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Autore: Sheep01    19/05/2014    2 recensioni
Si concentrò sulla schiena solida del fratello. L’unica cosa concreta a dargli un senso di stabilità e calore.
Barney era tutto per lui. Fratello, amico, consigliere, padre e madre assieme. Lui che del padre ricordava solo la voce tonante e l’alito che sapeva di alcool e il peso delle sue percosse. Che della madre ricordava solo il profumo dei suoi capelli e i singhiozzi spezzati, umiliati, nella notte. Il fratello era stato il pilastro della sua vita, l’unico esempio da seguire. Protettore e cavaliere dall’armatura scintillante. Ed ora il suo salvatore.
[A Tribute to Clint Barton]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 13

 

[RedHeads & Lucky]

 

Senta, io non me ne intendo, ma ho un'idea per una delle vostre pubblicità. Si potrebbe mostrare una falegname che fabbrica una bella sedia e poi uno dei vostri robot arriva e fa una sedia migliore in metà del tempo. E mettete una grande scritta sullo schermo: "U.S.R.: l'uomo medio fa cagar". E qui c'è una dissolvenza.

(Io, Robot)

 

*

 

La casa di Clint Barton non era mai stata così affollata (se non si prendeva in considerazione quella volta che un gruppo di poliziotti aveva fatto irruzione nel suo appartamento, perché il vicino aveva organizzato un mezzo rave notturno nell’appartamento di fianco).

Aveva dovuto spiegar loro che i party, di solito, coinvolgono più di una sola persona. E con qualcosa di più che un pacchetto di M&M’s e una birra (rigorosamente) in bottiglia. Si erano scusati ed erano andati a bussare al giovane, intraprendente vicino di casa.

Clint era tornato a Casablanca, – il film, eh – su suggerimento di Coulson. La delusione nel non trovare la celebre citazione “Suonala ancora Sam” così come l’aveva sempre saputa, era stata grande, più di quella per la visita dei poliziotti.

 

Una testa rossa al tavolo della cucina era già una graziosa novità. Due teste rosse, sedute una di fronte all’altra erano quasi uno sconvolgimento globale dei suoi ritmi di vita.

E no, non si trattava di due gemelle particolarmente sfiziose che erano finite lì per spassarsela un po’.

Barney Barton leggeva il giornale del mattino.

Natasha Romanoff, digitava furiosamente sui tasti del suo laptop.

“Hai una connessione schifosa.” Commentò quest’ultima, allungando una mano sulla sua tazza di tè. Clint aveva dovuto frugare a lungo nella credenza per trovarne una che riportasse una lettera N. Lei non sembrava aver apprezzato adeguatamente la premura.

“Non è colpa mia”, le rispose Clint defraudato della sua postazione mattutina, seduto a terra, di fronte al divano, una marea di frecce sparpagliate ai suoi piedi, “E poi c’è sempre la biblioteca.”

“La biblioteca mi deconcentra.”

Clint fu certo di aver visto Barney donarle una lunga, ambigua occhiata da sopra il giornale. E si trovò solidale con lui, nel pensare che Natasha era bella proprio perché totalmente diversa da tutto ciò che suggerivano le convenzioni.

Lo vide ripiegare il giornale in modo quasi maniacale e provare a rimettersi in piedi dallo sgabello.

Clint scattò in piedi, quasi franando sul disastro di armi improprie, per aiutarlo.

 

Barney era uscito dall’ospedale da qualche settimana. Aveva deciso di non tornare immediatamente a Washington, dove viveva abitualmente, ma piuttosto, su suggerimento di Clint, di fermarsi un po’ da lui a New York. Si erano guadagnati entrambi una lunga vacanza, forzata o meno.

Barney trovava snervante il periodo di convalescenza. Non si era ripreso del tutto: faceva ancora fatica a camminare. Ma Clint sembrava così felice di prendersi cura di lui che non si era mai lamentato troppo delle sue condizioni, per non dispiacergli.

Natasha aveva preso a frequentare il suo appartamento per ragioni più pratiche. Lo stabile in cui abitava aveva bisogno di ristrutturazioni e lei si era semplicemente rifiutata di accettare un alloggio allo SHIELD Center. Clint aveva pensato bene di darle ospitalità. In barba alla folla.

