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Autore: Unicorno Alato    02/06/2014    1 recensioni
Londra 1960
Lei, Figlia del re d'Inghilterra.
Lui, il solito bar-man.
Oppure no?
Isabella Beth Clark ha molti problemi nella vita. I genitori che non la comprendono, una società stringata e inflessibile. Cosa succederà quando conoscerà la trasgressione in persona?
Nessuno l'aveva fatta sentire così bene prima di allora.
C'è un piccolo problema però: Innamorarsi non rientrava certo nei piani...
Tratto dalla storia:
-Scusi Mr Bieber. Devo andare. Spero di incontrarvi di nuovo un giorno.- dissi mentre mi toglievo la maschera che avevo indossato per tutta la sera. La posi sul balcone e la lasciai lì. Se avesse voluto ritrovarmi l’avrebbe fatto grazie a quella.
-Se fossi in lei non cercherei di incontrarmi di nuovo.- Mi guardò torvo, e poi guardò la maschera. La prese in mano e la girò tra le dita. -Non sono il tipo per lei.- disse duro, con la voce spezzata e la mascella contratta, mentre la sua mano si stringeva sulla mia maschera. Non mi importava, era l’unico che poteva salvarmi da me stessa e l’avevo capito quella sera.
-E chi ha detto che lo deve essere?-
I fatti e i personaggi narrati sono puramente casuali
Genere: Fluff, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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‘He makes me happy’
 
Se n’era andato. Se n’era andato dicendomi che aveva delle commissioni da fare. Mi aveva detto che aveva passato una splendida giornata con me, e poi, se n’era andato. Com’era possibile che tutto il mondo ti cadesse addosso solo perché lui non è più con te? Ormai ero partita. Il mio treno dei pensieri era arrivato, e io, senza neanche pensarci due volte, l’avevo preso. Era un viaggio molto lungo, che partiva da quella stupida festa in maschera e arrivava fino a ‘bacio’ d’addio. Perché in un certo senso non ci saremmo più visti, e quella era l’unica opzione che mi rimaneva per fantasticare. Il bacio non è stato certo all’altezza di quello che mi aspettavo. Un semplice bacio sulla guancia, ma cosa mi aspettavo?
Ero seduta sulla veranda del mio terrazzo a guardare come il sole tramontava dietro i grattacieli e le case di Londra da più di un’ora. Da quando se n’era andato per inciso. E non avevo smesso di fantasticare sulle sue mani, e sulla sua pelle. Sui suoi capelli che si tirava indietro ogni volta che gli ricadevano sulla faccia. Non smettevo di pensare alla sua risata contagiosa, e al modo in cui si teneva la pancia per le risate. Non smettevo di immaginare le sue grandi mani attorno ai miei fianchi oppure la sua bocca premuta dolcemente sulle mie labbra. Anche se tutto questo non era accaduto. Io immaginavo, immaginavo perché tutte queste cose non le potevo fare. Immaginavo perché anche se volevo che diventassero realtà non era possibile. Perché niente va secondo i piani. E niente di niente va secondo i miei, di piani. Ogni volta che pensavo di essere felice la vita mi riservava la più brutta sorpresa che ci si potesse aspettare. Eppure io speravo. Anche se mi davano della rimbambita e della bambina io speravo, perché sperare è tutto, e senza di quello io non potrei sopravvivere.
Il sole era ormai tramontato da un pezzo, ma non mi stancavo di guardare fuori dalla finestra per vedere dei piccoli e stupendi puntini luccicanti sul cielo blu scuro. E mentre io guardavo con occhi sognanti le stelle, tutto attorno a me cambiava, come se ad un tratto mi fossi ritrovata in un altro luogo. Magia? Non penso. Un forte odore di arrosto mi pervase le narici facendomi arricciare il naso. Mi alzai dalla sedia che poche ore prima avevo messo sulla veranda ed entrai in camera. Eppure c’era qualcosa di strano. Non era più la mia camera. Era una camera cupa e buia. Mi girai dalla parte della veranda trovandoci solo e soltanto una portafinestra. Non era la mia camera. Cosa stava succedendo?
