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Autore: Sheep01    02/06/2014    4 recensioni
Si concentrò sulla schiena solida del fratello. L’unica cosa concreta a dargli un senso di stabilità e calore.
Barney era tutto per lui. Fratello, amico, consigliere, padre e madre assieme. Lui che del padre ricordava solo la voce tonante e l’alito che sapeva di alcool e il peso delle sue percosse. Che della madre ricordava solo il profumo dei suoi capelli e i singhiozzi spezzati, umiliati, nella notte. Il fratello era stato il pilastro della sua vita, l’unico esempio da seguire. Protettore e cavaliere dall’armatura scintillante. Ed ora il suo salvatore.
[A Tribute to Clint Barton]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 18

[Phil]

 

A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale.

(Big Fish)

 

*
 

Clint aprì l’armadio.

Scrutò per qualche istante nelle sue disordinate profondità prima di dare concretezza ai suoi più atroci dubbi: non possedeva abiti neri.

Di nessun tipo. Non un paio di pantaloni, non una camicia, una maglietta. Una canottiera, un paio di calzini…

Valutò miseramente che forse avrebbe potuto battere un record.

A meno che non avesse voluto prendere in considerazione la divisa.

L'abbigliamento in dotazione allo SHIELD era nero. Così come neri erano tutti gli accessori che l’accompagnavano.

Era certo, però, che qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire se si fosse presentato con una divisa. Che nemmeno poteva considerarsi un gran tributo come quella dell’alta uniforme militare.

Si passò una mano fra i capelli, ancora scompigliati dopo la lunga notte insonne.

Ignorò lo specchio e considerò che, dopotutto, forse quell’abito blu scuro che una volta aveva usato per una festa, come copertura, sarebbe andato bene. Non lo aveva mai restituito. E lo aveva lasciato marcire nello stesso sgabuzzino in cui teneva i cappotti.

Puzzava un po’ di naftalina, ma sembrava essere ancora in buono stato.

Lo tirò fuori dal cellophane e lo sistemò sul letto. Forse avrebbe tirato un po’ sulla pancia. Erano passati almeno dieci anni. La giacca avrebbe anche potuto non chiuderla.

Era primavera. Fuori faceva caldo.

Il cielo era limpido. Una giacca sarebbe stata in ogni caso un impiccio.

Decise che forse avrebbe fatto meglio a radersi. E magari farsi una doccia.

In qualsiasi ordine.

Non era poi così importante.

Doveva solo fare le cose con calma. Una per volta, senza fretta. Senza troppe elucubrazioni.

Come quando aveva dovuto riprendere a camminare una delle tante volte in cui lo avevano dimesso dall'ospedale; mettere un piede di fronte all’altro, un passo alla volta, senza sforzi, senza brusche deviazioni.

Sarebbe andato tutto bene.

Tutto… bene.

In quella gloriosa mattina dei primi di giugno, Clint Barton cominciò a prepararsi per il funerale di Phil Coulson.

 

*

 

Avrebbe dovuto tornare indietro di molti anni per ricordare l’ultimo funerale a cui aveva partecipato.

L’unico a cui era stato costretto a partecipare. Per obbligo, più che per reale affezione. Considerazione brutale, ma affatto ipocrita.

Dopo di quello, nulla più. Una decisione dovuta ad una presa di coscienza ben precisa: non amava gli addii.

 

Dell'ultimo ricordava l’odore della terra smossa. Un vago pizzicore al naso.

L’omelia del pastore. Il chiacchiericcio sommesso dei pochi presenti. Dei compagni di bevute del padre, delle loro mogli, dei loro figli, i compagni di scuola. Di qualche curioso anziano che non aveva niente di meglio da fare.

Nelle piccole comunità persino un funerale diventava un evento collettivo. Di costume.

Clint ricordava il peso del loro sguardo, nauseante nella sua marcata compassione.

Che ne sarà adesso di quei poveri ragazzi?

Chi si prenderà cura di loro, povere anime?

Come se si fossero mai presi la briga di venirli a trovare, nei mesi successivi. O di interessarsi delle loro sorti.

Barney gli stava di fianco, impettito e serio. Incrollabile. Lui, invece, non aveva mai alzato la testa. Qualcuno lo aveva interpretato come una sorta di remissivo dolore.

