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Autore: Sheep01    16/05/2014    2 recensioni
Si concentrò sulla schiena solida del fratello. L’unica cosa concreta a dargli un senso di stabilità e calore.
Barney era tutto per lui. Fratello, amico, consigliere, padre e madre assieme. Lui che del padre ricordava solo la voce tonante e l’alito che sapeva di alcool e il peso delle sue percosse. Che della madre ricordava solo il profumo dei suoi capelli e i singhiozzi spezzati, umiliati, nella notte. Il fratello era stato il pilastro della sua vita, l’unico esempio da seguire. Protettore e cavaliere dall’armatura scintillante. Ed ora il suo salvatore.
[A Tribute to Clint Barton]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 12

[Clint Barton]

La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo.

(Blade Runner)

*

 

Coulson non aveva fatto altro che correre per tutto il giorno. Jet, macchina privata, incontri con gli agenti, videoconferenze, scartoffie da redigere. E adesso, in tarda serata, aveva scartato a priori l’idea di andarsene a dormire.

Aveva fame, sonno, mal di schiena e un principio di emicrania che, era sicuro, sarebbe esploso definitivamente di lì a poco, ma gli erano rimaste ancora un paio di cose da fare. Una delle quali non meno importanti di quelle che riguardavano più direttamente il suo disgraziato lavoro.

L’ospedale era silenzioso a quell’ora. Le infermiere si aggiravano pacate da una stanza all’altra, fra lo scalpiccio degli zoccoli e il lamento di qualche paziente.

Un paio di agenti della CIA che passeggiavano per il corridoio gli riservarono sguardi tutt’altro che amichevoli. Gli bastò mostrare il cartellino per avere accesso all’area (ma non per far cessare l’ostilità). Forse era stato il suo sorriso, più di tutti, a mandarli fuori dai gangheri. La sua arma migliore contro la stupidità.

Fu in una delle ultime camere, che Coulson lo vide. Clint era ancora lì. In piedi di fronte al vetro della sala di rianimazione.

Gli avevano detto che non si sarebbe mosso, e così era stato. Caro… vecchio Barton.

Lo raggiunse silenziosamente, timoroso di interrompere quel quadro angosciante.

L’atmosfera pastosa, palpabile.

Capì che lo aveva sentito arrivare, comunque, dal modo in cui l’uomo aveva irrigidito le spalle.

“Clint…” esordì, senza osare affiancarlo. Quello che vedeva riflesso dal vetro della stanza gli era bastato. Ciò che c’era dentro la stanza non gli interessava nemmeno, ma solo perché sapeva cosa ci avrebbe visto. Non uno spettacolo a cui gli interessava assistere. Non quella volta.

“Ehi…” lo sentì rispondere. Il tono di voce roco, esausto. “Quando sei arrivato?” gli domandò senza voltarsi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Non si era nemmeno cambiato.

“Nel primo pomeriggio… Fury mi ha voluto qui il prima possibile.”

Lo vide solo annuire. Poteva avvertire, nitidamente, tutta la fatica che gli costava quel breve scambio di battute.

“Dovresti andare a riposare allora. Domani non sarà un giorno migliore.” Trovò il tempo di suggerirgli.

“Non prima di sapere tu come stai.”

“Oh, io sto… bene.” Coulson sapeva che non era vero, ma non insistette.

“Che dicono i medici?”

“Le solite cose.” Il che poteva solo significare un: grave, ma stabile.

Non se la sentì di aggiungere che sarebbe andato tutto bene. Aveva smesso di farlo da quando aveva imparato che non è così che funziona, la maggior parte delle volte. Non in un lavoro come il loro.

Si domandò solo quali sarebbero state le conseguenze, questa volta, per Clint, anche se aveva già superato situazioni che lo avevano messo alla prova.

Lo aveva addirittura conosciuto in un momento critico della sua esistenza. Lo aveva visto superare quell’ostacolo, andare avanti, rafforzare la sua fragilità, forgiarla, trasformarla. Ma non poteva fare a meno, continuamente, di preoccuparsi per lui. Come se la sua formazione fosse costantemente a un punto di svolta, ma mai priva di quell’aura di autodistruzione sempre latente.

Aveva capito che Clint non era un essere umano semplice: era disposto a mandare all’aria qualsiasi cosa per proteggere le idee in cui credeva. Le persone a cui teneva. A costo di  distruggere se stesso nel tentativo… o come conseguenza del suo fallimento. Come una punizione autoinflitta, totalmente ingiusta.

