Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Sheep01    05/06/2014    6 recensioni
Si concentrò sulla schiena solida del fratello. L’unica cosa concreta a dargli un senso di stabilità e calore.
Barney era tutto per lui. Fratello, amico, consigliere, padre e madre assieme. Lui che del padre ricordava solo la voce tonante e l’alito che sapeva di alcool e il peso delle sue percosse. Che della madre ricordava solo il profumo dei suoi capelli e i singhiozzi spezzati, umiliati, nella notte. Il fratello era stato il pilastro della sua vita, l’unico esempio da seguire. Protettore e cavaliere dall’armatura scintillante. Ed ora il suo salvatore.
[A Tribute to Clint Barton]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 19

 

[Nat]

 

“William Wallace è alto due metri!”
"Sì, l'ho sentito dire. E uccide i nemici a centinaia. E se ora fosse qui distruggerebbe gli inglesi con palle di fuoco dagli occhi e fulmini tonanti dal culo!”

(Braveheart)

 

*

 

Era cominciata tanto in sordina quanto lentamente.

 

I giorni si erano susseguiti tranquilli fino a diventare settimane. E le settimane erano diventate ormai mesi. La triste primavera che si era portata via Coulson era scivolata pigra nell’estate. E poi nell’autunno. Inverno… e di nuovo primavera.

I ritmi di vita erano tornati ad essere più o meno gli stessi di sempre. Lavoro. Casa. Natasha.

Scartoffie.  Pause caffè. Natasha. Missioni fuori casa. Passeggiate col cane. Birra. Natasha. Chiacchierate telefoniche con Barney. Allenamenti con le matricole, una fra tutti Steve Rogers (una matricola novantenne!). Serate al pub. Natasha. Partite a freccette. Tiro con l’arco. Natasha.

Letto.

Natasha.

Oh… e, l’aveva già detto: Natasha?

 

In sordina. Sì. Così era cominciata. Una naturale evoluzione del loro disperato incontro sotto casa di Coulson. La serata dell’ombrello rosso. Quella del temporale. Della deflagrazione.

Clint nemmeno si era reso conto, con i suoi gesti, di aver dato voce a un bisogno che teneva sopito da tempo. Di non averlo mai davvero realizzato fino in fondo.

Natasha non aveva fatto altro che assecondarlo. Concedendogli la certezza che non fosse sensazione univoca e priva d'uscita.

Niente di sconvolgente, niente di trascendentale. Di quello che avevano sempre condiviso non cambiava nulla. Quello che sentivano, profondamente, uno nei confronti dell’altra, non c’era mai stato bisogno di nasconderlo. Stima, fiducia, empatia. Sempre mossi dagli stessi identici sentimenti che li legavano da anni. Dal giorno in cui si erano trovati a condividere lo stesso percorso di vita.

La differenza stava, fondamentalmente, nel fatto (per nulla trascurabile, eh) che adesso andavano a letto insieme.

E no, non per dormire. No, nemmeno per contare le crepe sul soffitto o sui muri. Sebbene Clint avesse sempre aspirato a una ristrutturazione e Natasha gli avesse appoggiato la mozione in modo fin troppo risoluto.

 

“Almeno quelle più grosse…”

“E’ una ragnatela, Clint. Mi stupisco di come non ci sia ancora crollato in testa il soffitto.”

“Esagerata.”

“C’è ancora il segno della tua testata su quella parete.”

“A me sembrava il segno delle tue chiappe, quell- AHIA.”

 

La cosa straordinaria era, per Clint per lo meno, che la mattina dopo, non provava quell’inesauribile prurito che lo faceva sgattaiolare fuori dalle lenzuola per fuggire a gambe più o meno levate dalla confusa nottataccia di turno.

Confuse lo erano ancora, soprattutto per le modalità a cui non era affatto abituato (Natasha era una macchina da guerra, in tutti i sensi), ma dopotutto, piuttosto piacevoli al risveglio.

La Vedova Nera lo teneva agganciato nel suo nido di ragno. E lui provava piacere nel dimenarsi nella sua trappola, pur rendendosi conto di rimanerne sempre più avvinghiato.