In realtà Clint stava solo facendo i suoi calcoli per il futuro. Pensava che, da quel punto in poi, tutto avrebbe potuto solamente migliorare.

 

Buffo come fosse cambiata la prospettiva. Dalle perdite che donano la rinascita, a quelle che navigano in un limbo di ovattato dolore.

Perché era così che si sentiva. Clint non era riuscito a versare una sola lacrima da quando aveva appreso della morte di Phil Coulson.

Aveva registrato la notizia solo quando la battaglia di New York (con i Vendicatori tutti) era giunta al suo sofferto epilogo. Prima che congedassero Loki una volta e per sempre.

Loki: il responsabile della sua deformazione mentale, il responsabile diretto della morte di Coulson. La rabbia sedata con l'ultima immagine di quel dio esile, nello specchio dei suoi occhiali da sole.

Non aveva saputo quantificare il dolore della perdita o misurare il senso di colpa con cui, prima o dopo, avrebbe dovuto fare i conti. Né dare un nome a quel grumo che gli impediva di concretizzare una dignitosa esplosione.

Impensabile realizzare che Phil se n'era andato per sempre.

Che non lo avrebbe mai più rivisto. Nemmeno per un breve saluto. Nemmeno il tempo di una pausa caffè.

Incredulo. Attonito.

Non riusciva a raggiungere la fase successiva, quella dell’accettazione.

Eppure aveva acconsentito di partecipare alle esequie. Era quindi un dato di fatto che da lì a breve Phil non sarebbe stato altro che cibo… per i vermi.

Nascosto, per sempre, alla vista di tutti.

Così assurdo come concetto che… forse per quello, Clint non riusciva ad accettarlo.

Una sensazione che non riusciva ad abbandonare. Che prima o poi lo avrebbe schiacciato. Devastandolo.

Non che lo considerasse un problema. Non riusciva ad aggrapparsi al dolore per farlo suo. Forse per colpa dei postumi del potere di Loki sulla sua mente, forse per deformazione psicologica congenita.

Dunque stava in un limbo. E viveva a rallentatore. In un mondo scandito da piccoli gesti, piccole conquiste, come quella di essersi trascinato al cospetto dell’ultimo viaggio dell’amico e collega.

 

Non una grossa sorpresa quella di trovare il cimitero assolato (uno schiaffo all'atmosfera sgradevole del lutto) ghermito di gente. Ognuno con il suo carico di esperienza. A raccontare con gli abiti scuri e l’espressione greve tutto ciò che Phil Coulson aveva rappresentato nella vita di ognuno di loro.

Un dolore condiviso. Un conforto collettivo.

Percepiva stralci di conversazioni che lo ricordavano con aneddoti più o meno distensivi.

Degli anni dell’accademia.

Di quella volta, durante una missione...

Della sua ossessione per le collezioni.

Delle sue battute scadenti.

Delle sue straordinarie doti diplomatiche.

Un quadro che lo ricostruiva più o meno fedelmente.

Una massa di voci che sommate, una per una, non facevano che costruire un mosaico in grado quasi di riportarlo in vita. Di renderlo tangibile, quasi reale, presente. Ancora una volta, anche se solo per un triste pomeriggio di fine primavera.

Clint non si sarebbe stupito di vederlo comparire proprio lì, di fronte a loro. Con quel sorriso pacato, rassicurante.

A ribadire che sarebbe andato, ancora una volta, tutto bene.

 

Si era fatto strada in quel labirinto umano, cercando un posto accanto a quella orribile buca, profonda due metri... o poco più.

Non aveva dato che un rapido sguardo alla bara dal riflesso accecante.

Indossava un paio di occhiali scuri, più che altro per nascondere le terribili occhiaie che testimoniavano che no, non era più riuscito a dormire. Non più di un paio di ore a notte... da quando...

Bè, da quando.

Aveva scorto il direttore Fury. Maria Hill, quel pelato di Sitwell e... non era la May, quella in disparte, accanto a uno dei cipressi?

Tony Stark, leggermente distante, al fianco di quella che ricordò vagamente come la sua fidanzata. Accanto a loro quello che registrò come Bruce Banner (era stato abituato a vederlo più da bestione che da essere umano, nelle ultime ore).