Non poteva dire che cosa sarebbe successo ora, eppure sapeva, nel profondo, che qualsiasi cosa sarebbe accaduta l’avrebbe superata, rialzandosi, come sempre, in una sorta di straordinaria rinascita.

Coulson sapeva di essere lì solo per aiutarlo a recuperare tutti i pezzi, nell'eventualità di una possibile, fragorosa, inevitabile caduta.

“Hai bisogno di qualcosa?” gli chiese dunque, già conscio della probabile risposta.

Clint sembrò pensarci un po’ su.

“Avresti un po’ di moneta? Volevo prendere un caffè ma… temo di essere a secco.”

“Hai cenato?”

“Non ho fame…”

Su quella frase Coulson gli allungò tutto ciò che aveva con sé. Clint lo raccolse con un muto ringraziamento.

Si lanciarono solo un rapido sguardo. Coulson gli posò una mano sulla spalla, indugiando giusto il tempo di una stretta rassicurante. Un modo per fargli sapere che lui c’era, che ci sarebbe stato.

Gli sembrò di vedere un pallido sorriso increspargli le labbra. Un cenno che gli fece comprendere che aveva capito. Come sempre, del resto.

Quando se ne andò aveva ancora nelle orecchie il rumore delle macchine alle quali era appesa la vita di Barney Barton.

 

*

 

Natasha aveva l’aria stanca. Una notte intera a cercar di rimettere insieme le dinamiche di quanto successo. Un’operazione al limite del miracoloso. Con tanti complimenti di Fury, della Hill e del consiglio tutto che, per quanto gongolavano, non l'avrebbero stupita se si fossero messi a sbrodolare liquami tutt’altro che appassionanti.

Duquesne era sotto torchio da almeno una giornata. Il Dottor Hopper (l’ometto insignificante a bordo dell’auto con Duquesne, al momento della fuga), invece, tenuto in custodia per accertamenti, sballottato da questo a quell’altro ufficio tecnico. Un giochetto che la CIA, anch’essa coinvolta nel caso con un loro agente in copertura da almeno un anno buono (Barney… Barney…), non sembrava aver gradito.

Tutta stupida burocrazia e inganni ai quali Natasha non era affatto interessata.

Aveva bisogno di dormire, recuperare le energie. Le sarebbe bastato così poco. Tornare alla base canadese dello SHIELD, dimenticare l’azione, leccarsi le ferite e crollare sul letto, in un sonno senza sogni di particolare rilevanza.

Non si riusciva dunque a spiegare perché fosse ancora fuori. A quell’ora del mattino, in attesa dell’alba, in un stupida corsia d’ospedale.

Non le piacevano gli ospedali. Non le piacevano i luoghi asettici. Diciamo pure che le facevano schifo. Le facevano venire i brividi? Sì, anche quelli (tanto, chi mai lo sarebbe venuto a scoprire? Natasha non lo avrebbe detto né mostrato ad anima viva). Le ricordavano troppe cose e nessuna di queste particolarmente piacevoli.

E quindi, perché?

Perché quell’attesa, su quegli scomodi sgabelli arancione shocking?

Quell’attesa snervante, lunga, pesante… noiosa. Non aveva con sé nemmeno un libro, nemmeno un laptop, né un mazzo di carte. Non che non avrebbe potuto sottrarne uno dai comodini mal controllati dei pazienti, ma non le sembrò un gesto molto onorevole. Almeno non da quando aveva imparato a capire il significato e il valore della parola.

Stava cercando una caramella, che sapeva affondata nella tasca di quei jeans sgualciti, quando avvertì chiara la presenza di qualcuno che non era infermiere o medico dall’aria condiscendente. Dover raccontare per la miliardesima volta che no, non era lì sola, e che no, non era una ragazzina disadattata, le avrebbe fatto prendere la definitiva decisione di andarsene.

Si rialzò in piedi solo quando fu sicura che fosse la figura di Clint Barton, quella che veniva verso di lei. Stanco, tirato, abbattuto, quasi irriconoscibile nella postura.

Era abituata a percepirlo come una persona solida, massiccia, decisa. Aveva subito una trasformazione inquietante, in una sola giornata.

Quando si fermò nel bel mezzo del corridoio deserto, capì che si era accorto di lei.

