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Autore: TeenSpiritWho_    22/05/2014    3 recensioni
Il futuro può essere cambiato anche solo dal più piccolo errore, e Duncan lo scoprirà presto. Verrà trascinato in un luogo sconosciuto e dovrà lottare contro chi amava per salvare chi ama. Perché non sempre le persone di cui ti fidi si conoscono del tutto...
Genere: Azione, Guerra, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Geoff, Gwen, Un po' tutti | Coppie: Bridgette/Geoff, Duncan/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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Mio padre si chiamava Matthew Cooper. Lavorava come professore di lettere nell'università della mia città. Era un uomo rispettabile, un cittadino come si deve, un educato professore canadese, padre di famiglia e amabile marito.

O almeno questo era quello che sembrava in apparenza. La verità era tutt'altra, ma la conoscevamo solo io e la mia famiglia.

Matthew Cooper era sempre stato un po' scorbutico. Aveva conosciuto mia madre al college e si erano sposati giovani, dopo appena un anno di fidanzamento. Fu allora che mia madre aveva scoperto del suo problema di alcolismo e della sua pessima abitudine di alzare le mani dopo aver bevuto un po' troppo, e purtroppo ne dovette anche fare le spese. Ma lei aveva sempre avuto un carattere troppo debole e accondiscendente per opporsi alla violenza di mio padre. E poi lo aveva amato un tempo, e questo a lei sembrava un motivo valido per sopportare in silenzio i suoi abusi e le brutalità.

Io venni al mondo qualche mese dopo il matrimonio e, dal giorno della mia nascita, fui obbligato a vivere nel terrore di mio padre. Quando non urlava contro mia madre, se la prendeva con me, e ogni piccolo errore commettessi lui era lì, pronto a darmi la mia giusta dose di botte come punizione.

Da bambino non potei fare altro che sopportare in silenzio, ma durante la mia adolescenza cercai di passare più tempo possibile fuori casa, in modo che lui non mi avesse tra i piedi durante una delle sue sbronze. Cominciai a frequentare brutte compagnie, andavo in giro a fare il vandalo per la città, bevevo, fumavo e mi comportavo come un idiota, ma, sotto la maschera da duro che cercavo disperatamente di mostrare agli occhi degli altri, si nascondeva una persona che aveva bisogno di aiuto e che era troppo orgogliosa per ammetterlo. Geoff era l'unico a conoscenza dei miei problemi, l'unico di cui mi potevo fidare. A volte, dopo una litigata violenta con mio padre, andavo a dormire a casa sua, il viso pieno di lividi e il naso sanguinante, e lui senza dire una parola mi accoglieva, come se fossi un fratello. E io vedevo la sua vita normale, con una famiglia normale, e pensavo a quanto avrei desiderato essere così fortunato.

Cominciai a ribellarmi alle violenze di mio padre quando nacque mia sorella Shirley. Sapevo che era compito mio risparmiarle quello che io avevo dovuto passare da bambino, e avrei fatto di tutto per impedire a mio padre di farle dal male. Da quel momento se mio padre alzava le mani su di me, io contraccambiavo pestandolo più forte. In questo modo finivamo entrambi per farci male, ma io sentivo che quello era il mio dovere come fratello. Lo aspettavo quando tornava dal bar dove andava a rintanarsi per bere la sera dopo cena e quasi sempre, dopo aver litigato ed esserci scambiati grida e insulti, si passava alle mani.

Mia madre non disse mai una parola. Si limitò a piangere, per anni. Per tutta la vita avevo provato una grande rabbia nei suoi confronti, avrei voluto che si schierasse dalla mia parte, che proteggesse i suoi figli, ma non aveva abbastanza coraggio per opporsi al marito, e nemmeno per separasi da lui. Ma quando ora quando ripenso a lei sento una grande nostalgia. Dopotutto era l'unico tra i due genitori di cui mi potessi fidare e, anche se non avevamo mai avuto un grande rapporto madre-figlio, mi aveva sempre curato le ferite dopo le risse con mio padre e quando avevo bisogno di parlare lei era lì.

Ma non aveva più importanza ormai, perché erano tutti morti.

 

Mi svegliai di soprassalto.

Avevo la fronte madida di sudore e stavo ansimando come dopo una lunga corsa. Dovevo aver sognato mio padre e la notte in cui aveva fatto quella cosa. Al pensiero rabbrividii e deglutii nervosamente.

