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Autore: Feds_95    25/05/2014    1 recensioni
“Nell’oscurità si udivano i lamenti delle donne, i pianti dei bambini e il clamore degli uomini…
Alcuni chiedevano aiuto, altri imploravano la morte…
Ma i più pensavano di essere stati abbandonati da Dio…
…e che l’universo fosse sprofondato nel buio eterno”
[...]
Guarda giù. E sopravvivrai.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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At the end of the day
 
 
At the end of the day you're another day older
 And that's all you can say for the life of the poor
 It's a struggle, it's a war
 And there's nothing that anyone's giving
 One more day standing about, what is it for?
 One day less to be living.
-Les Miserables-
 

Camminammo per quasi due chilometri, e i negozi di liquori, le fumerie, prima degradati e vandalizzati, si fecero più decenti e curati.

Poi cominciarono le Sexy-case, con le finestre sbarrate, i banchi dei pegni, gli Empori della linfa.

Le vecchie lampade installate anni prima erano ormai vittime cieche di infinite sassaiole. Nessun tecnico sarebbe venuto a riparla, pensai. I tecnici vivono nei quartieri alti.

<< E’ bella la vita nei quartieri alti >> Avevo sentito dire una volta da una vecchia al Circolo, mentre svuotava su un tavolo il contenuto ferroso di uno scatolone. Ma non prestavo mai troppa attenzione alle voci che circolavano sugli altri settori o sulla Cittadella. Non avevo il tempo di immaginare.

I marciapiedi erano pieni di mozziconi di spinelli, come fiocchi di neve. Su ogni panchina c’erano degli Spacciatori, pronti a venderti un grammo di Scag per dodici dollari, la Pseudo-Push per venti a tavoletta, che poi dovevi sminuzzarti a casa.

Più ci avvicinavamo al Canale e più i palazzi erano bassi e con l’intonaco esterno intatto. Si riusciva a vedere anche la Cittadella, che si ergeva come un faro argentato e lucente tra i fumi delle fabbriche.

Lì vivevano i ricchi, quelli dei piani alti: I Santi. Che non erano altro che i proprietari della fabbriche o Agenti di Alto Livello della Federazione.

Nessuno di noi Impuri era mai riuscito neanche ad avvicinarsi alle alte e imponenti mura di metallo che la circondavano. Di guardia c’erano sempre pattuglie e pattuglie di Agenti, armati fino ai denti. Per non parlare della torrette di guardia, che con i loro occhi luminosi scandagliavano tutta la zona.

Xevo diceva che il cancello era elettrificato e che dall’altra parte, prima di arrivare alla vera Cittadella, c’erano chilometri di terreno disseminato di mine anti-uomo e cani randagi che non aspettavano altro se non affondare i canini in un bel pezzo di carne. E che se ti andava bene, riuscivi a vedere in lontananza l’ombra sfocata delle case, prima di venire incenerito dai lanciafiamme installati negli alberi o ingoiato dalle sabbie divoratrici.

Attraversammo il Canale, un enorme solco largo e profondo del terreno.

Una volta era un acquedotto, mentre ora vi scorreva solo il liquido di scarico velenoso delle fabbriche, l’unico collegamento tra il Settore 4 e l’altra parte di Jericho.

Avevano costruito quel ponte per sicurezza ,dopo le Insurrezioni del 2045, iniziate dagli operai del mio settore. Così i Santi e gli Angeli decisero di separarci, abbastanza da poterci impedire di assediare gli altri settori e per poterci tenere comunque sotto controllo. Infatti tra le lastre di legno e lo strato di cemento portante erano stati inseriti degli esplosivi comandati a distanza.

Dall’altra parte, a controllare il transito stavano impalati due Agenti, fermi come statue, con il calcio dei mitra appoggiato a terra. Per un occhio attento il loro lieve tremolio risultava più che evidente.

Alcuni lavoratori passandogli davanti ridacchiavano e gli gettavano a terra mozziconi di sigarette ancora fumanti.

