprendersi dai suoi intricati pensieri. Appare un po’ scosso, ma John non sa perché.
-No.-
Sherlock abbassa il violino mentre John si avvicina cautamente, costringendosi a non fissare il torace scolpito dell’altro. Raggiunge la sommità della cascata, si sporge appena per fissare in basso, verso il vertiginoso tuffo che le acque compiono contro le nubi, giù fino alla terra adesso invisibile agli occhi di John.
-Fossi in te, mi sposterei, John.-
-Perc…-
Ma Sherlock compare al suo fianco, gli cinge la vita con un braccio, facendo urtare l’archetto contro il ginocchio di John, e con una spinta possente li fa arretrare entrambi. In quello stesso istante, la sporgenza di roccia scricchiola, si ricopre di crepe e và in frantumi, piovendo verso la sua fine.
John fissa il punto ormai vuoto dove fino a poco fa stazionava. Non si accorge che Sherlock l’ha lasciato andare.
-Come… come l’hai capito?-
-C’erano già delle crepe in quel punto. Roccia graffiata, scricchiolante, in diversi punti è incisa da artigli di drago. L’ultimo che si è lanciato da quassù, l’ha fatto un istante prima che la roccia cominciasse a cedere. Probabilmente è il tentativo imbecille di un ritardato che sperava di vedermi precipitare dalla sommità della cascata dopo essermi spezzato un’ala sbattendo contro la sua fiancata.-
Sherlock sbuffa, sposta l’archetto nella stessa mano che stringe già il violino. John lo fissa, cerca di scavare in quegli occhi così freddi, così lontani.
-Tu non… hai mai pensato di andartene?-
-A che pro? Mi verrebbero a cercare, e non è nel mio stile vivere da reietto.-
-Ma allora perché non ti difendi? Perché non dici a tutti che non hai colpa per… insomma, per…-
-Per la morte di mia madre?-
John si irrigidisce, pensa di aver esagerato. Quelli non sono affari suoi, dopotutto.
Ma Sherlock non pare infastidito. Lo fissa con una strana, nuova morbidezza nello sguardo. Certamente ha notato il suo nervosismo, e forse questo lo diverte almeno un po’.
-Mi dispiace per tua madre.- dice improvvisamente Sherlock, e John lo guarda con occhi sbarrati.
-E tu che ne sai?- risponde bruscamente, pentendosene subito. Dopotutto, ha iniziato lui con l’invadere la privacy di Sherlock.
-Ho sentito tutto. Al contrario di voi bestioline con scarse capacità fisiche e intellettive, noi ci sentiamo benissimo.-
John non risponde. Fissa lo scorrere delle acque, si chiede quanto ascoltare la sua storia lo abbia cambiato agli occhi di Sherlock. Forse adesso gli sembra più debole del solito, troppo soggetto ai sentimenti e alle lacrime. Non vuole che Sherlock lo creda un debole, ma non ha la forza per smentirlo o continuare a parlarne.
-Potresti… potresti suonare?- chiede John alla fine, senza guardarlo negli occhi. Siede sull’erba, si abbraccia le gambe come un bambino che tenta di proteggersi dal mondo. Cala le palpebre, aspetta paziente che qualcosa cambi, che anche stavolta Sherlock lo aiuti a uscire dall’inferno che è diventata la sua testa.
Poi, d’improvviso, l’ennesimo miracolo si manifesta. La musica lo abbraccia come una coperta, spazza con dolcezza ogni grinza di dolore, ogni fosso di sofferenza, appianando la sua mente. È una melodia gentile, antica, malinconica, che narra con voce arcana di una storia lontana, dimenticata. John non ha mai sentito un suono così delicato, come canto di mille sirene. Chiude gli occhi, affonda tra le pieghe della musica, dimenticandosi di se stesso, dimenticando i ricordi e il dolore.
Improvvisamente, la sua mente si affolla di draghi maestosi che solcano i cieli. Li immagina danzare, sovrani del loro elemento, della loro grandezza. Poi, dall’affollarsi di splendide creature, ne emerge un’altra più grande, più gentile, diversa. Nera, dipinta di oscuro arcobaleno, con grandi corna ad anelli. John non fatica a pensare che possa essere la madre di Sherlock, quella.
Sorride, si perde nell’immaginazione, tra le onde della musica. Segue la sua narrazione, il suo sinuoso racconto di storie dove draghi splendenti dipingono i cieli e nel mondo, la guerra non esiste.
Il corpo si rilassa, John quasi non si accorge di dormire. Crolla all’indietro, senza peso, perso tra i racconti, tra le pieghe del canto di violino. Ad accoglierlo, c’è un’immensa ala di seta, più morbida dell’erba, più morbida di qualsiasi coperta. Lo abbraccia, ripiega su di lui in un abbraccio protettivo.
Sherlock passerà la notte a suonare. Per John, per le vittime della guerra, per la sua famiglia devastata. Chiude gli occhi, immaginando la voce di sua madre intonare quella stessa melodia ora inalberata da archetto e violino. Non era così. Quando cantava lei, il mondo si fermava. E lui, Sherlock, trovava quella pace che da secoli non ricorda neanche più.
Eppure, la melodia funziona ancora. Pone mano su John, lo rassicura, lo accarezza, e d’improvviso il suo volto ringiovanisce, si rilassa, scala gli anni dalla sofferenza che adesso appare assopita.
Sherlock invece no: lui ingabbia la sofferenza, la domina, la schiaccia in una stanza sicura del suo Mind Palace. Ha chiuso la porta a chiave, a doppia mandata. Non la aprirà mai, mai più: una volta sola gli è bastata.
Mai più.
 