All'ombra di un acero persino l'imponente figura di Steve Rogers.

Coulson avrebbe dato di matto a sapere Capitan America al suo funerale. Come vederlo.

C'erano davvero tutti.

E alla fine della lista ecco Natasha. Che non lo aveva perso di vista un solo istante, da quando era entrato nel suo campo visivo.

“Ehi.” l'aveva raggiunta, a stento. Non un cenno di sorriso. Non era sicuro di avere muscoli abbastanza reattivi da produrre qualcosa di soddisfacente.

“Ehi...” la pacata risposta. Lo stava scrutando. Clint ringraziò di avere la protezione di un paio di lenti scure.

Non condivisero che un muto scambio di battute.

 

Non credevo saresti venuto.”

Nemmeno io.”

 

Una lista interminabile di parole che mai sarebbero state pronunciate.

Un sospiro.

E poi la funzione ebbe inizio.

 

*

 

Non era rimasto a guardare.

Dopo tutte quelle parole, c'era stato un susseguirsi di discorsi più o meno commoventi per celebrare la vita dell'Agente Coulson, le accalorate parole di Fury. Non aveva potuto restare a guardare.

Guardare quella buca che veniva definitivamente ricoperta di terra scura.

Era stato uno dei primi ad allontanarsi.

Aveva fatto il suo dovere.

Così come tutti si aspettavano che facesse.

Così come probabilmente Coulson si augurava che facesse.

Per quello si era presentato, nonostante la sua decisione riguardo i funerali: Coulson non se lo sarebbe atteso. Non poteva certo dargli questa ultima, definitiva soddisfazione, giusto?

Non quella di saperlo a casa ad annegare nel suo desiderio di alcool (che si riassumeva in un paio di birre ammezzate in frigorifero), non quella di stare a guardare, da lontano, come una di quelle anime tormentate dei film, ad attendere la fine delle funzioni per maledire il cielo per aver reciso la sua vita così prematuramente.

Clint voleva stupirlo, ancora una volta. Dargli la possibilità, ovunque egli fosse, di sapere che era andato a salutarlo. Contro tutte le previsioni. Per non concedergliela... quell'ultima, assurda soddisfazione.

Quando si sentì richiamare quasi non registrò la voce.

Si voltò solo per trovarsi di fronte un figurino esile dal viso pallido. I capelli color del miele.

“Bobbi... ?”

“Ciao Clint...”

Sentì qualcosa andare ad accumularsi al grumo inesploso di cui si era già abbondantemente lamentato. Non riuscì, nemmeno in quell'occasione, durante quell'attimo di inaudita sorpresa, a concedersi un sorriso.

“Ti avevo... visto arrivare, ma non ho osato avvicinarti... è iniziata la funzione...”

“Non preoccuparti.” le disse, scostandosi gli occhiali in un gesto istintivo. Ricordava ancora, quanto odiasse vederglieli indossare e non poterlo guardare negli occhi.

Si rese conto di aver fatto una cazzata quando percepì un misto di pena e compassione nello guardò che gli riservò l'istante successivo.

“Oh, Clint...” la sentì pronunciare, prima di trovarsi coinvolto in un lungo abbraccio.

Irrigidito e preso alla sprovvista, l'unica cosa che registrò immediatamente fu che aveva ancora lo stesso profumo.

Un pensiero tanto assurdo quanto annichilente. Le costanti, in un mondo che, nonostante tutto continuava a girare. E in quel moto di rotazione e rivoluzione, lui lo aveva fatto precipitare di nuovo nelle braccia di qualcuno, qualcuno che era già stato parte della sua vita.

Dannato Coulson.

“Ho pensato così tante volte di venirti a trovare. Ma... speravo di rivederti in una situazione meno...” si era finalmente scostata e gli stava sistemando il nodo della cravatta.

“Calda.” gli venne istintivo ribattere.

“Come?”

“Calda. Fa... caldo. Magari sarebbe stato meglio... in inverno.” e nel dirlo si era di nuovo allentato quel nodo fastidioso. Perché si era messo una cravatta, comunque?