Ma perché avevo sognato mio padre?

Improvvisamente mi ricordai di dove mi trovavo. Mi guardai intorno, seduto sul letto. Ero in una stanza piuttosto spaziosa, con pochi mobili e l'intonaco delle pareti che si stava staccando. Sembrava l'infermeria di una scuola, ma quasi abbandonata. Eppure non poteva essere così abbandonata perché, sul comodino di fianco al letto, c'erano un pezzo di pane e un bicchiere di latte che qualcuno doveva aver portato lì non molto tempo prima. Mi lanciai sul cibo come un leone sulla sua preda, avido e affamato. Ingurgitai la pagnotta in un paio di morsi, mandandola giù quasi senza masticarla e bevvi rapidamente il latte, versandomene anche parte addosso per la fretta.

Imprecai, cercando di asciugarmi, e mi accorsi che, mentre dormivo, qualcuno doveva avermi tolto i vestiti, lasciandomi solo la biancheria. Li vidi poco più in là, appoggiati su una sedia, puliti come non lo erano ormai da giorni.

Chi era stato a fare tutto questo?

Feci uno sforzo per ricordare, ma la mia mente era un buco nero. Poi, improvvisamente, mi tornarono in mente quella donna, Leshawna, e il ragazzo dai capelli rossi, Scott. Quei due mi avevano salvato da quel gruppo di banditi da quattro soldi, ora ricordavo. Ed ecco perché avevo sognato mio padre. Il tizio che guidava la macchina gli assomigliava incredibilmente, ma ovviamente non poteva essere lui. Voglio dire, erano passati 50 anni! Mio padre era stato ucciso dai Grigi molti anni prima e, se anche non lo fosse stato, sarebbe comunque stato molto più vecchio del tipo che avevo visto quella sera.

Però, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare cosa fosse successo dopo... dopo...

Dopo che hai ucciso quel ragazzino, Ezekiel?, mi suggerì una vocina nella mia mente.

Sgranai gli occhi. E' vero, lo avevo fatto. E a sangue freddo, per di più, come se fosse una cosa che facevo tutti i giorni. Era vero, non era la prima persona che uccidevo. Avevo ucciso dei Grigi, ma quelle non erano propriamente persone, e avevo ucciso la Mamma, e lei era una pazza cannibale che aveva cercato di mangiare me e i miei amici e di uccidere Gwen.

Ezekiel era solo un ragazzino, invece. Si, ci aveva minacciati con una pistola, ma non sarebbe stato nemmeno capace di usarla. E io lo avevo ucciso.

Un conato mi fece balzare in piedi. Corsi verso il lavandino che si trovava in un angolo della stanza e rigettai quel poco che avevo mangiato prima. Quando ebbi finito rimasi appoggiato con la fronte alla fredda porcellana del lavandino, sudando e respirando affannosamente.

Ad un certo punto alzai la testa e osservai la gamba, stranito.

Un momento, come sono riuscito ad alzarmi in piedi?

La mossi su e giù, avanti e indietro, ma niente, non mi faceva più male. Qualcuno doveva avermi curato, ma chi?

Scossi la testa, pensando che non aveva importanza. Ero vivo ed ero libero da quei banditi, e mi bastava.

Ruotai la manopola del rubinetto, ma naturalmente non c'era acqua corrente. Sospirai, sconsolato, ma poi lo sguardo mi cadde su un secchio di acqua limpida poggiato lì accanto. Osservai la persona che mi guardava dalla superficie riflettente dell'acqua. Ero davvero io?

Una leggera barba incolta aveva cominciato a crescermi sul viso, dandomi un'aria più adulta, ma anche più trasandata. I capelli neri erano lunghi e spettinati e mi ricadevano a ciocche sugli occhi azzurro ghiaccio, sottolineati da pesanti occhiaie scure. Mi passai una mano sul viso, malinconico.

Sull'acqua galleggiava una spugna pulita.

Beh, sempre meglio di niente.

Mi voltai per guardarmi intorno: la stanza era priva di finestre e l'unica porta di accesso era chiusa. Nessuno in vista.