Lui non parlò. Natasha fece lo stesso, che cosa avrebbe potuto dirgli comunque? Non si era certo preparata un discorso. Non era nemmeno sicura di essere lì per parlare.

Come interprete dei pensieri altrui avrebbe saputo per certo come esordire. Come fingere, come sedurlo con frasi di circostanza, in una recita che per necessità si era trovata a ripetere a cicli continui... in passato.

Ma come si sarebbe dovuta comportare come essere umano? Che... si preoccupa, per davvero, per un altro essere umano?

Perché era così che si sentiva. Preoccupata? Lo aveva capito solo nel momento in cui aveva formulato la parola, nella sua testa. Per la prima volta un aggettivo che non correva di pari passo con la paura, ma piuttosto con un sentimento che le rendeva difficile l'interazione con una persona che era, solitamente, abituata a gestire in maniera diversa.

Clint Barton la faceva sentire a suo agio. Quell'uomo, fermo in mezzo al corridoio... no.

Le procurava una sensazione strana, alla bocca dello stomaco. E tutto ciò che le era chiaro, in quel trambusto di coscienza, era che non sarebbe comunque riuscita a chiudere occhio, pensandoci.

Eccolo. Ecco chiaro il motivo per cui era lì. Si sentì sollevata di aver sciolto almeno uno dei nodi. Ma non per molto.

“Credevo se ne fossero andati tutti.” Clint la cavò dall'imbarazzo, o qualsiasi cosa la frenasse davvero dal parlare.

Natasha rammentò la menzione di Coulson riguardo una visita all'ospedale, fece immediato il collegamento.

“Io sono appena arrivata”, non riuscì a fare a meno di confessargli. Glissò sul fatto di essere lì da almeno una mezz'ora buona.

“Vi date il cambio? Non ce n'è bisogno... davvero.”

“Nessuno mi ha detto di venire. L'ho fatto di mia iniziativa.”

Clint non ne sembrò sorpreso. Al contrario si frugò nelle tasche, tirando fuori qualche monetina, da cinque centesimi e non. Le contò sulla mano.

“Vuoi un caffè? Io ho bisogno di un caffè...” le offrì e Natasha trovò finalmente il pretesto per avvicinarlo.

Non gli chiese niente. Non ne aveva bisogno. Non ancora almeno. Sentì il rumore delle monetine che finivano giù per la macchinetta del caffè e non si preoccupò di scrutarlo più o meno sfacciatamente. Era pallido e stanco. Ancora un paio d’ore in quelle condizioni e sarebbe crollato al suolo, privo di energie. Ne era sicura. Si immaginava anche la scena. Se non fosse stato così abbattuto, magari ne avrebbe riso, lo avrebbe reso partecipe della visione. Giusto per stuzzicarlo un po'...

“Stai bene?” le domandò lui a sorpresa, risvegliandola dalle sue malsane elucubrazioni.

Si trovò a sbattere le palpebre a più riprese. Non si supponeva fosse lei, quella che avrebbe dovuto esordire con una domanda simile?

“Che vuoi dire?” gli domandò allora, confusa, mentre l'uomo le tendeva quel caffè che continuava a trovare vagamente nauseante. L’aveva costretta a interrompere il contatto visivo.

“Voglio dire: come stai. E' stata... una lunga giornata, quella di ieri.”

Natasha continuava a non capire. Non era lui quello abbattuto? Non era suo fratello Barney che rimaneva aggrappato alla vita grazie ad un respiratore e un marchingegno meccanico pieno di tubi? Nemmeno erano sicuri si sarebbe mai ripreso e, se l'avesse fatto, se non sarebbe comunque stato costretto a vivere come un vegetale per il resto dei suoi giorni.

“Io...” si strinse nelle spalle, per una volta tanto priva di risposte pronte “Io sto bene...”

“Bene. Sei stata... brava.”

Natasha ora aveva semplicemente perso il filo del discorso.

Clint Barton non era una persona che agiva molto secondo logica, ma più d'istinto, questo lo aveva capito dal giorno in cui aveva deciso di risparmiarle la vita, ma adesso che diavolo stava facendo? Deviando l'argomento per evitare domande scomode? Eppure non le sembrava il tipo. Aveva sempre risposto a tutte le sue domande, tutti i suoi quesiti, anche quelli più fastidiosi, complicati. Un libro aperto. Almeno fino a quel momento. (Il dolore a volte ti rende irriconoscibile. Una regola che non cambiava in quel contesto.)