<< Guarda un po’ >> dissi dando una leggera gomitata a Paxton << Hanno messo due “bambolotti” a controllare il ponte >>

<< Ahahahah! >> scoppiò a ridere lui, avendo notato gli occhi dei due che guizzavano velocemente da un viso ad un altro.

<< Che idioti >> sussurrò, ed io scoppiai a ridere, attirando su di me lo sguardo di alcune donne che mi camminava affianco.

Il Ponte era lungo meno di un chilometro, con ringhiere arrugginite e traballanti, su cui erano ancora attaccati pezzi delle corde degli impiccati.

Nell’ultimo anno, del Settore 4, si erano suicidati in quel modo solo 20 persone: meno degli anni precedenti. Tra di loro c’era anche il signor Peterson, che abitava due piani sopra di me, nell’appartamento vicino a quello di Paxton.

Al Circolo c’erano ancora i suoi mobili in vendita, pronti per uno scambio.

Tenendo gli occhi fissi sui due Agenti raggiugemmo la fine del ponte e Paxton, abbassandosi per arrivare alla mia altezza, bisbigliò:<<  Sta a guardare >>.

Si allontanò andando a mischiarsi tra la folla vicino alla ringhiera e con passo lento, coperto da un gruppo di minatori, che capirono le sue intenzioni e stettero al gioco.

Paxton, con passo fin troppo leggero per la sua stazza, si posizionò alle spalle di uno dei giovani , quando questo stava osservando attentamente il gruppo di minatori, scrutandone con cura i volti. In cerca di qualcosa.

All’improvviso gli si parò davanti la faccia gridando come un animale selvatico e con le braccia in aria.

Il ragazzo lanciò un grido così acuto che sembrò quello di una donna e lasciò il mitra cadere a terra con un tonfo.

Intorno a lui si levò una grande risata, alcuni si appoggiarono al muretto, altri si reggevano tra loro. Io dovetti fermarmi per riprendere fiato, prosciugatomi dalle risa. Solo lui era capace di farmi ridere in quel modo, incontrollato e genuino.

Nella mia vita non avevo avuto molte occasioni per ridere. Ma con Paxton non era così.

Riusciva a trovare qualcosa di esilarante o positivo anche nelle situazioni più brutte, in cui ci trovavamo ogni giorno.

Persino all’altro Agente sfuggì una lieve risatina, che poi tornò un ghigno serio, tipico del riso che stava cercando di trattenere.

L’altro giovane si guardava intorno con aria smarrita, come se tutto quel rumore l’avesse svegliato da un sogno ad occhi aperti. Si guardava i piedi e cercava gli occhi del suo compagno, trovando solo quelli della gente in delirio. Arrossì.

Solo quando fui più vicina notai quanto effettivamente fosse giovane, avrà avuto si e no la mia età. E già era un poliziotto. Probabilmente non era neanche originario dei piani alti. Quelli avevano la superbia e la vanità nel sangue, di sicuro non sarebbero arrossiti per così poco. Anzi, avrebbero già legato Paxton ad un palo e frustato davanti a tutti.

Quando la folla si fu diradata ed ebbe ripreso la marcia verso le fabbriche, notai che il mitra giaceva ancora a terra, abbandonato come un vecchio bastone da passeggio. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di prenderlo ed usarlo come arma contro gli Agenti. A nessuno che avesse santità mentale.

Provai una sensazione strana difronte a quel ragazzino, che solo così si poteva definire. Come una morsa che invece di farmi provare dolore, mi trasmise tristezza.
Nonna diceva che questa sensazione aveva un nome una volta e che era molto comune.

Teneda...Tenera...Tenerezza!

Provai Tenerezza per quel ragazzo.

Mantenendo il contatto visivo con Paxton che si era allontanato e mi stava aspettando sotto un lampione, funzionante, mi avvicinai all’Agente, vicino all’arma a terra. Sentì l’altro puntare gli occhi sulla mia schiena, pronto ad intervenire ad un mio passo falso.