 

La prima volta non era stato dolce. O indulgente. O paziente. Più una lotta di corpi che cercavano di abituarsi a quel nuovo livello di intimità. A capire se fosse necessario prevalere, a dimostrare che non avevano niente da imparare o da nascondere. Una specie di sfida. Di confronto.

Ne erano usciti un po’ sconvolti e frastornati.

 

“Credo di essermi slogato un polso.”

“Pensavo avessi avuto abbastanza tempo per tenerlo allenato, in questi anni.”

“Sei sempre così dolce la mattina?”

“Solo dopo un buon orgasmo.”

“Bè…”

“Con te, a prescindere da quello.”

“E che cazzo, Nat!”

 

Poi le cose si erano fatte meno… frenetiche.

Avevano capito di avere bisogno di tempo per conoscersi. E, lentamente, avevano scoperto cosa significasse veramente soddisfare certi tipi di esigenze.

Clint aveva capito esattamente cosa le piaceva. E non mancava mai di donarle tutte le attenzioni di cui aveva bisogno, certo che gli sarebbero state restituite, con gli interessi.

Natasha era piuttosto generosa. In barba a chi ancora la reputava un algido pezzo di ghiaccio… russo. Capace adesso di una familiarità di cui Clint, ormai, non riusciva più a fare a meno.

 

“Dove te ne vai?”

“Sono pesante, Nat.”

“Resta.”

“Okay…”

“Mi tieni al caldo.”

“Okay…”

 

Allo SHIELD nessuno sapeva dell’evoluzione fisica… del loro rapporto.

Non che avessero bisogno di conoscere i dettagli della loro relazione. Se di relazione si voleva parlare. Sapevano perfettamente quanto l’organizzazione incoraggiasse a mantenere le distanze. Distanze di quel tipo, nello specifico.

Agli occhi di tutti non c’era assolutamente niente di diverso.

Clint e Natasha, dopotutto, non si sentivano così diversi.

Meno soli, forse. Più sereni, da un certo punto di vista. Privi di quella tensione emotiva che li aveva sempre tenuti sul filo del rasoio.

Ne avevano giovato persino le missioni sul campo.

Sessioni di allenamenti gratuiti che non richiedevano l’utilizzo di una… palestra.

L’unico che forse aveva dei dubbi, in tutto quel marasma di passione, era il direttore Fury.

Clint era convinto avesse intuito qualcosa, con il supporto di quel suo unico occhio così capace di cogliere le sfumature.

Ma Natasha non gli aveva mai accennato nulla a riguardo. Dopotutto era lei che manteneva un rapporto più stretto con il direttore. E se pur qualcosa le avesse detto, lei non si era mai espressa o sbilanciata. Forse perché non le interessava, forse solo perché non lo riteneva un ostacolo.

 

*

 

“Passami il rullo, Nat.” In bilico su quella che era una scala a pioli, Clint stava mettendo in atto i suoi buoni propositi di sistemare la sua camera da letto. Proposito che alla fine, si era evoluto in una ristrutturazione globale del suo intero appartamento.

E dire che c’era gente che non aspettava altro che il fine settimana per poter riposare.

Il riposo, evidentemente, non era nelle corde degli agenti operativi dello SHIELD. O forse non  era solo in quelle dell’agente Barton e dell’agente Romanoff.

Lucky correva da una parte all’altra dello stanzone blindato, strappando questa o quella guarnizione di scotch con cui avevano sapientemente mummificato ciò che non doveva essere imbiancato.

“Il tuo cane si sta mangiando i pomelli dell’armadio, Clint.” Gli si era avvicinata Natasha, passandogli il rullo più piccolo.

“LUCKY!” il cane si era voltato con i brandelli del suo peccato di carta, ancora a penzolare fra i denti.

“Sei davvero sicuro di voler fare la stanza viola?”

“Perché no? A me sembra un bel colore…”

Natasha si strinse nelle spalle.

“E’ che poi finisco per confonderti con lo sfondo.” Gli aveva indicato la maglia che indossava, dello stesso identico colore che galleggiava nei barattoli.

“Metterò una camicia rossa.”

“Non ti ci vedo con del rosso, addosso…”

“Io mi ci vedo benissimo, con una rossa, addosso.”

Natasha aveva scosso la scala.

“Ehi! Vuoi che mi spezzi una gamba?”

“L’importante è che sia solo una… gamba.”

