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Autore: Chesy    13/05/2014    1 recensioni
Se immagino un finale per Malec o, almeno, una parte del finale, immagino questo. Diciamo che sarebbe la parte drammatica e triste, la riunione che attendiamo sotto la luce della Luna, oscura e malinconica.
"Nessuno dei due ebbe il tempo di dirlo."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chesy's Work II

PT. II

Due anni dopo…

 

Dicono che ci siano cinque fasi del dolore.

Rifiuto, in cui, a causa dello shock, non compendiamo davvero cosa sia successo. Non capiamo e siamo smarriti, sopraffatti. Crediamo sia solo una farsa, un’illusione, qualcosa che mai potrebbe succedere.

E invece accade, improvviso, tanto che non ci sentiamo pronti, e mai lo saremo.

Per questo arriva la rabbia, impetuosa come una tempesta ci travolge. Non capiamo, non riusciamo a decifrare il perché e dentro s’innalza una bestia feroce, che si scaraventa su di noi e su chi ci sta attorno. Ci tiene assieme, impedisce al nostro corpo di disgregarsi, ma dura poco.

E poi iniziamo a pregare e contrattare: il patteggiamento per avere ancora tempo assieme, per tornare indietro, per dire cose o ritirarne altre. Per modificare il rapporto, i ricordi, per cancellare o cambiare: diamo la vita, l’anima, qualsiasi cosa ci appartenga. Offriamo qualsiasi cosa, dinanzi ad una illusione.

La depressione ci accoglie fredda, un involucro simile ad una coperta intrisa di lacrime. Non dà sollievo, anzi, ci fa piangere sino alla disidratazione: ci fa guardare in punti indefiniti, ci fa litigare con chi amiamo, rifiutando di proseguire e vivere, anche se dovremmo. La depressione tinge tutto di grigio, di nero e i colori non esistono, così come i sorrisi e le cose belle.

La depressione porta via ciò che abbiamo, spegne il fuoco della rabbia, il patteggiamento e il rifiuto.

Ecco, come una luce, l’accettazione. Odiata e amata, mette fine a tutto e ci dice di continuare, alzare il capo e tornare a vivere: lasciamo la coperta gelida della depressione, le grida di rabbia, lo shock della perdita e la possibilità di riavere ciò che non possiamo ottenere con le preghiere.

Dolore.

In realtà, è una bugia. Scinderlo è un modo per farcelo accettare a piccole dosi, per far sì che il nostro corpo non si distrugga: lo assorbiamo meglio, così, e non ci riduciamo all’ombra di noi stessi. A dire il vero, quando qualcuno muore, ci sentiamo persi, e tutto si fa offuscato e ovattato. Non esiste altro pensiero.

Le cinque fasi del dolore? E’ solo una bugia.

La verità è che, quando qualcuno muore, una parte di noi muore con lui.

Alec era fermo alla depressione da due anni, oramai: aveva perso i genitori, alcuni amici. Aveva rischiato di veder sparire Isabelle e Jace. Ma, soprattutto, aveva assistito alla scomparsa di Magnus. Doveva salvarlo, ma non c’era riuscito: aveva conficcato le unghie nel terreno, lottando, liberandosi dalla presa del demone, con la mente ferma e indirizzata verso l’unica azione che voleva compiere.

E, invece, non ce l’aveva fatta.

Camminava sotto la pioggia, le mani ficcate nella giacca nera, la sciarpa azzurra che apparteneva a lui arrotolata attorno al collo: i capelli ricadevano flosci e zuppi d’acqua davanti agli occhi, le luci dei lampioni appena accesi facevano risaltare le occhiaie violacee e la pelle bianca. Era dimagrito, in due anni aveva litigato con tutti per quel fatto: l’avevano obbligato a mangiare per mantenersi in forze, contro la sua volontà. Quando lui, semplicemente, voleva restare com’era.

Aveva cercato Magnus per lungo tempo. Tra le macerie, cacciando demoni, scivolando in ogni angolo della città per scovarlo: per i suoi genitori e i suoi amici era finita, ma sentiva che non lo era per lo Stregone.

Clary, Jace e Isabelle l’aveva aiutato a convincersi del contrario per lungo tempo, e lui li aveva lasciati credere che si era rassegnato alla sua scomparsa, quando in realtà non era così.