Bobbi reclinò il capo di lato, e a Clint ricordò tanto Lucky, quando sembrava non comprendere quello che gli stava dicendo.

“Lascia perdere.” aveva persino fatto un cenno con la mano e nonostante i buoni propositi inforcò nuovamente i suoi occhiali. L'avrebbe infastidita, ma non era certo lì per compiacerla, giusto?

“Avevo scordato il tuo umorismo...”

“Da quattro soldi. Lo so.”

Lei gli sorrise. Vi lesse ancora un cenno di quella compassione affatto richiesta. Dopotutto Coulson non era anche amico suo?

Perché sembrava che fosse l'unico ad aver bisogno di essere consolato?

La considerazione ebbe il potere di irritarlo. Per la prima volta un sentimento concreto. Potente.

“Io sto bene, comunque.” dovette per forza sottolineare.

Bobbi annuì, una sola volta, come a prenderne atto, quello sguardo ancora lì. Pronto a giudicarlo. A compatirlo.

E fu troppo.

“Bè, è stato bello rivederti.”

“Anche per me, Clint. Senti, pensavo... non lo so. Di poter prendere un caffè insieme, se ti va.”

Clint fece una smorfia. Avrebbe dovuto concederglielo? Prolungare quella farsa? Quell'assurda agonia? D'altro canto sarebbe passato per un cafone, per uno stronzo. Come se non si fosse già sufficientemente fatta un'opinione simile su di lui, anni prima.

Cercò una scusa più o meno plausibile per declinare l'offerta quando si vide arrivare incontro Natasha.

“Andiamo?” gli aveva detto, senza che lui le avesse chiesto proprio un bel niente.

Andiamo dove? La domanda rimase muta, ancora una volta, dietro quegli occhiali scuri.

Si ritrovò ad annuire ancora prima di registrarlo.

“Scusa, Barbara... magari sarà per la prossima volta.”

Riconobbe una punta di delusione nei suoi occhi, ma non indagò oltre. Si chinò per un ultimo bacio e un congedo che si dava appuntamento a una data da destinarsi.

 

“Come hai fatto a capire che avevo bisogno di una scappatoia?” domandò a Natasha, che ora procedeva rapida al suo fianco.

“Alta, bionda, carina... hai sempre bisogno di una scappatoia per quel tipo di donna.”

“Mi conosci bene.”

“Più di quanto vorrei.”

Clint non comprese immediatamente il peso di quelle parole, ma non fece domande, mentre raggiungeva la macchina di Natasha. Un'assurda Corvette Stingray nera.

“U-un momento... quando ti sei comprata questo bolide?”

Natasha non rispose.

Perché avevano tutti macchine così potenti, tranne lui?

 

*

 

Si era finalmente liberato della cravatta. Delle scarpe. Di quell'assurda giacca (che ancora sapeva di naftalina). Aveva scalciato i pantaloni, ora mollemente distesi sulla sponda del letto.

Si era gettato a peso morto sul materasso e aveva osservato il soffitto.

Lucky dormiva sul divano, nell'altra stanza, ignaro di tutto.

Gli aveva invidiato quella sua inconsapevolezza. Forse voleva essere un cane.

Si chiese se sarebbe riuscito a dormire, almeno quella notte. Dopotutto era uscito di casa. Aveva fatto del moto. Aveva visto gente. Speso energie per non lasciarsi andare a commenti più o meno sarcastici riguardo al modo compito con cui tutti quegli individui avevano affrontato la giornata.

I funerali non avevano senso. I funerali erano una pura formalità.

Ti costringevano a riprendere contatti con persone che credevi evaporate nell'atmosfera (Bobbi), ti costringevano a fare considerazioni più o meno lugubri sulla vita, sulla morte. Sul lavoro dei becchini. Sulle parole di quel funzionario di Dio che, Clint era certo, nemmeno lo aveva mai conosciuto Coulson.

Coulson.

Coulson.

Questa volta l'aveva combinata grossa, Coulson.

Era sicuro che nemmeno ci avesse pensato allo sgarro che aveva fatto a tutti loro, lasciandoci le penne.

Un incentivo per i Vendicatori, aveva detto Nick Fury. Certo. Bè, i Vendicatori, per quanto lo riguardava, avrebbero potuto trovarsi qualcun altro da sacrificare.