Clint sospirò con una sorta di teatrale disperazione.

“Non possiamo.”

“Non possiamo che?”

“Continuare così.”

“Così cosa?”

“Così! Con tutte queste… allusioni sessuali. Mi distraggono!”

“Quali allusioni sessuali?”

“Nat.”

“Guarda che hai cominciato tu.”

“Non è vero.” Scese dalla scala traballante, il rullo ancora stretto in mano.

“Sentitelo: mente, sapendo di mentire.” Natasha lo guardava dal basso verso l’altro. E non perché lui fosse ancora su un piolo. Il fatto che non fosse troppo alta gli facilitava il compito di sovrastarla, almeno di un pochino.

“Dobbiamo finire prima di stasera.” Le disse, lasciando che il colore sgocciolasse un po’ a terra, scricchiolando sul tappeto di carta protettivo.

“E allora finiamo.” Lei si era pericolosamente avvicinata e gli aveva sottratto il rullo di mano.

Il petto che sfiorava il suo, gli occhi inchiodati ai suoi.

La mano che si alzava e…

Il colore viola che gli finiva dritto in faccia.

“Cazzo!”

“No, a quello non ci siamo ancora arrivati.”

“NATASHA!” adesso vedeva persino viola. Il colore gli passava in mezzo al viso, sul mento, il naso e sul ciuffo di capelli spiaccicati sulla fronte.

“Sei più carino così.”

“Ma cosa?!” si era visto riflesso nello specchio accanto all’armadio. “Sembro la versione sfigata di Braveheart!”

“Ma non si chiamava William Wallace?”

“Certo che… ma il film è Braveheart! E poi cosa c’entra? Stai cercando di depistare la mia rabbia.”

“Non sto cercando di fare proprio niente. Sei sempre tu che inizi discorsi e…”

Clint le aveva sottratto il rullo di mano e passato direttamente sul collo, la spalla e il petto: una strisciata a zigzag di tutto rispetto.

“Zorro!”

Natasha aveva abbassato lo sguardo e espresso il suo disappunto con una abbattuta scrollata di spalle. Lucky aveva preso a correre loro attorno, eccitato dalla prospettiva di uno scontro.

“Che bambino.”

“Un bambino che si è preso una rivincita.”

“Un bambino che si accontenta di poco.”

“Ha parlato.” E nel dirlo si era indicato la faccia, ancora agghindata a novello ribelle scozzese.

Natasha fece un passo sleale sul lato e dopo averlo disarmato di nuovo, lo aveva steso con uno sgambetto mirato e lanciato direttamente sul materasso, peraltro tutt’altro che comodo, rivestito così com’era di cellophane.

Aveva ingabbiato il suo torace fra i muscoli delle sue potenti cosce e sovrastato senza possibilità di pericoloso contrattacco. Seduta sopra di lui con il rullo ancora fra le mani, come un formoso Buddha dalla chioma vermiglia.

“Potranno toglierci la vita…” esalò Clint, vinto ma non sconfitto del tutto “ma non ci toglieranno mai… la LIBERTÀ!” gridò un po’ gorgogliante dalla sua scomoda posizione, mentre Natasha gli ripuliva le labbra ancora sporche di vernice, prima di scendere a baciarlo, un po’ per zittirlo un po’ perché ne aveva voglia.

“Vengo a reclamare il mio diritto allo Ius Primae Noctis”, gli sussurrò piano, trascinando il colore sulle sue guance con le dita, rendendolo più simile a un guerriero pellerossa che scozzese.

“Volendo anche al secundis. E il terzus… e il quartus… e… fanculo, non lo so il latino.”

“Allora taci.”

Vide i suoi occhi verdi farsi torbidi e capì che si era di nuovo avviato quel processo inarrestabile al quale non poteva sottrarsi.

Il rullo cadde a terra. Così come a terra finirono i loro vestiti.

Lucky si era ritirato come se intimidito dalla temperatura che improvvisamente era esplosa, rovente, nella camera.

Lasciò fare inizialmente a lei. A prendersi il piacere così come sapeva fare, a dare il ritmo, a dirigere il gioco. Affamata, come sempre, di carne e sudore.