Lei, dopo mille titubanze, aveva accettato. E occupato malvolentieri il letto (se non dopo miliardi di snervanti, ostinate trattative) di Clint che si era sistemato sul divano. Con tanti ringraziamenti della sua schiena.

 

“Lascia, Clint, ce la faccio.” Lo redarguì Barney con uno sguardo frustrato.

“Sono qui a non fare niente.”

“Non è vero, stai sistemando quelle frecciute diavolerie d’assalto… io devo solo andare a pisciare… ce la faccio”, poi guardando Natasha “Pardon.”

La ragazza si strinse nelle spalle come a dire: sono abituata a cose peggiori.

Clint lo lasciò andare, ma non senza restar fermo a seguirlo con lo sguardo finché non aveva raggiunto il bagno.

“Non è un ragazzino, lo sai…” Natasha gli fece notare.

“Ha avuto un incidente.”

“Il mese scorso.” Tutto questo senza mai alzare lo sguardo dallo schermo del pc.

“Mi preoccuperei così per chiunque.”

“Spero di non dover mai affrontare una convalescenza, allora”.

“Ah ah… ti perderesti tutte le mie premurose attenzioni.”

“Dio me ne scampi.” E nel dirlo aveva di nuovo afferrato la tazza, rigirandola affinché lui vedesse la famosa lettera N.

Ah. Allora se ne era accorta.

Tornò alla sua postazione, recuperò lo straccio con cui stava meticolosamente lucidando arco e frecce. Un po’ di manutenzione, in vista di una prossima missione, in attesa del giorno in cui si sarebbero decisi a affidargliene un’altra. Allo SHIELD dovevano aver deciso che, visti i successi della scorsa operazione, fosse una grossa ricompensa per la squadra, quella di spedire tutti in vacanza.

Il problema stava nel fatto che, al contrario di Grady & co., che se ne erano andati a scontare il premio in qualche isolotto sperduto dei Caraibi, lui e Natasha erano rimasti a New York, a godersi un’insolita quotidianità.

Clint aveva, in qualche modo, riscoperto il significato della parola casa.

Si era reso conto che non si trattava esattamente di un luogo fisico. Più un concetto che aveva a che fare con una situazione o un gruppo di individui.

Casa era il posto in cui ti ritrovi a condividere qualcosa, con le persone a cui sei più legato.

E in quel momento si sentiva esattamente così.

A casa.

Sorrise appena alla constatazione, mentre Natasha commentava qualcosa di appena scovato in rete.

“Certo che quel Tony Stark ha veramente la faccia da fanatico.”

“Chi?” le domandò Clint con aria assorta, mente l’impronta di quella ditata non aveva proprio intenzione di venir via dal suo arco.

“Stark. Quello delle Stark Industries. L’uomo più ricco di New York?”

“Non era Rockefeller, quello più ricco di New York?”

Natasha si astenne dal commentare.

“Che ha fatto?”

“Niente. Parlavano di un suo party, degenerato, da qualche parte…”

“Da quando in qua ti interessi di gossip?”

“Io mi interesso di tutto.”

“Tranne che di cinema.”

“Chi ha parlato di cinema?” Barney era appena uscito dal bagno e si stava ancora allacciando la patta dei pantaloni.

Clint gli lanciò uno sguardo d’ammonimento. D’accordo che la Vedova Nera non era il tipo da sconvolgersi facilmente, ma…

“Natasha parlava di cinema” gli confermò.

“Non è vero.” Negò lei.

“Natasha vuole andare al cinema?” Barney.

“Non voglio andare al cinema.” Natasha aveva finalmente abbandonato il laptop e li osservava infastidita.

“Davvero”, ribadì Clint. “Ha chiesto a noi di scegliere, ha detto che le va bene qualsiasi cosa.”

“Non ho mai detto di voler andare al cinema.”

“Ottimo. Fantascienza?”

“Ovviamente.”

“Cerco sul giornale.”

“Ehi, voi due…”

Io, Robot. Will Smith, un classico.”

“Ci sto.”

“Io no.”

“Anche Natasha è d’accordo, perfetto!”

“Pranzo fuori e primo spettacolo del pomeriggio?”

“Vado a mettere le scarpe.”