Aspettai che alzasse la testa e puntasse i suoi occhi scuri, tipici dei Puri, nei miei grigi, tipicamente Impuri. Notai che erano velati di lacrime. Come quelli di Cathy, durante un attacco di tosse così forte da toglierle il respiro.

Mentre lui tremava, intimorito forse dal mio sguardo duro e impassibile, mi abbassai lentamente e raccolsi il mitra. L’altro Agente mi puntò subito la sua arma alla schiena e abbassò appena il grilletto.

<< Mettila giù >> gridò con voce infantile cercando di mettermi paura << Mettila giù. Adesso >>

Intorno a noi la folla si era fermata nuovamente, circondandoci in un semicerchio. Vidi i capelli scuri di Paxton farsi largo tra la gente, probabilmente per venire ad aiutarmi.

<< Ho detto che devi- >>

<< Metterla giù, ho capito. >> lo interruppi << Non sono mica sorda >>

Senza distogliere gli occhi dal ragazzo avanti a me, che tremava visibilmente più di prima, con uno scatto veloce inserii la sicura e voltai il calcio verso di lui, aspettando che lo prendesse.

Il giovane allungò le braccia muscolose verso di me e con presa flebile si riprese l’arma.

<< Ti conviene inserire la sicura >> gli consigliai mentre andavo verso Paxton, che emerso dalla folla aveva assistito alla scena con un ghigno divertito << Se non vuoi rischiare di spararti in faccia >>

La folla rise di nuovo alla faccia sconvolta e sbalordita del giovane Agente, per poi dissiparsi velocemente.

Si era fatto tardi.

<< Grandissima Mal! >> si congratulò il mio amico << Hai visto la faccia di quel bifolco quando gli hai dato il mitra? E quella dell’altro era anche peggio! >>

Rise a crepapelle, asciugandosi una lacrima.

<< Sai com’è: non ho voglia che la paga mi venga dimezzata perché uno di quei cretini si spara da solo e poi da la colpa a noi >> ridacchiai, passandomi una mano tra i lunghi capelli.

<< Non me ne parlare! >>

Continuammo a camminare, ridacchiando e scherzando, come due veri fratelli. Come due normali ragazzi senza una storia dolorosa e una famiglia da mantenere sulle spalle.

Il suono lontano della sirena di inizio turno risuonò per la strada.

<< Cazzo >> sussurra Paxton con rabbia.

L’orologio della Farmacia segna le sette e quarantanove. Il nostro turno inizia alle otto in punto.

Nella mia testa echeggia il nono comandamento, pronunciato da uno dei Cavalieri.

Il ritardo è negligenza. La negligenza è disordine. Il disordine è il seme della discordia.

Arrivare a lavoro in ritardo è proibito. Qualunque ritardo è proibito.

Perdi il posto, perdi ogni diritto. Spesso, perdi anche la vita.

<< Porca merda >> dissi, non riuscendo a staccare gli occhi da quelle lancette, che stavano per firmare la mia condanna.

<< Corri! >> gridò, lanciandosi in una corsa disperata verso i cancelli della fabbrica, che sicuramente si stavano già chiudendo.

Presi un profondo respiro e con uno scatto secco iniziai a correre.

Le case sfrecciavano rapide, fino a diventare quasi una continua linea grigia. La figura di Paxton era pochi metri davanti a me, protesa in avanti, che schivava agilmente ostacoli e passanti.

Probabilmente erano tutti quelli che, avendo compiuto i quarant’anni, avevano il Turno d’Onore, che andava dalle quattordici alle ventidue. Dovevo ancora lavorare molto per meritarmelo. Questo ci ripetevano, giù in fabbrica.

Ma non ero così sicura che il verbo “meritare” fosse adatto, in questo caso.

Spinsi con i piedi sull’asfalto. Le cellule del mio corpo non dovevano pensare ad altro che a salvarsi.

