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Autore: Francine    21/05/2014    7 recensioni
Frammenti di vita quotidiana, sparsi nello spazio e nel tempo, all'ombra del Grande Tempio di Athena.
(Personaggi serie classica e Lost Canvas)
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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#11 Tra le fronde dei limoni





 
 
Prompt: Giardino
Titolo: Tra le fronde dei limoni
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Saori Kido, Gemini Kanon, Scorpio Milo, Siren Sorrento, Julian Solo
Genere:  Malinconico
Rating: Verde
Avvertimenti:  Piazzabile da qualche parte tra la saga di Poseidone e quella di Hades
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2116/5
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):  Ci sentiamo a fine racconto, stavolta.
Partecipa alla Challenge Slice of Life
 




 
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

(Eugenio Montale, I Limoni, «Ossi di Seppia», 1925)
 


«La vedi quella stradina che si arrampica per la salita? Quella che porta all’Acropoli? Bene. Prendila, prosegui fino a quando non vedrai le inferriate marroni della Passeggiata. Ti troverai il Kallistê sulla destra. Non puoi sbagliare: c’è un pergolato che si affaccia sui budelli di Plaka, i tavoli sempre apparecchiati e Carbone, un grosso gatto nero che dorme sulle cassette di plastica, o tra i limoni. Li coglie Kostas, sai? L’albero che sorge ad un lato del giardino l’ha piantato suo padre quand’è nato lui, ma il pover’uomo non ha fatto in tempo a vederlo crescere. Eh, la guerra è brutta, sai, ragazzo? Ma a te non importa di tutto questo, scommetto. Vai, vai pure. Al Kallistê si arriva in meno di dieci minuti. Assapora il fresco della primavera. Goditi l’ombra. E se vuoi un gelato, ti consiglio di prenderlo lì, al bar di Petros, alla base della salita. Ma ti sconsiglio di andare al Kallistê, oggi. È chiuso. Pare che abbiano riservato tutto il locale, dentro e fuori. Una festa, o che so io. Roba grossa, se è arrivato pure il nipote di Kostas, con la fidanzata e un paio di amici. Forse ha deciso di mettere la testa a posto. Forse è il suo amico che ha deciso di mettere la testa a posto. Valli a capire, i giovani d’oggi. Prima convivono, poi si sposano… Come hai detto che ti chiami, ragazzo?»
«Julian.»
 

Phi stende con le mani una tovaglia immacolata, vi posa sopra un vaso azzurro carico con un paio di rose candide e ammira il risultato del proprio lavoro, con espressione soddisfatta. «Ho un futuro. Ammettilo.»
«Se è uno scherzo, è di pessimo gusto.»
«Quale scherzo?»
Lui la guarda come se le fosse spuntata un’altra testa, il Cosmo in subbuglio come una pentola di latte che sta per generare della panna.
«Ti rendi conto di quello che sta per succedere?»
Phi sospira. Non alza gli occhi al cielo, né si mette le mani sui fianchi. Solo, sospira. «Kanon…»
«No. Niente Kanon, per favore. Non con quel tono», sibila lui, gli occhi che hanno assunto un colore metallico e irreale. «Doveva essere un pomeriggio di shopping a Kolonaki.» Indica la montagna di pacchetti che hanno preso possesso di un tavolo, accanto alla porta delle cucine. «Non era previsto questo
«Uh, quante storie per un caffè…»
«Tu non ti rendi conto…»
«No, tesoro. Tu non ti rendi conto.» Phi recupera la borsa da una sedia accanto al registratore di cassa. «Sei un gran bel ragazzo, ma non sei il centro del mondo.»
«E chi sarebbe il centro del mondo, allora? Il cameriere?», la provoca, indicando con un cenno del mento Milo. È fuori, con un vassoio tra le mani, intento a spiegare ad Athena come si prepara il caffè alla greca.
«Non dovrebbe essere Athena?», lo rintuzza lei, con un lampo pericoloso di rossetto rosa acceso.
«È una pazzia…»
«Senti. Andrà tutto bene.»
«Stiamo parlando di Poseidone…», insiste.
«Che Athena ha sigillato nell’urna. Anni fa.» Gli si avvicina, rassicurante, ma decisa al tempo stesso. Indossa la giacca e poi sistema la borsa sulla spalla destra. «Senti. Tu sei qui. Milo è qui. Lo credi tanto scemo da tentare una mossa falsa in campo nemico? Che deve succedere, me lo spieghi?»
«Non lo so», risponde, di getto, prima di accorgersi che lei non s’è inclusa nel conto. «Dove staresti andando?»
«A fare una chiacchierata con una sirena», risponde. «Andrà tutto bene, Kanon.»


