PROLOGO
Tokyo
All’interno, la palazzina era ridotta ad
un immenso cimitero. I cadaveri di decine e decine di esponenti dei Ryuji giacevano a terra coperti di
sangue, tutti morti o morenti.
Chiunque lo avesse
visto coi propri occhi, avrebbe faticato a crederci;
uno dei più pericolosi e potenti gruppi criminali del Giappone era stato
completamente sterminato nel giro di pochi minuti. I Ryuji
erano noti per la loro brutalità, e per l’estrema efficienza dei loro reparti
combattenti; quella palazzina era il luogo in cui avvenivano
la gran parte dei traffici illeciti: droga, armi, sesso e quanto di peggio si
potesse chiedere.
Lì venivano eseguiti anche gli omicidi degli esponenti di
spicco delle altre famiglie criminali, ed ogni qualvolta vi si recassero i Ryuji la trasformavano in una fortezza, protetta a vista da
uomini armati di tutto, dalle automatiche fino agli RPG.
Quella sera erano
tutti presenti, incluso il grande capo della famiglia, Kaito
Ryuji, per assistere personalmente all’esecuzione di Momori Taijo, esponente di spicco
dell’omonimo gruppo da tempo avversario dei Ryuji per il controllo della zona di Odaiba.
La condanna stava
quasi per essere eseguita, quando all’improvviso dall’esterno erano cominciati
a risuonare i colpi dei fucili d’assalto, seguiti a breve tempo dalle grida
strazianti degli uomini uccisi.
Sulle prime si
pensò che fosse un tentativo dei Taijo di liberare
uno dei loro capi, e allora era stato dato l’ordine di
respingerli con ogni mezzo, ma quale stupore per Kaito
Ryuji quando gli fu detto che ad attaccare la
palazzina era una sola persona.
A dirlo fu uno dei
suoi uomini, che risalito quasi morente all’ultimo piano fece appena in tempo a
dire di chi si trattasse: lo descrisse come un uomo, all’apparenza un normale
civile, armato fino ai denti e dotato di un’abilità a dir poco sensazionale.
«Sembra uno di
quei… Delta Force…» aveva detto il mafioso prima di
morire.
Meno di dieci minuti dopo anche il capo della famiglia Ryuji era morto dopo un inutile tentativo di fuga, ma una
delle sue guardie del corpo si era salvata, e ora cercava in tutti i modi di
lasciare quella specie di casa degli orrori con una pallottola conficcata nel
fianco.
Il dolore lo
faceva zoppicare, e la mano che tamponava la ferita era zuppa di sangue, così
come il suo bel vestito nero. Probabilmente era stato ferito anche alla gamba
destra, o si era infortunato cadendo dalle scale nel tentativo di fuggire,
perché zoppicava vistosamente, e questo rallentava di
molto la sua fuga.
Giunse alfine
all’esterno della palazzina, e anche qui si trovò davanti ai corpi dei suoi
compagni crivellati di colpi, come se l’aggressore avesse usato un caricatore
da trenta colpi per ognuno di loro; anche le pareti, tanto all’esterno quanto
all’interno, il cortile era pieno di cadaveri, e malgrado quell’uomo fosse
abituato alla vista di simili, macabri spettacoli, a stento si trattenne dal
vomitare.
Era quasi riuscito
ad oltrepassare i cancelli, quando udì alle sue spalle
il rumore di uno sparo, e subito dopo cadde a terra, colpito alla spalla.
Giratosi, aveva
visto quella specie di mostro camminare lentamente verso di lui.
Era poco più di un
ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni, i capelli neri leggermente
arruffati, la pelle chiara ed un viso assente, senza
espressione. Vestiva in modo semplice, in jeans e maglietta, il tutto
contornato da una giacca con il colletto di pelo.
Stringeva un
TAR-21 nella mano destra e una piccola wakizashi
nella sinistra, quest’ultima con il sangue che ancora gocciolava dalla punta
dopo essere stata affondata in più di una gola.