Gli piaceva il modo in cui lo faceva sentire. Potente. Gli piaceva guardarla, osservare le sue espressioni. Riconoscere il rossore appagato del suo viso, fremere per quelle labbra umide, dischiuse da una serie di infiammati sospiri. Quei singhiozzi che gli davano alla testa. Che lo incitavano a darle di più, a pretendere di più.

Non riusciva mai a sottrarsi a una richiesta tanto silenziosa, quanto insistente.

La prese così come lei aveva tacitamente preteso che facesse. Ribaltò le posizioni in uno scricchiolio di cellophane che strappò una risata a entrambi, prima di vederla soffocata da tutti quei gemiti, dalle spinte scomposte, dalle mani che graffiavano, i denti che mordevano, le mani che esploravano, dall’eccitazione che saliva così come un tornado a inglobarli in un vortice senza ritorno, fino a scuoterli definitivamente in un orgasmo che li stese… esausti e appagati… alla fine di quell’ennesimo viaggio.

Le sue braccia, le sue gambe lo trattennero. In quella morsa di ragno che voleva solo suggerirgli di restare. Che pretendeva la sua presenza. Forte, tangibile.

Svestita da quella caratteristica letale che aveva regalato ben altre sensazioni ad altre persone, in altri mostruosi, dolorosi contesti.

Gli piaceva restare a guardarla, dopo.

A cogliere tutte le umide sfumature del suo sguardo appagato. Soddisfatto, placido, sereno.

Natasha in quei momenti era solo Natasha.

Senza titoli, nomi in codici, appellativi.

Solo per lui, Natasha.

Una realizzazione che gli provocava sempre una stretta al torace. Una botta di adrenalina non richiesta. Senza il terrore di credere si trattasse di un infarto.

Non era cambiato niente, si diceva, eppure era cambiato tutto.

L’amore è per i bambini… non era stata lei a dirlo?

E dunque se non si trattava di questo, allora doveva essere qualcosa di molto più potente, perché, per quanto si sforzasse, era sicuro che così non ci si era sentito mai.

“A che stai pensando, Barton?” fu lei la prima a interrompere quel silenzio sospeso, pacifico.

“Agli infarti.”  Gli era sfuggito.

Natasha sollevò un sopracciglio, indecisa tra la perplessità e l’accettazione che Clint Barton non fosse una persona normale.

“Ti formicola un braccio?”

“No, però mi formicola tutto il resto.”

“Allora non è un infarto.” Gli grattò il viso, in corrispondenza della barba appena accennata.

“No… mi sa che sei tu.”

Lei lo aveva guardato un solo istante, facendo cadere quel mezzo sorriso. Serrò le labbra, prima di ribaltarlo di nuovo con uno slancio d’anca, imprigionandolo ancora sotto di sé.

Era un modo per punirlo di quel non richiesto attacco di zucchero?

“Non uccidermi.” La supplicò, mentre lei valutava la situazione dall’alto.

“Se avessi voluto farlo, sarebbe già successo anni fa.”

Clint non ebbe bisogno di dirle che lo sapeva.

Continuava a guardarlo con quell’aria valutativa, enigmatica. Natasha poteva essere limpida come il cielo dopo un temporale e l’attimo successivo torbida come acqua di palude.

“Non finirò mai di essere in debito con te, Clint.”

L’uomo aggrottò la fronte, incapace di comprendere cosa volesse dire.

“Natasha, non…” lei gli mise un dito sulle labbra, a zittirlo.

“Ma non è una questione di debito… il motivo per cui adesso sono qui… con te.”

Perché aveva sentito il bisogno di puntualizzarlo proprio ora? Per via della sua infelice uscita sull’infarto? O quella dell’omicidio? Due argomenti positivi, insomma.

Il dito era scivolato giù dal suo mento e lei lo aveva liberato. Gli si era sdraiata accanto, rannicchiata per metà su di lui.

“Mi piace quello che facciamo insieme, Clint. Mi piace anche quando non facciamo sesso. Mi piace anche solo dipingere una stanza di uno stupido colore viola.”

“Il viola non è affatto stupido…”

Gli aveva dato un pizzico per zittirlo, di nuovo.

“Mi piace quando finiamo per lavorare assieme. O quando mi offri quel disgustoso caffè a colazione. Non è una questione di debito”, una pausa. “Lo capisci?”