Loki... avrebbe potuto trovare un altro modo per concludere a gloria quella sua dannata patetica, disgustosa ripicca divina.

Riconsiderare le sue scelte del cazzo, prima di arrivare a scombinargli il cervello e poi portarsi via un amico.

 

Il suo migliore... amico.

 

Il petto fece un sussulto non richiesto.

Phil... era il suo migliore amico.

Gli avevano sempre detto che è difficile trovare anime affini su questa terra. Quasi impossibile.

Clint le avrebbe potute contare sulle dita di una sola mano. Senza nemmeno utilizzarle tutte e cinque.

E...

Una delle cinque aveva appena deciso, empaticamente, di chiamarlo sul cellulare.

Clint venne strappato bruscamente dalle sue elucubrazioni, interrotto nel corso di un paio di considerazioni che lo avrebbero condotto da qualche parte, a sbloccare quel grumo assurdo che lo costipava da giorni, ne era sicuro.

“Barney, stronzo...” esordì.

“Ah... C-Clint? Oh... ma vaffanculo.”

Clint aveva appena sorriso. Se non altro la sicurezza di avere ancora dei muscoli facciali in grado di farlo.

“È che mi hai interrotto.”

“Ah. Non lo sapevo. Che stavi facendo?”

“Ero a letto.”

Una pausa, piuttosto significativa.

“Da... solo?”

Clint fece schioccare la lingua.

“No, in compagnia della mia mano.”

“Clint, cazzo, dai!”

Si passò una mano sul viso a soffocare una risata. Forse isterica.

“Scusa.” lasciò la mano lì dov'era, a coprirgli gli occhi. A pararlo dal bianco accecante del suo inutile soffitto.

“Volevo...”

“Sto bene.”

Il respiro di Barney dall'altra parte della cornetta. Clint era sicuro stesse elaborando una risposta.

“Sarei venuto se...”

“Non ti preoccupare.” La vita non si interrompe per il funerale di amici altrui.

“Volevo solo assicurarmi che... non avessi bisogno di qualcosa.”

Un'altra lunga pausa. Lo stomaco ancora aggrovigliato. Il dolore adesso risaliva a cerchi concentrici.

Non era vero che stava bene e non era vero che non c'era niente di cui preoccuparsi.

Clint aveva bisogno che qualcuno fosse lì.

A dirgli che sarebbe andato tutto bene.

Per assurdo, l'unica persona che gli aveva sempre dato quella rassicurazione era Coulson.

E Coulson era morto.

Morto.

Kaputt.

Finito.

Estinto.

Trapassato.

Remoto.

Il groviglio fece un movimento strano.

“Ho solo bisogno di dormire, Barney.”

Dimmi che andrà tutto bene.

“D'accordo. Sai dove trovarmi... se... avessi bisogno di parlare.”

Dimmi che andrà tutto bene, Barney.

“Certo che lo so.” una simulazione piuttosto buona, stavolta, di un po' di sana spavalderia.

Dimmi che andrà... tutto bene.

“Okay allora... buonanotte.”

Tutto...

“Notte, Barney.” aveva riattaccato.

Bene.

Nemmeno si era reso conto di aver scagliato il cellulare dall'altra parte della stanza.

Il crash contro la parete, scandito dal latrato di Lucky e dal rombo di un tuono lontano.

Avrebbe cominciato a piovere di lì a poco.

Di bene in meglio.

 

*

 

Non era sicuro di poter ricostruire la sequenza degli attimi successivi alla telefonata con Barney.

Si era rivestito. Una felpaccia, jeans e un paio di scarpe consunte. Doveva uscire da lì.

Il silenzio del suo appartamento, il rumore della pioggia. Più che calmarlo, quel ritmo aveva finito per scandire il suo tumulto interiore.

Che ora si era ingigantito, smosso. Pronto a una deflagrazione che non era certo di poter contenere. O gestire.

L'assenza.

Quella stupida assenza.

Un vuoto che per ossimoro lo aveva improvvisamente riempito. E reso pronto al confronto finale. Che aveva sperato di rimandare il più a lungo possibile.