Dal ponte alla fabbrica ci volevano venti minuti a piedi, se non meno. Correndo avrei potuto dimezzarli e dimezzare il mio ritardo. Correndo mi sarei potuta salvare.
Vedevo già i cancelli della fabbrica, mancavano poche decine di metri.

Potevo ancora farcela. Paxton era quasi arrivato. Era alto almeno quaranta centimetri più di me, la mia testa non superava di un pelo le sue spalle.

Il cuore mi rimbombava nel petto, nelle tempie, raschiava la gola assetata. La mia vita dipendeva dai miei piedi, dai miei muscoli. Avevo diciott’anni, tutta la forza necessaria per superare questa distanza. Mi potevo salvare.

La sirena era sempre più vicina. Il ferro dei cancelli cigolò, la lastra iniziò a scorrere. Le mie scarpe sembravano di cemento, non riuscivo a correre più di così ed ebbi l’impressione che invece di accorciarsi il terreno si espandesse.

Mancavano due metri, ma la fessura era stretta, ci sarebbero potuti passare due bambini abbracciati. La placca di metallo continuava a muoversi ed io mi sentivo già morta, un cadavere che corre.

Dall’altra parte c’era Paxton che mi chiamava.

<< Mallory! Mallory! Mallory! >>

Un altro metro, la fessura era lì, di fronte a me. Mi lanciai, braccia tese in avanti, il resto del corpo che seguiva.

Ero dentro?

Tenni le palpebre chiuse, strette in una morsa di speranza e disperazione, non avevo il coraggio di aprire gli occhi, ma dovevo.

Lo scarpone di Paxton mi apparve davanti. Non ero mai stata così felice di avere i suoi piedi in faccia.

<< Allora dovrò cominciare a prendere a calci questa tua faccia da stronza fortunata! >> rispose, aiutandomi a rimettermi in piedi.

Pulii via la polvere dai miei jeans, che si erano strappati appena su un ginocchio. Perfetto.

Ci avviamo all’entrata dell’edificio, verde e con una grande vetrata al piano superiore incredibilmente immacolata, con quattro camini sul tetto, da cui usciva fumo nero e pesante. Sembrava che facesse addirittura fatica a salire.

HARPER- INDUSTRIE PER LA LAVORAZIONE DEI METALLI

Nel cortile, ordinati in due file, tutti gli operai. Noi addetti alla manutenzione dobbiamo restare indietro, ultimi all’appello e alla distribuzione del pranzo.

La fila sembrava un enorme serpente. Dopo un po’ cominciò a muoversi.

La registrazione era iniziata. Era quello il modo in cui ci controllavano: ognuno doveva  riportare il proprio codice identificativo sul pannello di controllo all’entrata e dalla fessura sottostante usciva un sacchetto, di solito contenente un pezzo di pane e una bottiglia d’acqua. A noi manutentori consegnava anche il cinturone con gli attrezzi e la lista dei macchinari da riparare. Il tutto tenuto sotto controllo da quattro veri Agenti, posti ai lati della porta.

<< Fortuna >> sospirò sollevato Paxton ,allacciandosi la grossa cintura di cuoio da cui pendevano una chiave inglese, dei cacciaviti di varie dimensioni, una sacca di viti, un trapano e alcune punte.

Nella mia avevo dovuto fare cinque buchi in più, per quanto mi era larga.

<< C’è mancato poco >> risposi, afferrando il sacchetto del pranzo e passandogli la lista.

<< Che la cosa non capiti più. La prossima volta lascia il fucile a terra e che quel tipo si spari nel culo >> aggiunse con tono più autorevole, calandosi nella parte del Manutentore-Capo << Vediamo che cuccioli ci toccano oggi >>

E insieme ci dirigemmo verso la sala di saldamento dei bulloni, dove la saldatrice si era bloccata, mandando all’aria la produzione.

Dietro di noi riecheggiò l’eco del portone che si chiudeva.