Clint fissava il soffitto, il formicolio era tornato a colpirlo impietosamente.

“Lo capisco…” mormorò.

“Bene.”

Clint ebbe come l’impressione che, a modo suo, Natasha gli stesse semplicemente dicendo che quel formicolio, sì insomma… lo provava anche lei.

Che se lo tenessero i bambini, l’amore… Clint adesso aveva i brividi.

 

*

 

Ancora non si erano rivestiti che il campanello della porta d’ingresso suonò.

Nemmeno il citofono, proprio il campanello, a suggerire che qualcuno era riuscito a intrufolarsi nello stabile e salire direttamente al piano.

Che cavolo lo pagavano a fare il portiere?

“Aspettavi qualcuno?” Natasha.

“Non mi viene mai a trovare nessuno. A parte te. E Capitan America… una volta.”

“Magari è uno dei vicini.”

Clint si era rimesso in piedi. Aveva recuperato biancheria, pantaloni e t-shirt e si era rivestito un po’ più rapidamente di Natasha. Il viso ancora sporco di vernice.

Sbirciò fuori dalla finestra, scompigliandosi i capelli sfatti, individuando un grosso macchinone nero che prima proprio non c’era, nella strada di sotto.

“Conosci qualcuno con un SUV nero?”

Natasha sgranò gli occhi.

“Fury.”

“Ah… merda.”

 

Faceva ben strano avere il direttore Fury seduto sul divano di casa. Il divano incartato, di casa. In quella baraonda di barattoli di vernice, rulli, pennelli, teli protettivi e impalcature più o meno improvvisate, l’uomo era una rigida e compita macchia di colore nel candido scenario.

Clint e Natasha gli sedevano di fronte, in attesa di spiegazioni.

Lucky gli stava a debita distanza. Smetteva di scodinzolare ogni volta che il suo unico occhio andava a posarsi su di lui.

“Posso offrirle qualcosa… un tè, un caffè… un… succo di frutta. Anche se non sono sicuro di avere del succo di frutta?”

Fury aveva scosso la testa e intrecciato le mani, fissandolo.

“Una birra?” azzardò ancora. “No, non una birra, è in servizio, giusto?”

“Rilassati Barton…” lo aveva redarguito dopo l’ennesimo tentativo di compiacerlo. “Non sono qui per regalare intimidazioni.”

Clint cercò di rilassarsi. Natasha sembrava non avere, al contrario, alcun problema a gestire la situazione.

Non c’era pur niente di male nel passare il proprio tempo libero, imbiancando l’appartamento di un amico. Un collega. Un collegamico (uno scopacollegamico?).

Clint serrò le labbra per non dare sfogo alla sua inutile ilarità.

“Vedo che sei in fase di rinnovo.” Si era guardato attorno, come se non fosse già abbastanza evidente.

“Sì, una rinfrescata. Abito qui dentro da un sacco di anni, non avevo mai pensato a dare una sferzata di colore.”

“Bello quell’arco.”

“Sì… è vintage.”

Il termine gli riportò improvvisamente in mente Coulson. Per un breve istante s’incupì e Fury sembrò intuirlo.

“Direttore Fury… posso… possiamo…” aveva indicato anche Natasha che non aveva smesso un solo istante di fissarlo, “Fare qualcosa per lei?”

Era lì da almeno una decina di minuti e ancora non si decideva a svelargli perché era finito proprio lì. A casa sua.

Sembrò valutare la domanda a lungo. Clint ci lesse una sorta di conflitto interiore a cui non riuscì dare un nome.

Lo sentì inspirare a fondo e poi frugarsi nelle tasche della giacca.

L’espressione si distese. E per un attimo Clint ebbe come l’impressione che avesse deciso di sostituire il messaggio che voleva dar loro con qualcos’altro. Che avesse improvvisamente trovato una scusa per rimandare una notizia ben più complicata.

“Tony Stark.” Disse solo, porgendo loro un paio di cellulari di ultima generazione.

“Come, prego?” Clint si era allungato e ne aveva afferrato uno, mentre Natasha prendeva quello rimasto.

“E’ stato da noi questa mattina. Una consulenza per dei progetti tecnici di cui non è il caso discutere.  Ne ha approfittato per darmi questi. Un regalo per Barton e Romanoff, mi ha detto. In realtà è stato più metaforico di così, ma non vedo perché dovrei assecondare la sua mania per i paragoni… faunistici.”