“Ed io i pantaloni.”

Natasha, ancora seduta sullo sgabello li guardò schizzare dalle parti opposte dell’appartamento.

“Dannati fratelli Barton.”

 

*

 

“Certo che se proprio vogliamo trovare un difetto al film… non c’entra proprio niente con il libro.”

“E quando mai lo fa? Sempre meglio il libro.”

“Will Smith sotto la doccia, però…”

“Natasha?”

“Cosa?”

Clint stava tenendo aperta la porta del cinema per permettere a Barney di uscire. Natasha, a seguire, gli scoccò uno sguardo innocente.

“Non ti è piaciuto.” Constatò Clint.

“Invece sì.”

“Hai commentato solo di Will Smith sotto la doccia.”

“Ogni donna dotata di ormoni, commenterebbe Will Smith sotto la doccia.”

“Su questo ha ragione.” Confermò Barney.

“Ma che ne sai tu?”

“Ho notato anche io Will Smith sotto la doccia.”

Clint alzò le mani in segno di resa.

Barney diede una gomitata a Natasha che sorrise. Clint si limitò a scuotere la testa: non avevano fatto altro che chiacchierare per tutto il tempo, al cinema. Lui, che voleva vedere veramente il film.

Natasha non era una di quelle persone che dialogava volentieri con gli sconosciuti, ma era anche vero che Barney sarebbe stato capace di far parlare pure i sassi. Nel letto di un fiume. In piena.

Li guardò procedere fianco a fianco per qualche metro, considerando che nella visione d’insieme avrebbero potuto sembrare padre e figlia.

Non seppe perché, ma la considerazione lo tranquillizzò.

Fece giusto qualche passo per raggiungerli che qualcosa gli schizzò di fronte con una rapidità sconcertante.

“Fermate quel cane!” gridava un uomo alle sue spalle, mentre la saetta dorata di quello che sembrava un giovane Labrador si andava a imbucare in un vicolo adiacente. Un vicolo apparentemente chiuso.

Natasha fu la prima a muoversi.

“Che cavolo le ha fatto quel cane?” domandò Barney mentre l’uomo che aveva gridato, brandiva un bastone lungo almeno quanto lui.

“Quell’ammasso di pulci ha rubato della carne nel mio negozio!”

Clint lo squadrò per bene: il camice sporco di sangue, l’arma impropria fra le mani, lo facevano sembrare più un serial killer, che… un (ipotizzabile) macellaio.

“E che cosa crede di ottenere da un cane randagio?” gli aveva domandato. Se sperava gli lasciasse mettere le mani (il bastone) su un povero cane, si sbagliava di grosso.

“Non è randagio per niente, è il mio cane!”

Clint considerò che l’impressione generale era che, quel macellaio, tutto volesse fare che solamente recuperare il suo cane. Già quell’espressione di violento possesso, gli sembrava del tutto sbagliata.

“Ripeto: e che cosa spera di ottenere bastonandolo?”

“Un po’ di disciplina!” beccato.

“Disciplina? In un cane? E’ per caso un addestratore?”

“No… ma…”

“E allora forse è meglio se mette via quel bastone.”

“Figuriamoci! Il cane è mio, faccio quel cazzo che mi pare.”

“Non secondo le leggi sul maltrattamento degli animali.”

L’uomo rise, una risata grassa e discontinua.

“E chi dovreste essere voi? Avvocati delle cause perse?”

“Agente Barton dello SHIELD.”

“Agente Barton della CIA”. Entrambi misero in mostra i rispettivi, scintillanti cartellini.

Il macellaio sbiancò. E il bastone gli cadde dalle mani.

“S-sapete che vi dico? P-potete anche tenervelo quel cane.”

“In quel caso si tratterebbe di abbandono. Sono sicuro anche quello sia da considerarsi reato.”

“Ehi! Ragazzi!” Natasha, dal vicolo.

I due fratelli nemmeno fecero in tempo a voltarsi che il macellaio prese a correre nella direzione opposta con una comica furia.

“Bella mossa.”

Entrambi considerarono che, probabilmente, avevano solo fatto un favore a quel povero cane. Una denuncia per maltrattamento però, al tizio, non gliel'avrebbe risparmiata nessuno. Dopotutto, quanti macellai potevano trovarsi a Brooklyn, in quel particolare segmento di quartiere?