Una figura dietro di me si mosse nell’ombra della stanza mentre io l’ammiravo. Era una stanza piccola, con un letto matrimoniale coperto da un lenzuolo di seta bianco, i cuscini erano coperti con lo stesso materiale, mentre la testata spiccava per lo splendido color legno mogano. Le pareti attorno a me erano dipinte di un blu scuro facendo così incupire la stanza. Infondo a questa, sulla parte destra del muro c’era una piccola scrivania con dei fogli accartocciati e un computer spento, a cui però lampeggiava una lucina. Nella parte sinistra della stanza invece c’era un armadio a due ante, non molto grande, che riprendeva il colore della testata del letto. Accanto a questo la porta di legno di quercia spiccava come non mai. Mi girai sentendo il freddo penetrarmi nella pelle. Qualcuno aveva aperto la portafinestra e non faceva caldo per essere Maggio. Mi voltai di scatto e chiusi con un tonfo sordo la finestra. Poi mi girai di nuovo ammirando per la milionesima volta la stanza in cui mi trovavo. Sul soffitto c’era un semplice lampadario nero mentre accanto al letto erano sbucati due comodini in color legno mogano su cui c’erano una sveglia che segnava le 19:30 e due lampade bianche. Era una stanza molto sobria e mi chiesi di chi potesse essere. Avanzai verso la scrivania guardando i fogli accartocciati su di essa. Li aprii e poi ne lessi il contenuto. O almeno cercai di leggerlo. Non c’era scritto niente. Come se il foglio fosse stato scritto con una penna invisibile. Una risata dietro di me mi fece momentaneamente ghiacciare, ma poi mi ricordai quella voce, e soprattutto quelle risate. Justin. Il mio cuore batteva così forte che pensai che qualcuno lo stesse sollecitando, per farlo battere più velocemente. Sembrava una gazzella, ma che dico.. un aquila in picchiata. Neanche. Un ghepardo che attacca la preda. Ecco..  si. Tutte le cose messe insieme.
Colpi alla porta. Ecco cos’erano. Mi guardai attorno con una mano sul cuore cercando, invano, di farlo rallentare. La stanza era come me la ricordavo, era la mia stanza. Per fortuna non era cambiato nulla. Era solo un sogno. Un sogno un po’ strano. I colpi provenivano dalla porta della mia camera ed erano irregolari e molto forti, come se qualcuno volesse sfondare la porta. Mi alzai di scatto, e un colpo alla testa mi fece istantaneamente rimettere a sedere. Troppo repentina. Mi alzai con cautela questa volta mantenendo le mani attaccate alla spalliera della sedia sulla veranda. Mi ero addormentata e avevo fatto un sogno così? Ma che cosa mi passava per il cervello? Andai ad aprire la porta, che, scoprii, era chiusa. Girai la maniglia e, quando neanche avevo aperto la porta, una Katrin arrabbiata la spalancò e si mise a sedere sul letto. Diciamo che ci si lanciò praticamente. Io caddi a terra e appoggiai la testa contro l’armadio dietro di me, aspettando che Katrin si calmasse per parlarle.
<<Ma cosa diavolo di è venuto in mente Bells? -riprese fiato con una mano sul cuore- sei stata qui dentro per tre ore. Tre. E io non sapevo che cosa fare. Volevo chiamare i pompieri e un’ambulanza per tirarti fuori di qui.>> mi guardò impaurita prima di avvicinarsi a me e farmi alzare tenendomi per le spalle, mi trascinò dolcemente verso il letto su cui mi sedetti cercando, anche io, di regolarizzare il battito cardiaco.