Clint inarcò un sopracciglio non del tutto certo di capire il commento.

“Io però ce l’ho già un cellulare.” Commentò rigirandosi fra le mani quel coso semitrasparente, dall’aria costosa e parecchio fragile (considerazioni probabilmente errate… riguardo la fragilità, non riguardo il suo costo).

“Già bè… immagino sia uno dei suoi modi per dire che quello sarà il modo in cui vi contatterà… prima o poi.”

“Perché Stark dovrebbe contattarci?” già ipotizzava catastrofi imminenti.

“Voi ultimamente non guardate molto i telegiornali, mh?”

Natasha, con quel suggerimento, era andata ad accendere la tv.

Non le ci volle molto per trovare un canale che riportasse un servizio ad hoc che mostrava immagini in volo della fu Stark Tower.

La fascia a scorrimento sotto al servizio titolava: Tony Stark: a breve l’inaugurazione della neo nominata Avengers Tower.

“La che… ?” Clint si era rimesso in piedi esterrefatto.

Fury aveva fatto lo stesso, ma con la mera intenzione di levare finalmente le tende.

“Immagino arriverà un invito formale a breve.”

Clint osservava quel colosso di cemento e vetro, perplesso, affascinato e un sacco di altre cose che forse sarebbe stato meglio evitare di aggiungere a quel malcelato entusiasmo.

Una torre, tutta dedicata a loro? Quel gruppo di scalcagnati pseudo eroi che avevano salvato New York?

Barney avrebbe rosicato… da morire.

Natasha aveva accompagnato Fury alla porta.

Gli arrivarono solo stralci di conversazione.

“Che altro dovevi dirci, Nick?”

“Una cosa per cui c’è tempo…”

Clint si era voltato per un congedo come si deve.

Aveva stretto la mano al direttore, che per la cronaca, non era mai stato lì. E soddisfatto di poter annoverare un ospite tanto illustre fra i frequentatori del suo modesto appartamento di Brooklyn, lo guardò sparire dalla porta, così come vi era entrato.

Lanciò uno sguardo a Natasha, mentre la voce di Tony Stark risuonava nel servizio registrato, enumerando le molteplici qualità della nuova torre che produceva energia pulita.

“Come faceva a sapere che eri qui?”

Natasha alzò gli occhi al soffitto, già più che consapevole di ciò che il direttore conosceva da tempo.

Fury e quel suo maledetto occhio rivelatore.

In quel momento il nuovo fragile e costoso telefono di Tony Stark squillò. Il faccione sornione dell’uomo rimbalzava sulla schermata, nefasto.

Così presto?

Clint represse una smorfia e guardò Natasha.

“Rispondi tu.” Le lasciò l’ingrato compito.

“Barton…”

“Vieni Lucky! Finiamo di dipingere.”

“Barton, non fare lo stronzo!”

Clint intuì che, fra le cose che le piacevano fare con lui, figurava anche l’insulto libero: continuò a rivolgergli improperi più o meno coloriti anche dopo la telefonata di Iron Man.

 

___

 

N.d.A: Ho dovuto farlo. Mi perdonerete la stra-abusata scenetta degli imbianchini felici (no, non si tratta di una nuova pubblicità di una nota marca di merendine che spaccia la vita per un idillio di famiglie drogate), ma ho dovuto. Soprattutto perché sentivo la necessità di dedicare un capitolo esclusivo a questi due. Senza coinvolgere sparatorie, gambe mozze, morsi (eh, i morsi) o pericolo di morte. E avere una scusa per usare un po’ Nick Fury che sfrutto sempre troppo poco (sebbene lo ami moltissimo). Per la cronaca: anche lui tornerà e avrà un ruolo piuttosto determinante. Ma non nel prossimo capitolo. Il prossimo vedrà coinvolti altri personaggi… l’indizio bello grosso c’è.

Al solito ringraziamenti di rito, ma sentitissimi a chi legge e commenta. Alla mia beta, vittima di studio matto e disperatissimo - ma non farti venire la gobba, mi raccomando, sennò poi dovrò chiamarti AIGOR.
Alla prossima, per chi vorrà!

  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Sheep01