                                                                                             
                                                                                               ******
 

La sirena di fine turno suonò alle diciassette in punto. Non sbagliava mai.

A quel punto tutti gli operai lasciarono ordinatamente le postazioni e si tolsero i camici, depositandoli in un cesto vicino all’entrata.

Quel giorno c’era stato parecchio lavoro da fare, almeno per noi manutentori. Avevamo aggiustato sette macchinari e sostituito i pannelli di due forni, lavoro non da poco.
Avevo le mani arrossate e doloranti, ma c’ero abituata perciò non ci feci troppo caso.

In silenzio, dopo essere usciti dalla fabbrica, stavamo tornando verso il ponte, dove poi ci saremmo separati.

<< Dovrai andare a casa da sola oggi >> esclamò << Devo passare alla Cava, da Wayne e Davon >>.

<< A fare cosa? >> domandai. Il lieve tremolio della sua voce sarebbe sfuggito a chiunque, ma non a me.

<< Scambi con le bande del Settore 5. Nulla di preoccupante, puoi stare tranquilla >>

Annuii, perché mi fidavo di lui. Ma sapevo che non sarei stata tranquilla.

Era risaputo, almeno nella parte sud del Canale, che le bande del Settore 5 non vedevano di buon occhio gli altri settori. Si diceva addirittura che tra loro si nascondessero degli Angeli, il che li rendeva ancora più pericolosi.

Tra loro e la banda capitanata da Xevo non scorreva buon sangue e più volte erano ricorsi all’uso delle armi per questioni, a mio avviso, futili e insensate. E Paxton era tornato con un proiettile nel braccio.

<< D’accordo >> lo rassicurai << Tanto non andrò direttamente a casa. Prima voglio passare all’Emporio >>

<< All’Emporio?! Di nuovo?! >> disse incredulo, guardandomi con gli occhi spalancati << Ci sei stata il mese scorso Mal! Non puoi andarci di nuovo! Non te lo permetterò! >>

<< Devo farlo Pax >> sussurrai stancamente << Cathy ha bisogno di medicine e con la mia attuale paga posso permettermene appena la metà >>.

Le mie dita si strinsero attorno alla già accartocciata busta di carta che conteneva la mia paga settimanale.

Quaranta dollari. Con gli straordinari del mese scorso.

Dieci se ne andavano per l’affitto, altri dieci per la luce, l’acqua ed il gas e quindici per il cibo di tutta la settimana. Così per le medicine ne restavano appena cinque, se tutto andava bene. Riuscivamo ad aumentare la somma con i risparmi della nonna e la misera pensione di vedova di cui disponeva, ma non era abbastanza.

Potevamo comprare pasticche per dormire, sciroppi aspri per la tosse, ma niente che potesse far realmente guarire Cathy. E lei doveva stare meglio. Non avrei permesso che subisse lo stesso destino di mamma e papà.  No.

<< Te li do io i soldi che ti servono! >> si offrii, porgendomi la sua busta paga. In quel momento il mio cuore si strinse in una morsa di…gratitudine. Gli ero grata per quello che stava facendo per me, per quello che aveva già fatto. Ma non avrei mai permesso che privasse la sua famiglia di vitale denaro.

<< Sai che non puoi farlo >> la scansai gentilmente << E se anche potessi, io non li accetterei. Non potrei mai privare la tua famiglia del cibo o della luce. >>

<< Ma… >> cominciò a ribattere.

<< Ma sai benissimo come finirebbe se iniziassimo questa discussione: vincerei io. L’abbiamo già fatto. Non  è la prima volta che faccio donazioni ravvicinate e sono ancora qui. Stai tranquillo >>

Per dare forza alle mie parole, gli posai la mano sulla guancia, quella con la cicatrice. Quel tipo di contatto l’aveva solo con me. Neanche sua madre poteva toccargli quello sfregio.

Forse a me lo permetteva perché ero stata io a medicarlo. Ma non me l’aveva mai detto.

