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Autore: Carlos Olivera    02/08/2008    12 recensioni
Un lavoro finito in tragedia, una famiglia distrutta, e un dolore che solo la morte potrà sanare.
Un ragazzo disperato cerca la sua vendetta, la vendetta è la sua unica amica, la sua ragione di vita.
In un mondo governato dalla violenza, egli stesso la userà per infliggere il giusto castigo agli artefici del suo dolore, imprigionandoli in un incubo surreale che dovrà spingerli ad uccidersi tra di loro.
Un solo nemico.
La Lagoon Company.
Una fiction che avevo in mente già da tempo, e che per adesso è ancora in fase di sviluppo. Verso la fine dovrebbe essere anche un po' Rock/Revy. Buona lettura!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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PROLOGO

PROLOGO

 

 

Tokyo

 

All’interno, la palazzina era ridotta ad un immenso cimitero. I cadaveri di decine e decine di esponenti dei Ryuji giacevano a terra coperti di sangue, tutti morti o morenti.

  Chiunque lo avesse visto coi propri occhi, avrebbe faticato a crederci; uno dei più pericolosi e potenti gruppi criminali del Giappone era stato completamente sterminato nel giro di pochi minuti. I Ryuji erano noti per la loro brutalità, e per l’estrema efficienza dei loro reparti combattenti; quella palazzina era il luogo in cui avvenivano la gran parte dei traffici illeciti: droga, armi, sesso e quanto di peggio si potesse chiedere.

  venivano eseguiti anche gli omicidi degli esponenti di spicco delle altre famiglie criminali, ed ogni qualvolta vi si recassero i Ryuji la trasformavano in una fortezza, protetta a vista da uomini armati di tutto, dalle automatiche fino agli RPG.

  Quella sera erano tutti presenti, incluso il grande capo della famiglia, Kaito Ryuji, per assistere personalmente all’esecuzione di Momori Taijo, esponente di spicco dell’omonimo gruppo da tempo avversario dei Ryuji per il controllo della zona di Odaiba.

  La condanna stava quasi per essere eseguita, quando all’improvviso dall’esterno erano cominciati a risuonare i colpi dei fucili d’assalto, seguiti a breve tempo dalle grida strazianti degli uomini uccisi.

  Sulle prime si pensò che fosse un tentativo dei Taijo di liberare uno dei loro capi, e allora era stato dato l’ordine di respingerli con ogni mezzo, ma quale stupore per Kaito Ryuji quando gli fu detto che ad attaccare la palazzina era una sola persona.

  A dirlo fu uno dei suoi uomini, che risalito quasi morente all’ultimo piano fece appena in tempo a dire di chi si trattasse: lo descrisse come un uomo, all’apparenza un normale civile, armato fino ai denti e dotato di un’abilità a dir poco sensazionale.

  «Sembra uno di quei… Delta Force…» aveva detto il mafioso prima di morire.

  Meno di dieci minuti dopo anche il capo della famiglia Ryuji era morto dopo un inutile tentativo di fuga, ma una delle sue guardie del corpo si era salvata, e ora cercava in tutti i modi di lasciare quella specie di casa degli orrori con una pallottola conficcata nel fianco.

  Il dolore lo faceva zoppicare, e la mano che tamponava la ferita era zuppa di sangue, così come il suo bel vestito nero. Probabilmente era stato ferito anche alla gamba destra, o si era infortunato cadendo dalle scale nel tentativo di fuggire, perché zoppicava vistosamente, e questo rallentava di molto la sua fuga.

  Giunse alfine all’esterno della palazzina, e anche qui si trovò davanti ai corpi dei suoi compagni crivellati di colpi, come se l’aggressore avesse usato un caricatore da trenta colpi per ognuno di loro; anche le pareti, tanto all’esterno quanto all’interno, il cortile era pieno di cadaveri, e malgrado quell’uomo fosse abituato alla vista di simili, macabri spettacoli, a stento si trattenne dal vomitare.

  Era quasi riuscito ad oltrepassare i cancelli, quando udì alle sue spalle il rumore di uno sparo, e subito dopo cadde a terra, colpito alla spalla.

  Giratosi, aveva visto quella specie di mostro camminare lentamente verso di lui.

  Era poco più di un ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni, i capelli neri leggermente arruffati, la pelle chiara ed un viso assente, senza espressione. Vestiva in modo semplice, in jeans e maglietta, il tutto contornato da una giacca con il colletto di pelo.