Ora, però, erano passati due anni. Lunghi, lunghissimi, come se la clessidra che governa il tempo avesse deciso di rallentare per prolungare il suo dolore.

Osservò i mondani che volteggiavano attorno a lui: una coppia scappava al riparo ridendo, una donna correva rapida sui tacchi a spillo trattenendo un ombrello tra le dita. Un anziano si fiondava in un taxi per tornare a casa, al caldo. Per Alec non c’era più nulla del genere ad aspettarlo.

Il calore che i suoi fratelli, che l’Istituto e Idris volevano donargli, non era lo stesso che lui cercava: aveva fame, bramava quel tepore oramai divenuto illusione.

I suoi passi, miscelati e oppressi dal rumore della città, erano una cacofonia assordante, che la pioggia cercava di cancellare: con gli occhi fissi sulla strada sotto di se, il ragazzo proseguiva. Vagava, come uno spirito, privo di luce da raggiungere.

Plic, plic, plic.

Qualcosa becchettava sopra la sua testa, e la pioggia gelida era cessata. Eppure, quando alzò lo sguardo, si rese conto che, intorno a lui, continuava: stranamente, Alec  era l’unico ad essere stato, in parte, risparmiato dall’acquazzone violento. Un ombrello arancione, sopra di lui, lo fece voltare: a sostenere l’oggetto, un uomo dai capelli neri e lo sguardo da gatto. Un sorriso debole dipinto sulle labbra, le sopracciglia alzate come se avesse appena colto in fragrante Alec.

-Dovesti evitare di stare sotto la pioggia. Ti beccherai una polmonite.-

Poche.

Semplici.

Parole.

Dopo due anni, Alec si chiese se non stesse sognando. Se non fosse uno scherzo dato dalla pioggia, dalla depressione, da qualsiasi tipo di….non lo sapeva.

Oppure sì.

Il profumo di sandalo non venne soffocato dalla pioggia, così come le gocce non smisero di cadere sull’ombrello che lo proteggeva dall’intemperia: a sostenerlo, sì, era lui, non c’era alcun dubbio. E, se anche stesse sognando, non gl’importava. Sarebbe stato un bel sogno a cui aggrapparsi per poi lasciarsi andare.

Magnus si fece più vicino, ad una spanna da Alec: aveva in dosso una sciarpa multicolore, tinte che andavano dall’arancio al rosso, al viola, e un cappotto lungo e nero, con dettagli rossi. Si rese conto che poteva fissarlo negli occhi senza alzarli neanche di un millimetro: di solito era Magnus ad arrivare più in alto di lui. Strano, forse si era alzato.

Strano, forse stava davvero immaginando tutto.

Le dita calde dell’uomo si posarono sulla guancia del ragazzo, ancora umida e fredda, la pelle bianca quasi scottata da quel semplice contatto: l’uomo fece passare le dita tra le ciocce, disegnando il profilo di una cicatrice che solcava l’epidermide in corrispondenza dello zigomo.

-Cosa ti è successo, Alexander?-

Alexander.

Aveva sentito così tante volte e per così tanto tempo il suo soprannome, da dimenticarsi come si chiamava davvero: sulla lingua di Magnus, quella parola aveva un significato tutto suo, esente da ogni altro. Alec stranò gli occhi, come se si fosse ricordato solo ora di quel dettaglio.

-Un demone….quella volta, due anni fa…-

Mentre ti cercavo, mentre cercavo di raggiungerti, mentre….

Scrutò Magnus, godendosi quel tocco come se fosse un premio per i suoi sforzi e il tanto cercare: lo Stregone pareva lo stesso di sempre, la mandibola pronunciata, il volto gentile, gli occhi…

Gli occhi.

All’inizio non ci aveva fatto caso, ma ora notava una lieve differenza. La presenza della sclera bianca e di una pupilla tonda: la tonalità dell’iride un miscuglio di verde e oro, come una pietra viva e calda.

Il Nephilim alzò la mano e la posò, lentamente, sulla guancia dello Stregone, sfiorando gli occhi a mandorla: il sorriso non scomparve dal volto dell’uomo, ma si fece leggermente più triste, come per rilevare qualcosa di evidente.