Dopo aver immerso i suoi occhi nei miei per un attimo, sospirò e disse: << Va bene. Ma quando torno verrò a controllare come stai. Non mi importa se tua nonna dorme >>

<< Va bene >> sorrisi e ripresi a camminare.

Quando giungemmo alla fine del ponte ci salutammo con una veloce occhiata e un “sta attento”. Lui andò a destra, verso la Cava, e io proseguii dritta, in direzione dell’unico Emporio vicino casa.

Lungo le strade tutti i lavoratori si apprestavano a tornare alle proprie abitazioni per trovare un po’ di riposo. Mentre altri si avviavano a svolgere il turno di notte.

Le fabbriche non chiudevano mai. Funzionavano dall’alba all’alba del giorno dopo, solo con due brevi interruzioni: la pausa pranzo di un quarto d’ora e il cambio tra turno diurno e turno notturno.

Il rumore metallico dei macchinari, dei pistoni e degli ingranaggi non cessava mai. Era così impresso nella mia testa che mi sembrava di sentirlo anche mentre dormivo, a chilometri di distanza.

A volte non riuscivo a prendere sonno e vagavo come uno zombie per la casa, oppure salivo sul tetto a guardare il cielo. O meglio la nube di fumo.

Mi chiedevo cosa ci fosse dietro, oltre al sole. L’Enciclopedia che Eva, la mia dirimpettaia, aveva trovato nel cassonetto parlava di “stelle”.

Corpi celesti che brillavano di luce propria. Dietro doveva esserci un macchinario molto complesso per permettergli di farlo.

La notte era l’unico momento in cui potevo immaginare e sognare ad occhi aperti. Anche se i miei sogni riguardavano sempre macchinari da aggiustare o da sostituire.

Ero così persa nei miei pensieri che mi accorsi ,appena in tempo per evitare un “donatore” traballante, che ero arrivata all’Emporio.

L’insegna luminosa aveva una O e la I fulminate, mentre le altre lettere lampeggiavano e stridevano.

EMPORIO- LA DONAZIONE E’ ALLA BASE DEL VIVERE

Che mucchio di merdate.

Quelle donazioni di linfa servivano solo per indebolirci, e piano piano eliminarci, per poter avere nuovi appartamenti puzzolenti da dare a coppie appena sposate e posti di lavoro in più.

La mattina facevo sempre un “gioco” mentre andavo a lavoro: ricordare chi abitava in ogni palazzo, ripeterne il nome, l’età e altre informazioni imparate di anno in anno. Il fatto era che a volte le persone scomparivano, da un giorno all’altro. Le portavano via gli Agenti e allora non le vedevi più.

Addandonai quei pensieri ed entrai. Il campanello sopra la porta suonò e una ragazza piena di piercing e tatuaggi di tutti i colori emerse da un divisore color panna spento.

<< Che vuoi? >> mi domandò, masticando volgarmente una pseudo-gum. Una vomitevole ondata di odore di fragole mi colpì al viso come una folata di vento.

<< Sono qui per una donazione >> risposi e ,al contempo, cercai di trattenere una smorfia di disgusto.

<< Aspetta >> disse e si avvicinò alla scrivania all’entrata, prendendo dei fogli e porgendomeli << Compila questo. Quando hai finito riportamelo e poi procederemo con la donazione >>

Mi sedetti su una sedia in un angolo e iniziai a leggere.

1-Cognome e Nome
Richards, Mallory Rose.

2- Età-altezza-peso
Diciotto, uno e sessantanove, cinquanta.

3-Codice e categoria
Mpr9405, Impura

4-Quoziente di intelligenza Weschler, se lo sapete, ed età in cui è stato rilevato
Centotrenta, Età dodici anni.

La piccola sala di attesa era silenziosa e l’unico quasi impercettibile rumore era quello dello scorrere delle penne sul foglio.