Velocemente, mi tolsi anche la biancheria intima, lanciandola da parte. Raccolsi la spugna e gli diedi una bella strizzata, facendo sgocciolare l'acqua nel secchio. Poi, con delicatezza, cominciai a strofinarmela sul petto. Ogni volta che la ruvida superficie della spugna premeva contro una delle numerose ferite che mi ero provocato negli ultimi giorni, un lamento o un gemito soffocato mi sfuggiva dalla bocca, ma presto il bruciore veniva sostituito dal sollievo provocato dall'acqua fresca sulla pelle. Le labbra mi si piegarono in un sorriso involontario, mentre assaporavo il piacere di potermi lavare di nuovo, dopo tanto tempo.

Qualcuno alle mie spalle lanciò un fischio.

-Ehi, bel fisico, raggio di sole.-

Mi voltai di scatto, sbalordito. Appoggiata contro lo stipite della porta c'era Leshawna, la massiccia ragazza che, insieme al rosso, era venuta a cercarmi nel bosco. Aveva le braccia incrociate sul petto e mi osservava divertita con uno sguardo compiaciuto.

Lanciai un grido di stupore e feci un salto all'indietro, coprendomi con le mani. Inciampai contro al secchio e ruzzolai a terra con un tonfo, versando tutta l'acqua sul pavimento.

Leshawna scoppiò a ridere, mentre io, rosso dall'imbarazzo, mi rialzavo in piedi faticosamente. La ragazza raccolse i miei vestiti dalla sedia e me li lanciò, coprendosi poi gli occhi con le mani, ma continuando a sbirciare tra le dita.

-Avanti, vestiti dolcezza. Certo, dovrai privarmi della meravigliosa vista dei tuoi addominali, ma Scott ha bisogno di parlarti, e non vorrai mica andare da lui come mamma ti ha fatto, giusto?-

Agguantai i pantaloni e me li misi frettolosamente. Quando ebbi fatto sparire l'imbarazzo, riordinato i pensieri e infilato anche una canottiera sgualcita e una felpa, mi voltai di nuovo verso la ragazza, che ora era seduta sul mio letto ma non aveva smesso per un secondo di guardarmi con quel sorrisetto.

-Oh peccato, dolcezza, mi piacevi di più senza vestiti.- disse lei, in tono lamentoso, poi si alzò in piedi ridendo e uscì dalla stanza, facendomi segno di seguirla.

Mi grattai goffamente la nuca, abbassando lo sguardo, e mi accodai.

Fuori dalla stanza c'era un grande atrio, un'enorme stanza d'ingresso. Osservai a bocca aperta la grande volta a botte, alzando la testa, senza sapere che anni e anni prima una giovane Gwen era rimasta in piedi proprio in quel punto, sbalordita quanto lo ero io dalla grandezza di quel posto.

-Questo edificio era una scuola, molti decenni fa.- intervenne Leshawna, continuando a camminare, senza voltarsi -Ora è il nostro campo base. Siamo l'unico gruppo di ribelli rimasti dopo l'ultima guerra, credo.-

Ti sbagli, non sai quanto, pensai, e il cuore mi si strinse in una morsa quando ricordai le parole di Heather su come DJ, Gwen, Noah e tutti quelli che pensavo fossero miei amici mi avessero tradito. Ma la tristezza stava cominciando a essere sostituita dalla rabbia e un senso di bruciante umiliazione.

Continuai a guardarmi intorno. L'edificio era vecchio e distrutto dai bombardamenti, ma brulicava di vita. Le stanze erano piene di militari, civili e volontari che lavoravano senza sosta.

-Abbiamo praticamente il controllo di tutti i quartieri degli sfollati. Per caso hai visto quel gruppo di palazzi vicino al lago Ontario? Quel quartiere lo abbiamo costruito noi appena prima dell'Ultima Guerra. Il nostro lavoro è cercare di aiutare i civili. Cibo, protezione, una casa... cerchiamo di fornirgli tutto ciò che gli serve. Hanno bisogno di noi, perché questa fottuta dittatura non permette più a nessuno di vivere una vita decente. Quella stronz...- improvvisamente Leshawna sembrò ricordarsi di chi fossi e si zittì. Sapevo benissimo che quello “stronza” era riferito a Courtney, ma non mi dava nessun fastidio.

-Tranquilla, puoi dirlo, non mi disturba. Non provo assolutamente più niente per quella donna, non è la stessa donna che ho conosciuto molti anni fa.- cercai di sorridere, anche se con difficoltà.