Terrorizzato, il
mafioso sollevò la sua beretta e sparò un colpo dietro l’altro nella speranza
di fermarlo, anche se dentro di sé era consapevole che fosse solamente una
perdita di tempo.
Era come se quel
tipo avesse davanti a sé un vetro antiproiettile, perché per quanti colpi gli venissero sparati contro nemmeno uno riusciva a centrarlo.
In pochi secondi
il caricatore si esaurì, e se lo ritrovò davanti; il cavallo dei suoi pantaloni
era bagnato fuori dei modi, e il suo tremito si fece ancora più evidente quando
lo vide sollevare il mitragliatore verso di lui.
«Tu…» balbettò «Chi diavolo sei tu?».
Quello lo guardò coi suoi occhi senza espressione.
«Il fantasma della
Seaborn Star».
Nel sentire quel
nome il mafioso ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi, e fu con quella espressione che morì dopo che cinque colpi sparati a
bruciapelo lo attraversarono da parte a parte.
E così, nello
spazio di una notte, la famiglia Ryuji fu spazzata
via.
Il ragazzo restò
da solo, in mezzo a tutti quei cadaveri che lui stesso aveva seminato.
Dopo pochi
secondi, appena uscì dal cancello, dalla stradina stretta che saliva lungo la
collina giunse un fuoristrada di grossa cilindrata nero pece con gli
abbaglianti accesi che si fermò poco distante da lui, lasciando il motore
acceso.
Ne scese un altro
ragazzo, biondo, non eccessivamente alto, che indossava eleganti calzoni neri e
una bella camicia nera a righe verticali.
«Hai combinato un
bel casino anche questa volta, eh Kyuzo?» disse in un
giapponese un po’ stentato.
«Hai avvertito la
polizia?»
«Saranno qua fra pochi minuti. Sarà meglio sparire, anche se pagherei
una cifra per vedere le loro facce quando si troveranno
davanti questo spettacolo».
Kyuzo, come lo aveva chiamato il ragazzo biondo, si disfò del fucile, senza preoccuparsi minimamente di
cancellarvi eventuali impronte, ma tenne con sé la spada e salì a sua volta sul
fuoristrada, che giratosi recuperò velocemente la strada principale in
direzione del centro di Tokyo, mescolandosi nel chaos
della metropoli.
«E con questi
fanno quattro» disse il guidatore «E ora su chi ci concentriamo?»
«Sugli ultimi
rimasti.» rispose Kyuzo pulendo con un panno bianco
la sua wakizashi prima di rinfoderarla
«Allora, si va’ a Roanapur?».
Kyuzo allungò una mano ed aprì il
porta-oggetti, da cui recuperò un cofanetto che aprì. Conteneva un
bell’esemplare di 9mm argentato con il calcio d’avorio su cui vi era un
altorilievo in argento raffigurante un teschio con due spade incrociate sotto
di esso.
Affianco alla
pistola c’era anche un proiettile, uno solo, e subito sotto il caricatore.
Il ragazzo
recuperò solo il proiettile e lo guardò; per un attimo, mentre lo stringeva con
forza nel pugno, una lacrima rigò il suo volto da statua.
«Harue…» sussurrò «Ti prego,
pazienta ancora un po’. Molto presto, avrai la tua vendetta. Quella cagna
pagherà per quello che ti ha fatto».
Subito dopo, però,
lo stesso volto fu attraversato da una smorfia di dolore. Il giovane si
raggomitolò su sé stesso tenendosi il cuore con un
vigore tale da far cedere che volesse strapparselo.
«Kyuzo!» disse il biondo «Va’ tutto
bene?»
«Non… non è
niente.» disse cercando di riprendere l’autocontrollo «Ora passa…»
«La
cosa comincia a farsi preoccupante, amico mio. Il tuo corpo sta collassando.»
«Lo sapevamo che
sarebbe accaduto…» rispose Kyuzo sparandosi
letteralmente in vena un’ampolla piena di un liquido rossastro «Mi serve solo un’altra settimana. Non chiedo altro. Una settimana per spedire quelle due troie dritte all’inferno!».