<<Vuoi dire che.. che sono rimasta rinchiusa in questa camera per tre ore? Che ore sono adesso?>> chiesi guardandola atterrita. Non mi ero accorta di nulla.  Eppure sembrava passato così poco tempo da quando lui se n’era andato rifilandomi la scusa più vecchia del mondo. Forse aveva capito che sono pazza e se n’era andato. Beh, lo farei anche io se fossi in lui e mi incontrerei per strada. <<Le 19:30>> Sibilò Katrin guardando la sveglia sul mio comodino. Sbiancai. Era la stessa ora che avevo visto nel sogno. Ma forse era solo una coincidenza.
<<Cioè io sono rimasta chiusa qui dentro da quando lui è andato via?>> non pensavo di aver detto queste parole tanto forte, ma forse Katrin aveva un udito sopraffino, o semplicemente l’aveva sentito perché era accanto a me. Fatto sta che lei sapeva quello che non doveva sapere. E io che pensavo di tenerglielo nascosto fino a che non ci saremo sposati. O fino a che lui non se ne andava via, molto più facile come ipotesi. <<Qualcuno è venuto qui?>> chiese guardandomi allarmata. Era sul punto di scoppiare, ma non volevo che lo facesse.  E ora cos’avrei dovuto fare?
<<Cosa? No! Ma chi lo ha detto?>> sbuffai sospirando, cercando di trattenere una risata. Sperai con tutto il cuore che Katrin se la bevesse, ma quello, ovviamente, non era il mio giorno fortunato. <<Eh no, no signorina, non te la caverai così facilmente!- sorrise venendo a sedersi accanto a me sul letto mentre io mi sistemavo i capelli su una spalla e incrociavo le spalle.- su, su chi era? James?>> disse lei curiosa accavallando le gambe e regalandomi la miglior occhiata maliziosa che potesse uscire. <<Ehm.. no. –per fortuna, aggiunsi mentalmente.- Era quel ragazzo di cui ti ho raccontato l’altra volta..>> dissi entusiasta guardando il soffitto e immaginando una vita totalmente diversa. Dove io non ero io e lui, beh, lui era sempre lui, perché lui era perfetto così com’era.
<<Sei convinta di quello che stai facendo Bells?>> mi chiese Katrin prendendomi le mani e guardandomi negli occhi. Era una bellissima domanda, difficile e allo stesso tempo facile. Cosa potevo risponderle? La risposta migliore era farle un sorriso, e così feci, nascondendo la faccia dietro i capelli.
<<Ma non è quello di cui il tuo paese ha bisogno..>> disse Katrin alzandosi dalla sedia e andando verso il mio armadio, poi si girò guardandomi mentre io socchiudevo gli occhi. <<Lui mi fa felice..- commentai sorridendo ripensando al quel pomeriggio- e questo mi basta Katrin.>> spiegai alzando le braccia. Lei sorrise prima di entrare a passo di danza nella mia cabina armadio. Io la seguii spiegandole come la pensavo.
<<Katrin.. tutti i ragazzi mi cercano per mio padre, oppure perché ho i soldi, o perché sono la figlia del presidente d’Inghilterra. – presi un respiro cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di scendere- Lui ha qualcosa di diverso, lui non vuole me per i soldi –mi indicai con le mani e con le lacrime che ,ormai, scorrevano inesorabili sulle mie guancie- Lui non mi vuole perché mio padre è importante, io..>> presi un respiro e mi misi a sedere a terra accanto all’armadio mentre Katrin mi abbracciava e si sedeva vicino a me, ascoltandomi in silenzio, perché in quel momento avevo solo bisogno di essere ascoltata.
<<Io.. non so perché mi vuole, ma.. continua a cercarmi e non sai quanto siamo stati bene oggi pomeriggio insieme. Mi sono sentita libera da ogni responsabilità. Per una sola volta nella mia vita non mi sentivo Isabella Beth Clark la figlia del presidente, ma Bella, una ragazza normale.>> dissi asciugando una lacrima che scorreva nell’incavo del mio occhio. Mi sentii meglio quando Katrin mi abbracciò stretta quasi pensasse me ne sarei andare.