Saori è seduta sotto le fronde dei limoni ad osservare i raggi del sole far capolino tra le foglie rigogliose. Il cuore di Kanon è in subbuglio. È come uno specchio d’acqua sconvolto dalle raffiche di un vento dispettoso e violento, di quelli che si divertono a strapparti il cappello per il gusto di baloccarcisi. E Julian non è ancora arrivato. Che cosa succederà? Saori teme che Kanon possa commettere un’azione impulsiva, o molto stupida. O tutte e due le cose insieme. La tentazione di alzarsi e di raggiungere il nuovo Gemini è forte, ma deve resistere. Rimane sulla sedia in legno chiaro, le mani in grembo, come una signorina bene educata, ad aspettare l’arrivo di Julian, mentre le volute del fumo s’alzano dalla caffettiera di rame.
Non le piace quel tipo di caffè, ma sembrava scortese rifiutare, non dopo che Stavros ha messo l’intero locale a sua disposizione. Saori sa che l’ha fatto per Milo, non certo per lei, che gli ha sottratto il nipote ancora bambino, ma apprezza comunque il gesto e la delicatezza di Stavros e di sua nonna, che hanno preferito restarsene all’interno.
E così tu sei nato qui
, pensa Saori, rammentando la chiacchierata fatta poco prima con Melpomenê. Da donna a donna. Un passaggio di consegne, come avviene tra suocera e nuora, tra chi ha cresciuto l’uomo e chi lo accetta, promettendo di stargli accanto e di curarlo come e quanto e più di quello che ha fatto l’altra in precedenza. Una chiacchierata dovuta. Le sembra che Melpomenê attendesse quel momento da anni, forse dall’istante in cui le hanno detto che per suo nipote il Destino aveva ben altri piani in mente che ereditare il ristorante del nonno; eppure è stata gentile. L’ha squadrata con quei suoi occhi azzurro carico, gli stessi che splendono sul viso di Milo quando ride, e le ha sorriso.
«Glielo affido», ha detto.
Saori avrebbe voluto ribattere che sarebbe dovuta essere un’altra donna, la destinataria di quelle parole, ma qualcosa dentro di lei – Athena, forse? – le ha intimato di tacere. E di annuire al tappeto di rughe che decorano il viso di Melpomenê. Perché l’amore non è solo una corrispondenza di sensi e di carte da decifrare, ma è soprattutto accettare l’altro, e prendersene cura. E perché ogni tanto anche i mortali si prendono delle rivincite sugli dei.
Julian si sta facendo attendere, e qualcosa le dice che non si tratta solo del taxi bloccato nel traffico, quanto del fatto che lui vuole farsi quasi desiderare. E che forse, un vento dispettoso e violento sta mettendo in subbuglio anche il suo, di cuore.
 

Sorrento della Sirena.
A vederlo, diresti che si tratta di un fotomodello scappato dal set. Poi ti accorgi che è troppo muscoloso per essere un modello. Che quella chioma argento non è una parrucca. E che i suoi occhi raccontano un’altra storia. Di cicatrici rammendate con tanta buona volontà, pazienza e acqua di mare.
Si dicono tante cose su Sorrento della Sirena. Che la sua musica commuova gli angeli. Che accompagni Julian Solo nei suoi viaggi di beneficenza. Che tra loro ci sia qualcosa di più di una semplice amicizia.
Quando servi una divinità, quando respiri la sua stessa aria e calpesti le sue stesse impronte e versi il tuo sangue per lei, è come se ricevessi un marchio sull’anima. Indelebile. E lei, questo, lo sa. Perché lei condivide il suo stesso segreto.
Sorrento della Sirena è passato davanti al giardino del Kallistê e lei lo ha seguito, lungo la passeggiata che costeggia l’Acropoli. Lui se ne è accorto e sa che lei lo sa.
Sorrento della Sirena non è ad Atene per fare il turista. Sorrento della Sirena sta proteggendo il suo re. A distanza. Perché non ha gradito la proposta di riappacificazione di Athena. Perché lui ancora si chiede come abbia fatto Athena a trovarli laggiù, in quell’angolo remoto di terra rossa conosciuta solo a poche altre creature. E perché il suo signore potrebbe aver bisogno di lui.
Sorrento della Sirena si ferma a pochi metri dalla scalinata in ferro battuto che delimita il complesso dell’Acropoli, accanto a quattro alberi che resistono per scommessa e due panchine di pietra. Lei gli si affianca. Sorrento sorride, educato. Ma non si volta.
«Cosa vuoi?»
«Parlare.»
«Di cosa?»
«Di chi, semmai», ed è allora che Sorrento abbassa gli occhiali da sole. Le sue iridi sono rosse come rubini. Di chi?, le chiedono. «Isaak. Il Kraken», aggiunge, vedendo che quel nome non fa scattare alcun ricordo.
«Il Kraken», e la sua voce è il suono di qualcosa che torna a galla. Che riaffiora dopo la procella. Qualcosa di spezzato. Dai tentacoli del mostro marino. «Vieni, sediamoci. Non sarà una conversazione lunga, ma sarà meglio stare comodi.»
 