Le scarpe sguazzavano nei rivoli di pioggia lungo i marciapiedi. L'acqua gli impregnava la felpa rendendola pesante, sgradevole.

Aveva attraversato mezzo distretto, cercando di dare sfogo a quello che aveva preso a circolargli dentro, inarrestabile.

Superato un paio di allettanti pub.

Non era nemmeno orgoglioso della scelta di non sprofondare in quella sua obnubilante perdizione.

Aveva percorso quelle vie silenziose, cercando di concentrarsi sul rumore della pioggia, di non sussultare a quello violento dei tuoni. E si era fermato solo quando si era reso conto di dove lo avessero portato i suoi passi.

Alzò lo sguardo andando a cercare quella finestra. La luce spenta, che non si sarebbe accesa finché qualcun altro non avesse affittato di nuovo i locali.

L'appartamento di Phil.

Vinse l'impulso di suonare al citofono. L'assurda speranza che gli avrebbe risposto, svelando la burla.

Quel tremendo piano ordito per fargliela pagare per tutte quelle volte che non gli aveva dato ascolto.

Represse un moto di disgusto.

Patetico. Si sentì così patetico. Mentre quel groviglio ancora lì, fermo, assurdamente ingombrante gli impediva di sfogare tutta quella... rabbia... che aveva dentro.

Dimmi che andrà tutto bene.

E poi improvvisa, la sensazione di non essere solo.

Sussultò, scorgendo una silhouette, nella penombra di quella via scarsamente illuminata dalla luce dei lampioni.

Coulson.

Il groviglio che prese a ribollire, minaccioso.

“Natasha...” pronunciarono le sue labbra mentre la figurina minuta della donna veniva verso di lui. Un ombrello rosso, grosso quanto quelli da spiaggia. Comica nella sua inconsistenza.

Muta la domanda: che cosa ci fai qui?

“Ero venuta a cercarti a casa... non c'eri.”

Clint non rispose. Non era nemmeno sicuro ce ne fosse bisogno.

“Sapevo... che ti avrei trovato qui.”

Natasha. Un'altra di quelle persone di fiducia che avrebbe potuto contare... sulle dita di quell’unica mano.

Aveva il volto tirato. L'aria stanca. Così stanca. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Come non accorgersene quello stesso pomeriggio?

Era stato così preoccupato a capire perché non riuscisse a elaborare il lutto che non si era accorto di quanto chiunque, come lui, quel giorno stesse facendo i conti con quello stesso caos.

Di come probabilmente lei stessa lo stava affrontando.

Si limitò a fissarla, ad asciugarsi il viso fradicio, a metterla a fuoco.

“Ero... ero preoccupata... per te.” quattro parole e Clint si rese conto quanto le fossero costate.

E fu solo allora, in quella stupidissima notte di metà giugno che la vera deflagrazione ebbe inizio.

“Mi dispiace...” gli uscì in un sussurro così sottile che quasi non riuscì a udirlo egli stesso.

Le si avvicinò, quasi entrando in collisione con quel suo comico ombrello rosso.

Lei se ne sbarazzò senza esitazione per poterlo abbracciare così come non aveva osato fare quello stesso pomeriggio, in mezzo a tutta quella gente assurda, così estranea al loro comune, personalissimo dolore. Mentre lui la baciava, disordinatamente, sul viso, sulle labbra, così come non aveva osato fare mai.

 

“Andrà tutto bene...”

Clint non seppe dire, nella confusione della pioggia e della deflagrazione dei tuoni, chi dei due lo avesse pronunciato per primo.

 

___

 

N.d.A: Un capitolo a cui sono particolarmente legata. Al quale ho pensato più o meno da subito quando sono entrata nell'universo MCU. Insomma, un omaggio al nostro Coulson e al modo in cui i suoi colleghi e amici hanno preso la sua scomparsa. E a come abbia soprattutto reagito Clint, ancora vittima dei postumi di Loki, incapace di elaborare immediatamente la faccenda.

E poi sì, lo ammetto, era il momento di far esplodere la shippatrice (di borselli) che è in me.

Un ringraziamento a TUTTI ma veramente tutti quanti leggano, alle gradite new entry, e al solito alla onnipresente beta.
Next!

  
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