<<Non sto dicendo che stai facendo male a innamorarti di..>> non la lasciai neanche finire di parlare perché la tappai la bocca con il palmo della mano. Ripresi a parlare prima di essermi asciugata con entrambe la mani gli occhi e aver sbuffato pesantemente.
<<Io, non sto dicendo che mi sto innamorando. Non lo conosco nemmeno, l’ho visto solo due volte. Ma.. mi rende felice, sto dicendo che è l’unica persona che ha provato a capirmi in questi anni, e non per la mia reputazione, per me stessa.>> dissi sbattendo –anche troppo forte- la testa contro l’armadio e cercando di trattenere le lacrime. Il problema non era lui, il problema ero io, sempre così timida e allo stesso tempo strafottente, sempre così forte e così debole. Così felice e così triste. Sempre con gli sbalzi di umore dietro l’angolo. Lui era l’unico che aveva avuto il coraggio e la forza di volontà per scoprire tutto di me e della mia vita. Ma non perché mio padre era il presidente d’Inghilterra. Lo aveva fatto perché.. perché -forse- ci teneva a me. In quegli anni ho ricevuto così tanti schiaffi da persone che nemmeno conoscevo che ringhiavo anche alle carezze. Non mi volevo affezionare ad una persona dopo solo due “incontri”, ma era l’unico che continuava a tornare, nonostante sapesse quello che poteva capitare e quello che poteva succedere se lo scoprivano. Lo faceva per me? Lo faceva perché gli interessavo o perché mio padre è quello che è? Questo non lo potevo sapere, sapevo solo che mi piaceva la sua compagnia e che quando lui non era con me mi sentivo così stanca e così morta dentro, che forse negli anni precedenti non avevo neanche vissuto. <<Lo so, ma lui.. –ci pensò un attimo e poi riprese a parlare più spedita di prima- ah, al diavolo gli insegnamenti, dimmi com’è, voglio sapere tutto. Tutto di tutto. Dimmi come ti tratta, dimmi come ti fa ridere e dimmi che cosa è successo oggi pomeriggio. Lo voglio sapere, al diavolo la tua situazione in questo momento, dimmi tutto quello che ti ha fatto sentire, dimmi come ti senti senza di lui, dimmi cosa ti fa provare, dimmi se lo incontrerai di nuovo.-prese un bel respiro mentre gesticolava con gli occhi colmi di lacrime ma con il sorriso sulla faccia- Diavolo Bells, sai che ti dico? Che si vive una volta sola, devi provare tutto quello che la vita ti può offrire, e se in questo momento il fato ha deciso di farti incontrare una persona che ti vuole per quello che sei non sarò certo io che ti impedirò di vivere la tua vita.>> Chiuse finalmente le labbra e prese un sospiro fiera di se stessa mentre si metteva in piedi facendo la finta statua di un’ eroina.  Scoppiai a ridere mentre lei mi tirava le mani per farmi alzare da sedere. Io la tiravo giù dalla mia parte e le tirava dal senso opposto, così decisi di lasciare la presa, in tutti i modi si sarebbe messa a sedere. Non era possibile che un minuto prima piangevo e un minuto dopo ridevo perché Katrin era caduta pesantemente con il sedere sul parquet. Non era una persona qualunque, lei non era la mia truccatrice e neanche la mia babysitter, lei era mia madre, lei era la mia migliore amica e anche mio padre, lei era tutto in uno. Era la perfezione fatta in persona. Katrin poteva essere anche un po’ ripetitiva e assillante quando voleva, anche un po’ cattiva e perversa certe volte, ma se dovevo parlare con qualcuno andavo sempre da lei, perché mi diceva sempre le cose come stavano, non mi mentiva, e lei c’era quando ne avevo bisogno, non ha mai smesso di ridere con me e non ha mai smesso di tenermi stretta quando piangevo. Non ha mai smesso di essere una sorella, perché la notte quando avevo paura del buoi da piccola, lei era lì accanto a me, a cullarmi dolcemente dicendo che nel buio non c’era nulla di malefico. Non ha mai smesso di essere una madre perché quando dovevo uscire con un ragazzo mi consigliava i vestiti, andavamo dal parrucchiere insieme, facevamo tutto insieme. C’è stata nei momenti migliori, dove ero la persona più felice della terra e la persona più serena sulla faccia della galassia. Ma c’è stata anche quando la mia parte oscura usciva allo scoperto da me stessa e quando questa vinceva sul buonsenso. C’è stata quando sono scappata dalla finestra perché non volevo più una vita così. E mi ha abbracciato, mi ha tenuta stretta, quando tutti dicevano che non valevo niente. Mi ha accolto come una figlia, e mi ha trattato come tale, e non smetterò mai di sdebitarmi con lei. La cosa divertente è che non so neanche perché faccia queste cose, i miei genitori la trattano male e  non la apprezzano per quella che è veramente, e io non so davvero come lei possa sopportare tutto questo.