Forse stava solo cercando di dissimulare. O di farla sentire a suo agio, come sempre. Per proteggerla da quell’individuo cupo e teso che evidentemente nemmeno lui amava. Gli altri sempre al di sopra di se stesso. Tutto ciò che lei non era mai stata.

Clint aveva troppo… cuore. (Eccolo! Ecco l’aggettivo giusto!) Si chiese come avesse fatto a sopravvivere in quell’ambiente fino a quel momento. Non lo avrebbe forse mai capito. Ma si scoprì curiosa di volerci almeno provare.

“Ho fatto solo il mio lavoro.”

“Lo hai fatto bene. Lo SHIELD non avrà più niente da ridire. È probabile che non avrai nemmeno più bisogno... della mia supervisione.”

La ragazza non seppe come prendere quella considerazione.

“Stai cercando di liberarti di me?” Non era riuscita a frenarsi, un principio d’ingiustificata ansia nella domanda, scontrosa nell’esecuzione.

Clint per la prima volta le rivolse uno sguardo stupito.

“No... io non... no.” si affrettò a smentire “Stavo solo cercando di dire che... insomma, immagino tu ti sia guadagnata la fiducia dell'organizzazione. Non sto cercando di... liquidarti. Era solo uno stupido modo per dirti che hai fatto dei progressi. Che ne sono… felice.” la confusione di Clint le sembrò così sincera che la cosa la lanciò ancora più nel caos.

“Non voglio liberarmi di te... no... non voglio... mai liberarmi di nessuno... però succede, no? Succede spesso. Uno si prepara... all'eventualità.”

Natasha intravide un barlume di consapevolezza in tutta quella danza di parole. E per un attimo Clint Barton le sembrò improvvisamente fragile. Fragile come non se lo sarebbe mai aspettato. Fragile come qualsiasi altro essere umano.

Non provò pena per lui, solo una sorta di incomprensibile solidarietà, di inspiegabile empatia.

Odiava il modo in cui la faceva sentire a volte. Altre, invece, ne era solo… totalmente, disgustosamente… affascinata.

“Ed io ho commesso l'errore di non prepararmi all'eventualità di quanto fosse schifoso questo caffè canadese.” dichiarò, cercando di tornare a provare quella familiarità che la metteva a suo agio. Doveva provarci. Per se stessa... e per... Clint Barton.

“Fa schifo?”

“Più dei tuoi intrugli, incredibile.” gli porse di nuovo il bicchiere, per un test: “Perché non proviamo quello della caffetteria, qui sotto? È aperta. Offro io. Mi hanno dato la paghetta.”

Clint le lanciò uno sguardo teso.

“Non lo so se...”

“Quando tornerai qui non sarà cambiato niente.” brutale come risposta, ma sincera e priva di inutile sentimentalismo da quattro soldi.

Lo sentì sospirare e prendere una decisione: il bicchiere di orribile caffè finì direttamente nel cestino.

“Ce li hai i soldi anche per un muffin al cioccolato?”

“Ce li ho per un’intera torta… di cioccolato.”

“Se non ti darai una regolata diventerai una cicciona americana.”

“Oh bè, almeno non ti sentirai solo.”

Nessuno se ne sarebbe mai accorto, ma Natasha, in tutta quella confusione, una confusione in cui solo quell’uomo sembrava essere in grado di spingerla, si scoprì, per la prima volta, semplicemente orgogliosa… di averlo fatto ridere.

 

*

 

E adesso cosa cazzo si sarebbero inventati? Sporchi, pidocchiosi ingannatori dei servizi segreti. Duquesne aveva lottato una vita per tenerli alla larga ed era bastata una distrazione a mandare tutto a puttane.

Per non parlare di quel ritorno al passato affatto richiesto. I fratelli Barton, ancora una volta a finirgli fra i piedi, ancora una volta a mettergli i bastoni fra le ruote. A sconvolgere la sua… vita.

Quando si era trovato Barney di fronte non aveva voluto crederci. O meglio… all’inizio non lo aveva nemmeno riconosciuto e poi, solo poi non aveva voluto crederci.

Mai fidarsi delle persone dai capelli rossi. Lo aveva sempre sostenuto.