Leshawna sembrò tranquillizzarsi, e tornò raggiante in viso -Meno male. Sai, mi sembra così strano che tu sia lo stesso Duncan Cooper di cui si legge sui libri. Voglio dire, è così assurdo!-

-Già. Me lo dicono tutti.-

-Vorrei proprio sapere come cazzo sei arrivato qui, considerando che sei nato più di 50 anni fa e... beh, dovresti essere morto. Ma è meglio che parli di queste cose con Scott, è lui il nostro capo.-

Questa ragazza parla un po' troppo, pensai, ma non potevo fare a meno di provare una certa simpatia per lei. Scossi la testa. Ricordati che non devi fidarti di nessuno. Magari anche loro vogliono sono venderti e intascare la ricompensa.

Eravamo arrivati davanti alla porta di un ufficio, in fondo a un lungo corridoio. Ricordavo bene quel genere di porta, era la porta dell'ufficio del preside. Da ragazzo mi ci avevano mandato così spesso che ormai non ricordavo nemmeno più quante volte c'ero stato.

Leshawna si fermò lì davanti -E' meglio se entri da solo. Avete tanto di cui parlare.- si piegò verso di me e sussurrò -Solo un consiglio: non contraddirlo mai. E' un po' una testa calda.- sorrise e mi fece l'occhiolino.

-Grazie.- le risposi, con la voce roca per la stanchezza e le indirizzai un'occhiata di gratitudine.

Bussai e aprii la porta senza attendere una risposta. Cosa me ne importava del bon-ton?

Mentre mi richiudevo la porta alle spalle osservai la stanza. Era piuttosto spoglia, ma ben tenuta. La scrivania al centro della stanza, davanti a una finestra, era piena di fogli perfettamente allineati sulla superficie di legno. Su una parete era appeso uno di quei poster con sopra il volto di Courtney che si vedevano per strada, quelli con scritto Vota O'Connell alle prossime elezioni! - Sarà meglio per te”. Qualcuno con un impressionante senso dell'umorismo ci aveva giocato a freccette.

-Ben svegliato.- disse una voce alle mie spalle. Mi voltai. Un ragazzo dai capelli rossi e un'espressione sveglia e astuta sul viso era uscito da una porta accanto alla scrivania, che doveva dare su un bagno. Si stava asciugando il viso bagnato con un asciugamano. Andò a sedersi dietro alla scrivania, poi appoggiò le gambe su di essa, mettendo le mani dietro alla testa per stare più comodo. Io rimasi in piedi per un po', senza sapere cosa rispondere. In quel posto tutti mi trattavano come si conoscessero da una vita, mentre io li vedevo per la prima volta nella mia vita e non sapevo nemmeno se mi potevo fidare.

-Accomodati pure.- disse Scott, indicando la sedia davanti al tavolo con un gesto della mano.

Esitai, guardandolo diffidente.

-Cristo, siediti, non ti mangio mica!- esclamò lui.

Spostai la sedia da sotto la scrivania con un gesto secco e mi ci lascia cadere sopra, incrociando le braccia.

Scott mi osservò per qualche secondo, come se cercassi di scrutare nei miei pensieri.

-Dimmi, con chi sei stato fino ad ora?-

-Ero solo.-

-No, no, prima di rimanere solo. Dovevi pur essere con qualcuno, con un gruppo di persone. Non puoi aver imparato a combattere così da solo.-

Abbassai gli occhi e tossii per schiarirmi la voce e prendere tempo. Non potevo fidarmi di loro, ma tanto valeva raccontargli la verità a questo punto.

-Io... ero con un gruppo di ribelli, vicino a Toronto. Pensavano di essere i soli rimasti, ma è quello che pensate anche voi, quindi...-

Scott spalancò gli occhi e tirò giù le gambe dal tavolo, improvvisamente attento.

-Stai dicendo che un altro gruppo è sopravvissuto? E chi?-

-Non li conosco tutti, sono parecchi, ma so che il capo è un certo DJ...-

Scott sollevò un sopracciglio -Oh, lui.- scoppiò in una risata amara -Chi l'avrebbe mai detto che quel senza palle di DJ sarebbe sopravvissuto alla guerra.-

-Già.- borbottai. E pensare che una volta quel senza palle era mio amico.

-Com'è che non li abbiamo mai trovati?- disse Scott, tra sé e sé.

-Sono...- lui alzò lo sguardo su di me, mentre io cercavo le parole giuste -...sono in un rifugio sotterraneo. La botola è nascosta da una cupola d'invisibilità. Loro... hanno un bravissimo scienziato.- pensai a Noah, con un pizzico di rimpianto.