Clitter, clitter, clitter

Dopo di me erano entrate altre cinque persone. Una delle quali, una ragazza di ,ad occhio e croce, ventidue anni, si era seduta vicino a me.

Emanava un odore di buono, di pulito. I capelli biondi le ricadevano lunghi sulla schiena e risaltavano sulla maglia nera che indossava. Aveva le gambe lunghe, elegantemente accavallate. Le dita affusolate e curate. Il profilo rivelava un naso lungo e appuntito e degli zigomi alti.

Non sembrava una di zona, o almeno io non l’avevo mai vista. Non sembrava neanche un Impura.

5-Ultima scuola frequentata.
Istituto Primario.

6-Vi siete diplomato?
No.

7- A che età avete lasciato la scuola?
Dieci anni.

8-Per quale motivo?
Motivi economici.

9-Nome ed età di parenti in vita, se ne ha.
Teale Ward, sessantasette
Catherine Rachel Richards, dieci.

10-Avete mai usato eroina o l’allucinogeno sintetico chiamato Scag?
No.

Quando riconsegnai il documento firmato alla giovane lo controllò svogliatamente non risparmiandosi profondo sospiri.

<< Bene >> disse appoggiandolo in cima ad un’alta catasta di altri fogli di registrazione alle donazioni << Vieni con me >>

Sculettando, mi condusse nella solita stanza asettica e che puzzava di candeggina. Apparte gli strumenti essenziali la stanza era completamente spoglia. Sempre che la muffa alla pareti non si possa definire “arredamento”.

Al centro, illuminata da una lampada al neon si ergeva la seduta, con la fodera strappata e sporca, dove il “donatore” doveva sedersi ed aspettare. La finta pelle stridette sotto di me.

Intanto la “ragazza di metallo” stava preparando tutte le attrezzature necessarie. Le conoscevo fin troppo bene: laccio emostatico, macchina separatrice, che divideva il sangue dalla linfa, ago e fiala. E naturalmente quello che io chiamavo “il foratore”. Uno strumento che serviva a penetrare fin dentro l’osso per poter prelevare una maggior quantità di linfa, e di qualità migliore.

Per questa procedura servirebbe, in casi normali, l’anestesia, ma qui era un privilegio a cui tutti avevano rinunciato. Piuttosto che spendere un dollaro era meglio sopportare un po’ di dolore.

Solo ora che la guardavo mi rendevo conto del modo ridicolo in cui era abbigliata: una gonna inguinale rossa, con calze a rete e scarpe con un tacco vertiginose bianche. Per non parlare della canotta che lasciava poco spazio all’immaginazione, rivelando un seno florido e coperto di tatuaggi.

<< Dammi il braccio che preferisci >>.

Le persi il destro. Sull’altro la ferita della precedente donazione aveva lasciato un livido violaceo che ancora mi doleva, in certi momenti.

Prese “il foratore” e me lo conficcò nella carne, senza un minimo di grazia. E senza laccio emostatico. Del sangue fuoriuscì dal buco, mi morsi il labbro per non  gridare. Con il laccio avrebbe fatto mano male.

Accese la macchina e questa con un po’ di fatica prese a funzionare, aspirando un liquido rosso con piccoli accenni di viola: la linfa.

Nessuno sapeva cosa gli Angeli ci facessero né perché ne avessero così bisogno, tanto che negli ultimi tre mesi la richiesta era aumentata. Così anche la retribuzione, e questa era la cosa che ci interessava.

<< Possono anche infilarsela nel cazzo con una cannuccia. Basta che mi paghino. >> diceva sempre Paxton, durante ogni donazione. Mentre la ragazza che se ne occupava di solito lo guardava con sguardo languido e malizioso.

Seduta in attesa cominciai a pensare a quello che avrei dovuto fare una volta tornata a casa: andare in Farmacia a prendere le pillole per Cathy, mandare al diavolo la signora Jenner, aggiustare il lavandino, fare una doccia, mangiare qualcosa e andare a letto. Ed erano solo le otto e venti, stando a quanto segnava l’orologio arrugginito e pericolante appeso al muro difronte a me.