Era venuto da lui con una proposta tanto allettante quanto sospetta. Aveva lavorato per loro, per settimane, con costanza e serietà… con lo pseudonimo di Antonio Brullarelli, Barranelli, Bubbanelli, un nome italiano. Un nome italiano… del cazzo! E lui, in tutto quel tempo, non lo aveva riconosciuto! Aveva decisamente perso il suo savoir-faire (come se mai ne avesse avuto uno, poi).

Quando aveva scoperto (più che altro chi per lui, aveva scoperto) che si trattava di uno stracazzo di agente sotto copertura della super stracazzo di CIA, solo allora aveva fatto un collegamento. Tanto inquietante, quanto allettante. Si sarebbe preso qualche piccola rivincita. Aveva fatto pestare a sangue quel fantasma del Natale passato e poi lo aveva interrogato a morte! Bè, quasi a morte. A mezzo vivo. A mezzo morto.

Barney Barton era cresciuto. Eccome se era cresciuto. E si era probabilmente fatto anche ricco. Si era chiesto se in questo fosse riuscito anche il fratellino impiccione. E bè, si era riscoperto quasi sollevato nel saperlo vivo. Quasi.

Nel senso… non che gliene fosse mai fregato veramente qualcosa dei… fratelli Barton.

Ah, ma chi voleva darla a bere? Aveva insegnato loro tutto. Tutto! E quello che ne aveva ricevuto era stata solo ingratitudine. Ingratitudine che si era anche concretizzata con una soffiata ai suoi danni, quando il suo solo scopo era quello di levarsi dai coglioni da quel circo di ingrati e rifarsi una vita.

Cosa che poi, tecnicamente, aveva fatto. Ancora sulla coscienza però l’essersi lasciato alle spalle un ragazzino pugnalato a morte. A mezza… morte.

Quel gran figlio di puttana di Clint non solo non era schiattato in quel (stracazzo di) circo, ma era persino tornato, come aveva fatto il fratello, per metterlo di nuovo nei guai.

E stavolta ben più grossi. Perché c’erano in ballo tutte queste organizzazioni segrete che se lo stavano contendendo come non ci fosse un domani.

E forse nemmeno ci sarebbe stato, un domani, se avessero continuato a tenerlo a digiuno.

Sì, doveva ammettere di essere incazzato. E affamato. E un tantino demoralizzato. Forse, soprattutto, per la mancanza di alcool.

Aveva anche provato a chiederne, dopo aver spiegato per la milionesima volta a quell’agente tarchiato, che lui conosceva solo parte del piano messo in piedi dalla sua organizzazione criminale. Che non era che un burattino anche lui, nelle mani del… fato. (Senti l'enfasi?)

Ma non sembravano propensi a credergli. Ma proprio per niente.

E quindi… era ancora seduto lì a chiedersi quanto ci avrebbero messo le manette a lacerargli la pelle e senza una goccia d'alcool in corpo a dargli sollievo.

Rialzò la testa solo quando la porta di quello stanzino luccicante si aprì. Di nuovo.

(DUQUESNE!)

Il grido gli aleggiò di nuovo nel cervello, terrorizzandolo, quando si scoprì di avere di fronte niente popò di meno che… provate a dirlo voi? Sì, lo stracazzo di Clint Barton!

Non riuscì a spiccicar parola. La lingua sembrava essersi incollata al palato.

Forse avrebbe dovuto mettere insieme un paio di scuse. Magari ci sarebbe cascato, in nome dei bei vecchi tempi.

Clint non fece altro che allontanare la sedia, metterglisi seduto di fronte e fissarlo.

Con una faccia seria. Ma così seria... e spaventosa.

Crescere non gli aveva fatto granché bene.

O forse non gli aveva fatto bene vedere lui, nello specifico.

Decisamente quello.

“Chi non muore si rivede…” esordì, e si complimentò persino con se stesso per la sagacia, il brillante senso dell’umorismo. Accennò anche una risata, prima di rendersi conto che Clint non sembrava colpito.

La stessa identica freddezza. Gli stessi occhi di duro granito.

Un po’ come la sua faccia.

Granito puro.

“Non ho niente da dire a te, più di quanto non abbia già fatto con i tuoi colleghi.” Dichiarò. Non gli sembrò il caso di specificare che avrebbe preteso il suo avvocato.

“Nemmeno uno straccio di scuse?” la voce di Clint giunse inaspettata.

Si irrigidì tutto, Duquesne. E cercò di darsi una parvenza di sdegnosa dignità.