Scott annuì -E' stato lui a portarti qui, dunque? Viaggio nel tempo, o qualcosa del genere?-

Questa volta fui io ad annuire.

-Astuto...- Scott si accarezzò il mento con una mano, pensoso -E perché ti hanno portato qui? Avevano un piano?-

-Si, all'incirca... mi avrebbero mandato da Courtney. Era un piano improvvisato, non sapevo esattamente se avrei dovuto ucciderla o convincerla a fermare la sua insensata dittatura, era un ultimo disperato tentativo di aggiustare le cose. O almeno così credevo, perché...- mi fermai.

Scott inarcò le sopracciglia, attento -Perché...?-

Scossi la testa -E' stata una di loro a confessarmelo. Loro... volevano solo vendermi alla polizia. Volevano solamente ottenere la ricompensa.-

Il rosso si lasciò andare contro allo schienale della sua sedia -Wow, che strano. Certo, da un senza palle come DJ mi sarei aspettato che si chiudesse in un buco sottoterra ad aspettare di marcire, ma una cosa del genere... non è da lui.-

Rimasi in silenzio.

-Quindi da quanto sei qui? Voglio dire, da quanto hai viaggiato nel tempo? Due, tre giorni?-

Alzai lo sguardo, stranito -Io... no, veramente sono due mesi.-

-Ma... i volantini con la tua taglia sono in giro da non più di tre giorni.-

Mi bloccai. La mia mente cominciò a macinare pensieri su pensieri, confusa.

Ma se i volantini sono in giro da così poco tempo non potevano sapere della taglia quando hanno deciso di portarmi nel futuro. Non mi hanno tradito. E questo vuol dire che Heather ha mentito. Quindi...

Mi alzai in piedi di scatto.

-Che diavolo stai facendo?- esclamò Scott, seccato -Non abbiamo finito di parlare! Devo chiederti delle cose, dobbiamo trovarti una sistemazione, devo...-

-Senti, non mi interessa se sei il capo qui dentro, mi devi ascoltare. Se la mia intuizione è giusta i ribelli sono in grave, grave, pericolo. Dobbiamo aiutarli.-

Scott mi guardò per un istante, mentre cercava di riordinare i pensieri, poi il suo sguardo si fece deciso.

-Prendiamo la macchina.-

 

Geoff teneva un braccio intorno alle spalle di Gwen, cercando di riscaldarla dall'aria fredda del mattino. Camminavano in silenzio, ognuno con la mente immersa nei propri pensieri. Poi Gwen parlò.

-Sono passati quasi due giorni.-

-Gwen...-

-No, Geoff, non dirmi che “andrà tutto bene”. Lui è là fuori, in un mondo diverso da quello che conosce, al freddo, da solo... se non è ancora tornato potrebbe aver incontrato una brutta compagnia, magari dei banditi... magari qualcuno l'ha rapito, hai visto i volantini!- avrebbe voluto piangere, ma non aveva più lacrime da versare.

Geoff lasciò che la ragazza si sfogasse. Aveva le sue ragioni, dopotutto anche lui era preoccupato, ma era abituato a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Chi l'avrebbe detto, solo qualche anno prima, che si sarebbe trovato in un casino del genere!

-Te l'ho detto, sarà con Noah da qualche parte, vedrai che si saranno trovati e avranno fatto pace. E anche se incontrasse brutte compagnie... diavolo, quel ragazzo gli farebbe il culo, lo conosci!-

A Gwen scappò un sorriso, mentre scuoteva la testa, divertita -Grazie, Geoff. Non so come avrei fatto in questi giorni senza di te.-

Lui gli passò una mano tra i capelli, spettinandola -Nessun problema, Gwennie. E ora sarà meglio che torniamo dagli altri.-

Gwen annuì mentre incrociava le dita delle mani che teneva nascoste nelle tasche, al riparo dal freddo. Speriamo abbiano qualche buona notizia...

Arrivarono al palazzo dove abitava la madre di Gwen con il fratello e salirono in fretta le scale. Marilyn era seduta al tavolo della cucina accanto a Joel, e lo stava aiutando a studiare per la piccola scuola che frequentava, l'unica del quartiere. Quando li sentì entrare alzò la testa e fece un timido sorriso a Gwen, che abbassò lo sguardo. Non si erano ancora parlate dal litigio, ma avevano bisogno di un posto dove stare e Marilyn era stata felice di ospitarli ancora. Dopo che lei e Joel avevano raccontato ai ragazzi dei volantini e della ricompensa, avevano raddoppiato le ricerche che però, purtroppo, non davano frutti.