La ragazza si era appoggiata con noncuranza al ripiano di metallo, limandosi le lunghissime unghie leccate di rosso. Bleah… che schifo. Nelle orecchie rimbombavano il ronzio della macchina al mio fianco e della lima.

Dopo quarantacinque minuti di trattamento, che mi fruttarono ben dieci dollari, le dissi di staccare tutto e una volta firmato un  altro documento che non persi neanche tempo a leggere, uscii e mi diressi verso casa, premendo un cerotto sulla ferita. La sala d’attesa era piena e la ragazza bionda era ancora seduta allo stesso posto a completare il test.

La testa mi pungeva leggermente; probabilmente a causa del poco dormire e del duro lavoro, cui si sommavano il poco mangiare e la donazione.

Si aprii il campo di battaglia. I lampioni accesi facevano luce sul mondo delle tenebre del Settore 4, un mondo fatto di perversione e droga, di lussuria e passione consumata in un angolo.

Le Sexy-case aprivano al pubblico con le loro 24 PERVERSIONI TUTTE DA GUSTARE, gli spacciatori uscivano dai loro buchi per vendere la loro merce e le bande si riunivano in stretti cerchi di motociclette.

Mi chiesi  cosa stesse facendo Paxton, come si stesse svolgendo l’incontro con quelli del Settore 5. Ma lui era un tipo furbo, se le cose si fossero messe davvero male sarebbe riuscito a svignarsela. Almeno speravo.

In lontananza scorsi il piccolo muretto fuori dal mio palazzo, davanti un barbone aveva piazzato il suo cartone e si stava preparando per sopravvivere a quella gelida notte.

Quando li vedevo, poveri e con i calzoni bucati, mi ritenevo fortunata ad avere quel che avevo, anche se mi costava fatica e sangue.

Tra tutti i rumori della notte, gemiti, rombi di motori e risate, giunse al mio orecchio un altro suono, più rauco e profondo, come di una tosse secca. Proveniva dal vicolo vicino casa e nessuno sembrava essersene accorto. Probabilmente era un drogato in piena estasi che di sicuro non voleva essere disturbato mentre si sballava.

Avevo imparato a mie spese quanto potessero essere violenti se osavi interromperli quando si facevano.

Feci per ritornare sulla mia strada, quando il rumore tornò. Questa volta più chiaro e definito.

Era un lamento, un gemito di dolore soffocato dalla tosse. Mi avvicinai, la stradina lievemente illuminata dalle luci delle finestre dei palazzi, e mi parve di scorgere dei piedi sbucare fuori da dietro un cassonetto, volti verso l’esterno. La puzza della spazzatura fresca accecava.

Poteva trattarsi di una trappola. Forse erano una banda di delinquenti che, sapendo che avevo fatto una consistente donazione, aveva intenzione di derubarmi attirandomi con questo stratagemma “della persona bisognosa” in un luogo buio e isolato.

Ma quando mi voltai per andarmene di nuovo, quel suono si fece sentire ancora. Questa volta capì cosa stesse dicendo.

Aiutami

Senza pensarci due volte mi gettai nell’ombra. Poteva essere Paxton o uno della banda, non avrei potuto lasciarli lì.

Col respiro pesante, che lasciava trapelare ansia e spavento, mi avvicinai alla figura seduta a terra. E quello che vidi mi lasciò senza fiato, il cuore si fermò e il mio cervello cercò di realizzare ciò che gli occhi gli inviavano.

Un ragazzo.

Con le mani sporche di sangue.


 
At the end of the day there's another day dawning
 And the sun in the morning is waiting to rise
 Like the waves crash on the sand
 Like a storm that'll break any second
 There's a hunger in the land
 There's a reckoning still to be reckoned and
 There's gonna be hell to pay
 At the end of the day!
  
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