Angolo dell’autrice:
Ta-daaaan!!! Coraggio signori, ora tutti insieme ad augurare un’ottima Pasqua ai nostri magnifici lettor… Sherlock? Che stai facendo!
Sherlock: Moriarty.
Che c’entra?!
Sher: mi ha sfidato.
Non mi interessa! Ti avevo detto di vestirti da coniglietto, non da ippocampo! Da dove l’hai preso quel costume?!
Sher: me l’ha prestato Mrs Hudson.
Quella donna fa sempre più paura… comunque. Passiamo alle cose serie. Comincio con l’augurare la più splendida Pasqua del mondo ai miei lettori, specialmente ai miei bellissimi draghetti recensori.
Vi auguro di trovare la pace interiore, così come l’ha trovata John.
Vi auguro di trovare il vostro Sherlock, il vostro drago protettore.
Specialmente, vi auguro la serenità. E non perché sia Pasqua. Vi auguro questo perché in certi momenti, anche quando la pace vacilla e tutto crolla intorno a voi, è giusto ricordare che prima o poi, che lo vogliate o no, le cose cambiano. Ogni tempesta passa, ogni mare agitato alla fine trova la sua tranquillità nel costante infrangersi delle onde contro la costa. Quando il dolore è troppo forte e vi sentite deboli, ricordatevi di voi stessi. Ognuno può affrontare la propria sofferenza, così come fanno Sherlock e John. Trovate il vostro pilastro, appoggiatevi ad esso, e andate sempre avanti. Che queste piccole feste, oltre che una pancia piena, vi portino pace e conforto, così come meritate tutti voi.
Un abbraccio speciale e un ringraziamento dal profondo del cuore, oltre il mio più grande augurio a:
Bbpeki
FKk
Sonia_0911
Little Fanny
Kimi o Aishiteiru
Sparrow
Auguri. E grazie per il sostegno che mi date, questa storia è dedicata a tutti voi.
Sherlock: eh? Perché mi guardi? Ah, sì. Auguri. E no, tu quella foto non la metti sul web. No, non prov…

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Tomi Dark Angel

 
  
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