Corsi –letteralmente- verso di lei e l’abbracciai piangendo sulla sua maglia cercando –invano- di non bagnarla. <<Ti voglio bene Katrin, Grazie di esserci sempre stata per me, grazie di avermi fatto diventare la ragazza che sono adesso, grazie di avermi accompagnato da qualunque parte, grazie per essere stata accanto a me quando nessun’altro c’era.>> l’abbracciai più forte, piangendo più forte, volevo dimostrarle che ci tenevo tantissimo a lei, volevo dirle che era tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento. Volevo dirle che lei mi capiva e mi apprezzava per quella che ero realmente e volevo dirle che la mia vita dipendeva dalle sue mani, volevo dirle che lei era l’unica che prendevo come esempio per scegliere qualcosa. Volevo dirle che era l’unica persona che m’interessava in quella casa, volevo dirle che mi dispiaceva per tutte le volte che non sono stata a sentirla, volevo dirle che era la sorella più premurosa che avessi mai potuto desiderare. Volevo dirle che era la mamma migliore che ci poteva essere in quel mondo. Volevo dirle che era la mia migliore amica, un’amica vera, di quelle che non se ne vanno per niente al mondo, anche se hai fatto uno sbaglio irrimediabile. Volevo dirle che era la persona migliore di questo pianeta e che è stata sempre la mia ancora di salvezza. Volevo ringraziarla per tutto quello che aveva fatto negli anni, senza mai giudicarmi, né disprezzarmi, volevo ringraziarla per aver creduto in me quando nessun altro lo aveva mai fatto. Volevo ringraziarla per tutto quegli anni insopportabili in cui lei è stata al mio fianco senza neanche battere ciglio sull’idea di lasciarmi andare. Volevo ringraziarla per tutto quello che mi aveva fatto diventare e per tutti gli insegnamenti che mi aveva dato in quegli anni. E infine volevo ringraziarla per essere rimasta sempre al mio fianco anche se gli altri dicevano che era una pessima idea. Volevo dirle tutte queste cose, ma quell’abbraccio le esprimeva decisamente meglio di queste parole. Niente equivaleva a quell’abbraccio. Niente poteva eguagliarlo, soprattutto delle stupide parole. Così ho lasciato che quell’abbraccio facesse il suo lavoro e esprimesse al posto mio tutto quello che volevo dire.
 


•Spazio Autrice 
scusate, scusate, scusate, scusatee! Mi scuso tantissimo. non so quanto cavolo sono stata senza aggiornare mi dispiace tantissimo scusate. Mi dispiace. Mi perdonate con questo capitolo? Devo dire che qui non si parla tanto di Justin e Isabella ma di come lei si comporta e di come si sente. E poi c'è una scena alla fine che mi piace tanto tanto. Spero che vi piaccia perché ci ho messo tutto il mio impegno. Vi amo tutte. spero che vi piaccia e mi scuso ancora scusate tantissimo. c: Baci 
Ci vediamo quando ci vediamo. 

 
   
 
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