-I tuoi occhi….-

-Piccoli sacrifici per levarsi dai piedi il terzo incomodo ….non ti piacciono?-

Ricordò chi era, ciò a cui riferiva Magnus. L’immortalità. Gli era sembrata una cosa così idiota quando ci aveva ripensato, nel suo letto, avvolto nelle lenzuola, dopo quella battaglia: se avesse potuto tornare indietro, si sarebbe rimangiato ogni parola, usando quel tempo per baciare Magnus e stargli accanto. Abbracciandolo, sorridendo con lui, ridendo, parlandogli e chiedendogli scusa: per lui il passato dell’uomo era una cosa fondamentale, sino a quando non aveva rischiato di perderlo. In quel momento, quando la consapevolezza di averlo visto per l’ultima volta durante lo scontro, si era fatta largo in lui, comprese quanto fossero frivoli quei dettagli.

Rimase a fissarlo, non si mosse: gli occhi blu si erano come rianimati, nell’azzurro sguazzava qualcosa di più dell’amore e della gratitudine. C’era un dettaglio che nessuno avrebbe potuto notare, tranne Magnus.

Staccò la mano dalla guancia di Alec, cercando invece le dita piene di cicatrici argentate: il giovane strinse la presa di rimando.

Avorio e caramello bruciato.

Freddo e caldo.

Umido e asciutto.

Si completavano, si poteva notare anche da quella semplice presa.

-In ogni caso.- iniziò Magnus, come per tralasciare qualsiasi altra domanda. -Ci sono sacrifici in vista anche per te: il Presidente Miao esige grattini extra non appena rientrerai a casa, e attenzioni quando ti chiederà di giocare con il topolino meccanico. Inoltre, per quanto riguarda il sottoscritto….-

Un bacio.

Dio, quanto gli era mancato farlo.

Sospirato, atteso, umido: le labbra su quelle di Magnus, la mano libera tra i suoi capelli neri. Gli occhi che non smettevano di specchiarsi nei suoi.

Un bacio che si schiuse, ricambiato dallo Stregone oramai mortale: le labbra assaggiarono quella droga che andavano cercando da anni, ricordando com’era bella la normalità, quel semplice contatto. Una sensazione famigliare che volevano, un tepore che scioglieva il gelo che aveva circondato entrambi.

Un bacio fatto di lingua e schiocchi di denti.

Un bacio che voleva dire tante cose.

Scusa.

Ti amo.

Perdonami.

Ti odio, perché non sei tornato prima?

Ti amo.

Non lasciarmi.

Non lasciarmi.

Ti amo.

Mi sei mancato.

Senza di te, io…..

Non serviva a niente parlarne, perché furono i tocchi a dire tutto, attraverso la pelle: come una conversazione muta, un alfabeto appartenente solo a loro. Nessuno poteva ascoltarli.

Finalmente, Alec, lo sentì: i colori erano tornati a splendere, il mondo non era più così buio. Si sentiva completo, in forze, vivo. Poteva ricostruire ogni cosa con Magnus, poteva rimediare, tornare ad amarlo: a lui era stata data questa possibilità. Lui poteva ricominciare.

Ma non da solo.

-Torniamo a casa, Alexander?- domandò, staccandosi da lui a malincuore.

-Sì, Magnus.- disse il ragazzo, sorridendo, con le lacrime agli occhi. - Torniamo a casa, insieme.-

 

 

Lo Stregatto parla.

Per prima cosa, grazie a chi mi ha seguito dallo scorso capitolo. E grazie per le recensioni. La seconda parte l’ho modificata un po’: all’inizio, pensate, doveva esserci anche il Presidente Miao. Ma poi sarebbe finito schiacciato tra i due e mi sarebbe dispiaciuto. *ride* Beh, aggiungo ancora una cosina e poi vi lascio: mi piacerebbe proporre un piccolo extra dopo questo capitolo, anche se ho detto che ce ne sarebbero stati solo due. A voi piacerebbe?

Fatemelo sapere con un commento, una recensione fa sempre piacere per migliorarsi.

Ps. Grazie ancora a Ombro-chan per i codici, cosa farei senza di lei?

  
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