Zoey era già tornata a casa ed era seduta sul divano, addormentata sotto ad una coperta calda.

-Heather? Pensavo fosse con Zoey!- chiese Geoff, guardandosi attorno.

Marilyn scosse la testa -No, lei era sola... immagino che sarà ancora fuori a cercarli.-

Geoff annuì e si lasciò cadere su una sedie, sbuffando pesantemente.

Gwen, invece, si sentiva troppo in imbarazzo a rimanere nella stessa stanza con la madre, così uscì dalla cucina e raggiunse la sua vecchia camera. Tutto era rimasto come quando l'aveva lasciata: le pareti dai colori scuri, tappezzati dai disegni che lei stessa aveva fatto, tutti i libri che era riuscita a trovare al mercato (ed erano veramente pochi, ormai) allineati perfettamente sulla scrivania a lato del letto. Si sedette sul morbido materasso e si prese la testa fra le mani, appoggiando i gomiti alle ginocchia. Dopo qualche minuto sentì un fruscio e, quando alzò la testa, vide suo fratello in piedi sulla soglia.

-J-Joel... cosa...- balbettò, passandosi una mano sugli occhi lucidi.

-Va tutto bene?- chiese lui, andandosi a sedere accanto a lei.

-Certo, va tutt...-

-Gwen- la interruppe -non sono più un bambino. Sono cresciuto parecchio da quanto te ne sei andata.- la scrutò da sotto il ciuffo di capelli castani e ripeté -Va tutto bene?-

La bocca della ragazza si piego in un sorriso forzato, mentre gli occhi si riempivano nuovamente di lacrime. Abbracciò forte il ragazzino, iniziando a singhiozzare.

-Non volevo coinvolgerti in questa storia. E' che stanno succedendo tante cose, mi sento così responsabile, e io non so cosa...- la sua voce fu rotta da un singhiozzo, mentre si aggrappava più forte al fratello.

-E' tutto ok, è tutto ok. E' per questo che esistono i fratelli, no?-

Gwen gli sorrise, questa volta un sorriso sincero, e gli stampò un grosso bacio sulla guancia. Lui si finse infastidito e si asciugò la guancia con la manica, ma intanto le sorrideva amorevolmente.

-Lo ami, vero?-

Gwen inarcò le sopracciglia, sorpresa -Chi? Duncan?-

Joel annuì.

La ragazza abbassò la testa, lasciando che i capelli blu le coprissero il viso.

-Credo... credo di si.-

Il fratello le posò una mano sulle spalle, accarezzandola con affetto.

-Andrà tutto bene, dico sul serio. Lui mi piace, e penso abbia abbastanza fegato per uscire da questa storia vivo e vegeto.-

Gwen gli spettinò i capelli.

-Grazie, Jo-Jo. Ti voglio bene.-

All'improvviso un urlo li fece sobbalzare. Proveniva dalla strada. Poi rumore di spari, e altre urla.

-Ma che diavolo...- Joel si alzò in piedi e corse alla finestra, spostando la tenda per guardare fuori.

Gwen corse in cucina, dove anche gli altri si erano alzati, i loro visi che riflettevano il loro sgomento. Geoff e la ragazza si lanciarono uno sguardo sconvolto.

Joel arrivò di corsa, gli occhi sgranati dal terrore -Qualcuno ha chiamato la polizia, è in strada. Credo che vi stiano cercando.-



 

Buooonsalve, popolo di EFP! *fa ciao ciao con la mano*
Si, ho finalmente aggiornato.
E si, sono in ritardissimo come al solito.
In ogni caso, spero che il capitolo vi piaccia e mi scuso per vari ed eventuali errori di battitura. Fatemi sapere la vostra opinione! :3
Nei prossimi capitoli cercherò di raccontare ancora di più la storia di Duncan e il padre, e soprattutto quella cosa misteriosa che aveva fatto molto tempo prima... sorpresa, lo scoprirete!
Un bacio a chi continua a seguirmi nonostante i miei clamorosi ritardi, siete favolosi 

Alla prossima!

  
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