  Stringeva un TAR-21 nella mano destra e una piccola wakizashi nella sinistra, quest’ultima con il sangue che ancora gocciolava dalla punta dopo essere stata affondata in più di una gola.

  Terrorizzato, il mafioso sollevò la sua beretta e sparò un colpo dietro l’altro nella speranza di fermarlo, anche se dentro di sé era consapevole che fosse solamente una perdita di tempo.

  Era come se quel tipo avesse davanti a sé un vetro antiproiettile, perché per quanti colpi gli venissero sparati contro nemmeno uno riusciva a centrarlo.

  In pochi secondi il caricatore si esaurì, e se lo ritrovò davanti; il cavallo dei suoi pantaloni era bagnato fuori dei modi, e il suo tremito si fece ancora più evidente quando lo vide sollevare il mitragliatore verso di lui.

  «Tu…» balbettò «Chi diavolo sei tu?».

  Quello lo guardò coi suoi occhi senza espressione.

  «Il fantasma della Seaborn Star».

  Nel sentire quel nome il mafioso ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi, e fu con quella espressione che morì dopo che cinque colpi sparati a bruciapelo lo attraversarono da parte a parte.

  E così, nello spazio di una notte, la famiglia Ryuji fu spazzata via.

  Il ragazzo restò da solo, in mezzo a tutti quei cadaveri che lui stesso aveva seminato.

  Dopo pochi secondi, appena uscì dal cancello, dalla stradina stretta che saliva lungo la collina giunse un fuoristrada di grossa cilindrata nero pece con gli abbaglianti accesi che si fermò poco distante da lui, lasciando il motore acceso.

  Ne scese un altro ragazzo, biondo, non eccessivamente alto, che indossava eleganti calzoni neri e una bella camicia nera a righe verticali.

  «Hai combinato un bel casino anche questa volta, eh Kyuzo?» disse in un giapponese un po’ stentato.

  «Hai avvertito la polizia?»

  «Saranno qua fra pochi minuti. Sarà meglio sparire, anche se pagherei una cifra per vedere le loro facce quando si troveranno davanti questo spettacolo».

  Kyuzo, come lo aveva chiamato il ragazzo biondo, si disfò del fucile, senza preoccuparsi minimamente di cancellarvi eventuali impronte, ma tenne con sé la spada e salì a sua volta sul fuoristrada, che giratosi recuperò velocemente la strada principale in direzione del centro di Tokyo, mescolandosi nel chaos della metropoli.

  «E con questi fanno quattro» disse il guidatore «E ora su chi ci concentriamo

  «Sugli ultimi rimasti.» rispose Kyuzo pulendo con un panno bianco la sua wakizashi prima di rinfoderarla

  «Allora, si va’ a Roanapur?».

  Kyuzo allungò una mano ed aprì il porta-oggetti, da cui recuperò un cofanetto che aprì. Conteneva un bell’esemplare di 9mm argentato con il calcio d’avorio su cui vi era un altorilievo in argento raffigurante un teschio con due spade incrociate sotto di esso.

  Affianco alla pistola c’era anche un proiettile, uno solo, e subito sotto il caricatore.

  Il ragazzo recuperò solo il proiettile e lo guardò; per un attimo, mentre lo stringeva con forza nel pugno, una lacrima rigò il suo volto da statua.

  «Harue…» sussurrò «Ti prego, pazienta ancora un po’. Molto presto, avrai la tua vendetta. Quella cagna pagherà per quello che ti ha fatto».

  Subito dopo, però, lo stesso volto fu attraversato da una smorfia di dolore. Il giovane si raggomitolò su stesso tenendosi il cuore con un vigore tale da far cedere che volesse strapparselo.

  «Kyuzo!» disse il biondo «Va’ tutto bene?»

  «Non… non è niente.» disse cercando di riprendere l’autocontrollo «Ora passa…»

  «La cosa comincia a farsi preoccupante, amico mio. Il tuo corpo sta collassando.»

  «Lo sapevamo che sarebbe accaduto…» rispose Kyuzo sparandosi letteralmente in vena un’ampolla piena di un liquido rossastro «Mi serve solo un’altra settimana. Non chiedo altro. Una settimana per spedire quelle due troie dritte all’inferno!».

 

  
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