“Scuse? Sei venuto qui solo per sentire… delle scuse?” gli venne quasi da ridere. E pensare che era sicuro gli avrebbero mandato qualche macellaio, pronto a farlo parlare a suon di sberle.

“Che altro?” gli rispose. “Considerato il fatto che Hopper ha già dato informazioni sufficienti per incastrare te e la tua intera organizzazione, abbiamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno.”

“Stronzate.” Gli sputò in faccia Duquesne, cercando di mitigare il panico. Hopper? Quello stronzo non era morto nello schianto con la macchina? Lo aveva visto lui (personalmente!) il sangue, tutto spetasciato sul cruscotto.

“Stronzate che però ti spediranno dritto dritto verso il carcere… a vita.”

Tremava, Duquesne, adesso. Tremava tutto. Di rabbia, di paura… di pressione bassa.

“Ed era esattamente quello che volevi, no? Volevi vedermi in carcere dal giorno in cui mi hai visto prendere i soldi da Carson! Volevi vedermi sul lastrico, volevi vedermi morto da allora!” la vena quasi pulsava nella sua gola. Sentiva l’astinenza e la fame abbatterlo come un rinoceronte africano dai contrabbandieri.

“Semmai il contrario…” dichiarò Clint. Lo sguardo non meno tremendo di prima, ma mitigato da qualcosa di lontano, un tono mesto che, fra i fumi dell’astinenza, sarebbe stato difficile, per lui, da capire.

“Cos-?” Lo vide alzarsi in piedi. Di nuovo. Duquesne solo confuso da quel breve ed enigmatico dialogo: “Che cazzo vuol dire?!” gli gridò dietro.

Clint si fermò solo un istante. Evidentemente indeciso se rispondergli o meno.

“Che non hai mai capito un cazzo di me, Jacques.”

Non sapeva però quanto si sbagliava. Duquesne aveva capito. Aveva capito tutto così nitidamente, nel momento in cui Clint aveva aperto la porta per uscire da quella luccicante stanza degli interrogatori.

Aveva capito che Clint era venuto lì, con quella sua faccia tremenda, solo a ricordargli atrocemente cosa avrebbe potuto avere… e tutto quello che invece si era lasciato scappare.

Aveva capito che Clint era uno stronzo, pezzo di merda, vendicativo, del cazzo, perché gli aveva sbattuto in faccia - a conti fatti, e in chiusura di storia - che una volta, tanto tempo fa, sullo sfondo di una stracazzo di atmosfera circense e giorni felici… gli aveva voluto bene.

 

*

 

Il bip bip, era diventato veramente fastidioso.

Aveva freddo. Freddo e… si sentiva gelare le palle. Inspirò a fondo e aprì gli occhi.

Il soffitto bianco e il mal di gola. Due delle cose più tangibili che riuscì a focalizzare.

Si sentiva… come… dopo uno dei trattamenti specialissimi di suo padre.

Perché gli era venuto da pensare a lui? Dopo così tanto tempo. Ma quanto... tempo?

Una mano si posò sulla sua spalla. Voltò appena il capo.

E, d'improvviso, tutto gli tornò alla mente, confuso ma…

Duquesne. La copertura. Clint. Clint e la rossa nella sua cella. La fuga. La fuga e… Duquesne. E poi il buio.

Doveva essere stata una giornata memorabile. E lui se l’era persa.

Ma quello al suo fianco era Clint. E Clint lo stava guardando. E forse stava... piangendo? Non era morto, no? Perché cavolo doveva mettersi a piangere, quel cretino?

Non lo aveva ancora capito, quello scemo, che lui avrebbe dovuto metterci il doppio dello sforzo per impedire a se stesso di crollare nello stesso modo? Era o non era lui il suo… fratello maggiore? Doveva essere superiore a queste cose. Dimostrargli maturità e protezione.

Protezione che però, al momento, non si sentiva granché in grado di dare.

Forse era il caso di passare il testimone. Per un po’… solo per un po’…

Richiuse gli occhi, ancora troppo debole, troppo stanco. La presa di Clint ancora salda sul suo braccio.

Stava gridando qualcosa all’infermiera ma…

In fin dei conti, pensò, si sentiva finalmente al sicuro.

 

___

N.d.A: Potevo davvero far del male a Barney? Nope. Ormai gli sono affezionata quanto a Clint… e tutti gli altri. Che dire se non ringraziare, al solito, tutti quanti leggano e la mia cara beta.

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