Quando incontri un dio, lo riconosci tra mille. La pelle ti si increspa. Il cuore batte più piano, come a non volerlo disturbare. O a non voler essere riconosciuto. Per paura. O per umiltà, che poi sono la stessa cosa. Dipende da quale punto di vista si applichi alla faccenda.
Quando si sono conosciuti, Julian Solo era un ragazzo. Un ragazzo sperduto e arrogante e viziato che giocava a fare il re su di un trono troppo grande e pesante per le sue spalle. Qualcuno da poter manovrare sussurrando le parole che voleva sentirsi dire. Qualcuno che, adesso, è entrato nella taverna, riempiendo l’ambiente con la sua sola presenza. Come le onde del mare.
Poseidone dorme. Sogna il suo sonno, cullato dalle sirene, laggiù, negli abissi più profondi, ma un frammento del dio è rimasto sul fondo degli occhi azzurri dell’uomo che stavano aspettando.
«Maybe, the stars were right», ha detto Milo poco prima. Scherzando. E solo ora si accorgono entrambi di quanto quella citazione fosse inopportuna. Perché è vero quello che si dice degli dei. Sono molto, molto permalosi. Ed un incidente diplomatico aggraverebbe una situazione già complicata di suo.
Julian Solo non dice una parola. Kanon non riesce ad abbassare lo sguardo. Anche se vorrebbe. Anche se dovrebbe.
Milo inchina la testa, poi la rialza. L’onore delle armi. L’onore al dio sconfitto.
«Buonasera», esclama, col suo senso pratico. Ha riconosciuto Julian Solo grazie ai rotocalchi che sua zia leggeva qualche anno fa. E un avventore è pur sempre un avventore. Uomo o dio che sia. «La stavamo aspettando. Da questa parte, prego», dice. Guidandolo all’esterno, verso il giardino, dove l’aspetta Saori.
Julian lo segue, fermandosi per qualche istante davanti a Kanon. Si scambiano uno sguardo che sa di sale. Sulle ferite ancora aperte e dentro gli occhi. Sulla pelle, sul cuore  e sull’anima.
«È stato divertente, dopo tutto…», sussurra, in una lingua antica quanto il mondo e profonda come l’eternità, la voce liquida di Poseidone. Un sorriso, un battito di ciglia e il dio torna a dormire mentre Julian esce dalla taverna, la giacca blu su una spalla e i mocassini di cuoio marrone chiaro senza calze.
«È stato… divertente?», chiede Milo rientrando, un braccio sullo stipite della porta.
Kanon annuisce. «Sì. Ha detto così», risponde.
Julian è seduto davanti a Saori. Due ragazzi come tanti. Due amici. Due fidanzati, quasi. Ma per un attimo, solo per un attimo, ad entrambi è sembrato di intravedere la sagoma del tridente di Poseidone e dello scudo di Athena nelle ombre sul pavimento del giardino.
Gemelli e Scorpione si scambiano uno sguardo stupito.
«Vieni. Lasciamoli da soli. Ci sono momenti che non sono fatti per gli uomini», dice Milo. Chiudendo – accostando - la portafinestra che dà sul giardino di limoni.
 

Saori è leggiadra come sempre, come se il tempo non avesse scalfito la sua bellezza. «Ti ringrazio per aver risposto al mio invito.»
«Grazie a te, per avermelo porto», replica. Con quella galanteria che pensava di aver perso, tra le dune dell’Australia, ma come si dice? È come nuotare. Una volta imparato, non lo scordi più. «Di cosa volevi parlarmi?»
«Ho pensato che fosse giunto il tempo di mettere da parte i nostri… dissapori. E cominciare ad essere amici…» La voce di Saori è un bisturi che fende i convenevoli.
Venti ore di volo perché vuoi essere mia amica?
Julian la guarda. E pensa che non era questo quello che voleva sentirsi dire da lei, ma pazienza. Amici. Lei ha bisogno di lui, perché lui è come lei. Un dio in carne e ossa. Questa è la verità. Amici. Per il momento, se lo farà bastare. E dopo… dopo, si vedrà. «Amici», ripete. Porgendole la mano. «Ma niente ramoscelli d’ulivo, per favore. Un cavallo è molto più utile di una piantina.»
«Andata.» Saori ride. Una mano a ripararsi la bocca, il suono argentino della sua voce che si perde nell’aria, assieme alle volute del caffè, tra le fonde dei limoni.



Note: E con questa giuro che la finisco di strizzare I Limoni di Montale e il pergolato del Kallistê.
La passeggiata a Kolonaki è il pegno che Kanon ha dovuto pagare per aver scommesso con Athena. Athena bara. Clamorosamente. L'antefatto lo trovate qui.

Maybe the stars were right è un verso di Prime Time, una canzone di The Alan Parson Project, che strizza l'occhio ad una celeberrima frase all'interno del racconto "The Call of Cthulhu" di H.P. Lovecraft (Il senso della canzone è un altro, tranquilli.).
Cthulhu è un essere dalla testa di una gigantesca piovra che dorme nella città sottomarina di R'lyeh - Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn - e attende che le stelle siano allineate - the stars come right - per destarsi e spalancare i cancelli per il ritorno dei Grandi Antichi, creature inconcepibili dalla mente umana. Perché inconcepibile è la quantità di segreti e misteri che il mare nasconde. E si sa, il mare sa essere molto, molto paziente...
   
 
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