Il cane era acquattato accanto alla cinta che impediva di proseguire nel vicolo. Fra un cassonetto e un divano smesso.

Una scena piuttosto patetica.

“Non vuole uscire.” Li mise al corrente Natasha che lo osservava ora a debita distanza.

Clint prese l’iniziativa.

“Ehi bello…” lo richiamò accovacciandosi appena sulle punte dei piedi, sbirciandolo nella penombra. Il cane ringhiava appena, ma la fioca luce che gli illuminava gli occhi, rivelò solo paura.

Clint valutò la situazione e poi recuperò dalla tasca posteriore dei jeans quello che restava di un pacchetto di patatine. La carta scrocchiò un istante, mentre le patatine cadevano a pioggia sull’asfalto.

“Hai fame? Scommetto che il tuo padrone nemmeno ti ha fatto gustare un po’ di quella carne che hai rubato.” Gli sorrise istintivamente, sebbene sapesse perfettamente che gli animali non hanno alcuna percezione delle espressioni umane. Ricordò un insegnamento di un vecchio addestratore di scimmie, al circo. Mai mostrare i denti. La maggior parte degli animali lo interpreta come un segno di ostilità.

E non lo fece. Rimase però in paziente attesa. Si rimise in piedi arretrando di qualche passo mentre Barney e Natasha osservavano la scena sullo sfondo.

Passò un minuto buono, prima che il cane decidesse di uscire dal suo nascondiglio.

Clint fece una smorfia, quando si rese conto che zoppicava. Quello stronzo doveva essere riuscito a colpirlo, almeno una volta. Una di troppo.

Gli ricordò tristemente giorni passati di percosse infantili. Era da tanto che no pensava a suo padre. Perciò decise di scacciare altrettanto rapidamente il ricordo.

Il cane li guardò titubante, prima di chinarsi sulle patatine e lapparne via una alla volta dall’asfalto.

“Non ti sembra il cane dei nostri vicini in Iowa?” domandò Clint al fratello, intrecciando le braccia al petto, soddisfatto del discreto successo della sua impresa.

“Avevano un San Bernardo, Clint.”

“Ah. Vabbè, era comunque un cane. Com’è che si chiamava? Odino?”

“Thor.”

“Vabbè, sempre di divinità celtiche parliamo.”

“Norrene”, aveva aggiunto Natasha.

“Voi due oggi vi siete messi d’accordo?” si rivolse poi al cane che aveva finito ed ora li osservava speranzoso in qualche altro extra: “E tu com’è che ti chiami?”

Il cane si leccò i baffi, reclinò il testone di lato e abbaiò una sola volta: “Woff.”

 

*

 

Fu così che la famiglia Barton guadagnò un elemento.

Il cane non aveva medagliette. Non aveva tatuaggio. Era come se non esistesse per l’anagrafe canina. Il macellaio non doveva averlo da molto. Il veterinario, controllando la zampa malconcia (una slogatura che non necessitava di particolari cure, se non il riposo) e i denti, decretò che avrebbe potuto avere dai dieci mesi all’anno d’età.

Un cucciolo, praticamente. Non era un Labrador, come avevano pensato, bensì un meticcio.


“I meticci vivono più a lungo, Clint, lo sapevi?”

“Dei super cani.”

“Per dei super agenti speciali.”

“Voi due…”

 

Lo avevano chiamato Lucky. Un nome banale ma efficace. Se non altro un nome che Clint non avrebbe avuto difficoltà a ricordare. Nessuna divinità norrena dei suoi stivali.

Era sdraiato sul pavimento del salotto, satollo ed assonnato. Di tanto in tanto sbirciava i Barton seduti sul divano a guardare qualche rumoroso match televisivo e la ragazza dai capelli rossi, raggomitolata sulla poltrona, le labbra appena dischiuse, crollata dopo la lunga giornata d’azione.

“Mi sentirò meno in colpa a ripartire per Washington.” aveva commentato Barney, raccogliendo un'altra birra.

Clint si era voltato a guardarlo. Come se la notizia arrivasse del tutto inaspettata.

Si rilassò solo dopo averla assorbita per bene e averla annaffiata con una sorsata di birra fresca.

“Non sono nemmeno sicuro che lo terrò.” gli disse Clint.

“Perché no? Sembra così tranquillo. Magari, ecco, chiudi a chiave il frigorifero.”

“Non è per quello”, rispose. “Quasi non riesco a badare a me stesso, figuriamoci a un cane.”

Lucky dalla sua postazione alzò la testa, quasi avesse capito che stavano parlando di lui.

“A me invece pare che tu te la stia cavando alla grande.”

“Come no?”

“Smettila di sottovalutarti, vuoi?” gli tirò una gomitata.

“Ahia.” Clint si massaggiò con forzata veemenza il fianco colpito.

“E poi non parlavo solo del cane.”

Clint dovette fare un piccolo sforzo per capire a cosa si riferisse, poi comprese dove lo sguardo del fratello andasse a parare. Natasha apparentemente dormiva ancora.

“Non sono più il suo supervisore.”

“Lo sei mai stato? Ero convinto fosse il contrario.”

“Ah ah ah.”

“Non sto scherzando. Sono contento di sapere che qui c'è un sacco di gente che tiene a te.”

Clint si accigliò per un momento.

“Lo sai che non mi piace quando cominci a fare il sentimentale?”

“Lo so. Per quello lo faccio. Adoro vedere i tuoi occhioni grigi lagrimare d'amore.”

Clint gli sganciò un pugno sulla spalla.

“Ma vaffanculo.”

“Cazzo, questo faceva male!”

“Smidollato.”

“Sono ancora convalescente.”

Clint gliene mollò un altro.

Barney glielo restituì.

Il cane prese ad abbaiare.

Natasha aprì un occhio e poi un altro. Si rimise seduta e si stiracchiò.

“Meno male che dovrei essere io, la ragazzina.” commentò, mettendo momentaneamente fine alla diatriba. “Me ne vado a letto, così potete massacrarvi in santa pace.”

La videro sbadigliare e richiamare a sé il cane che la seguì senza fare mezza grinza.

 

*

 

Passò un'altra settimana prima che Barney decidesse davvero di tornare a... casa.

Persino Natasha si era offerta di accompagnarlo all'aeroporto.

Un rapido saluto, una promessa di risentirsi.

 

“Se devi partire per una missione segreta... mandami almeno un messaggio criptato.”

“Temo che non ci sarà nessuna missione segreta, per un po'.”

 

Un abbraccio frettoloso. Uno meno frettoloso a Natasha. Clint era convinto di averlo visto bisbigliare qualcosa al suo orecchio, prima di lasciarla andare.

Non si interrogò troppo a fondo. Era solo contento di veder Natasha interagire con altri esseri umani che non fossero colleghi dello SHIELD.

Avevano deciso di aspettare il decollo dell'aereo di Barney dal belvedere dell'aeroporto.

A Clint piacevano le altezze, non ne aveva mai fatto segreto.

“Che ti ha detto Barney?” non riuscì proprio a impedirsi di chiederle. In barba a tutti i propositi buonisti e accondiscendenti.

“Di farti i fatti tuoi.”

Clint scosse la testa rilasciò una mezza risata. Che altro si aspettava rispondesse?

Tornò attento solo quando l'areo di Barney cominciò a correre sulla pista, perdendosi verso l'orizzonte e poi alzarsi in volo, verso il cielo.

Lo avrebbe chiamato non appena fosse stato certo che era atterrato. Nessuna proroga. Non più.

“Cazzo...”

Natasha si volse a guardarlo, inquieta.

“Cosa?”

“Ho lasciato la spesa sul tavolo della cucina!”

“Oh.”

Lucky.

Casa era il posto in cui ti ritrovi a condividere qualcosa, anche con gli animali... affamati... a cui sei più legato.

 

___

 

N.d.A: Lucky esiste davvero. Nel senso, mi sembrava doveroso specificare che, nei fumetti di Occhio di Falco, le modalità in cui è avvenuto l'incontro sono diverse. E’ stato molto più cruento e commovente. Detto ciò, io il cane ce lo dovevo mettere. E dunque eccolo qui.

Capitolo leggero. Per prendere un po’ di respiro.

Ringrazio tutti. La Sere e… alla prossima!

  
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