II •
Scene of a Mourning || Fragments {
• Trembling fingers over tightened
silk strings •
}
Capitava
spesso che al calar del sole Rukia si sedesse sul porticato esterno,
composta
sui talloni davanti al giardino in stile zen che Ginrei Kuchiki aveva
curato
per anni sul lato ovest della magione, fino al giorno della sua
dipartita.
Subito
dopo la cerimonia di successione, Byakuya aveva esplicitamente
richiesto che i propri
alloggi fossero spostati in una stanza che affacciasse sul versante
occidentale,
ai piani superiori; poco prima che il tramonto terminasse, trovava
gradevole
osservare come il bagliore infuocato del sole discendente bagnasse le
pietre
candide e perfette disposte accuratamente – con precisione
quasi maniacale – appena
sotto di lui. E gli ricordava con una leggera fitta di nostalgia
quando, molti
anni prima, aveva visto la schiena di suo nonno china su quelle pietre,
mentre
con il rastrello tra le dita tracciava spirali e onde sulla sabbia
bianca.
Fin
da quando era giovane, quell’angolo di completa calma era
spesso stato il luogo
in cui, chiudendo gli occhi, aveva tentato di disperdere la tensione
accumulata
durante le giornate di intenso allenamento, quando sentiva i muscoli
bruciare
per la stanchezza, ed il sudore scivolargli lungo le guance accaldate,
i
capelli fradici che gli si incollavano sulla fronte e lungo il collo.
Quando
aveva bisogno di ritrovare sé stesso al termine di un
estenuante scontro di
shunpo con l’arrogante e sfuggente principessa del clan
Shihouin, dopo che lei
era apparsa dal nulla – come sempre faceva, senza motivo
apparente – e aveva
provveduto a provocarlo il tanto necessario da fare scoppiare la sua
impetuosa e
sfrontata collera.
Erano
passati tanti anni da allora, eppure il ricordo dei consigli saggi di
suo nonno
e delle sue pacate abitudini – consumate in quel giardino di
pietra – avevano
ancora l’effetto di tranquillizzarlo.
Quando
sentì la prima nota stonata e vibrante provenire dal piano
inferiore, Byakuya
dischiuse gli occhi mentre stava seduto fra le shoji accostate, la
testa
poggiata mollemente sullo stipite della porta scorrevole.
A
volte Rukia si ritirava da sola in quell’angolo silenzioso
dell’enorme tenuta,
portando con sé un piccolo ed antico shamisen. Infilava le
mani nel ghiaccio
ingoiando bassi gemiti di dolore, e poi poggiava le dita intirizzite e
tremanti
sulle sottili corde di seta; le pizzicava con delicatezza, continuando
a
suonare fino a che i polpastrelli non le sanguinavano, fino a quando
non
smetteva di sbagliare e non riusciva a completare la composizione senza
mancare
una sola nota.
Byakuya
la ascoltava ogni volta, seduto sul balcone della sua stanza, senza
fare
commenti: non era sicuro che Rukia si fosse mai resa conto di non
essere sola.
Anzi, temeva che la consapevolezza di avere un ascoltatore –
e l’idea che
l’ascoltatore fosse proprio suo
fratello –
l’avrebbe indotta a smettere di suonare, domandando scusa. E
probabilmente lui non
avrebbe mai più avuto modo di assistere a quelle sue timide
esibizioni.
Era
tradizione del clan Kuchiki che le donne sapessero suonare lo shamisen
alla
perfezione. Byakuya ricordava i movimenti aggraziati ed allo stesso
tempo
sicuri di sua madre, avvolta in un kimono cerimoniale fastosamente
ricamato, sulle
quelle tre corde tese, come in un rito sacro che lei sapeva compiere
senza una
sola incertezza. L’aveva sempre osservata pieno di
ammirazione, senza essere
capace di distogliere gli occhi dalla sua figura così bella,
dalle sue dita,
dal suo volto sereno e sempre sorridente anche in quella sua estrema
concentrazione.
Da quando se n’era andata, pochi mesi dopo la morte di suo
marito, Byakuya aveva
sempre sentito la mancanza del suono melodioso e palpitante che solo
lei era in
grado far scorrere fra le corde dello shamisen.
Rukia
non aveva mai dimostrato particolari capacità; spesso i
maestri se ne erano
lamentati con Byakuya – a volte attribuendo il suo poco
talento alle sue umili
origini – ma lui li aveva sempre ripresi con cupa freddezza,
invitandoli a non
riferirsi mai più a lei con quel tono sfrontato.
«
Rukia conserva l’onore del clan.» li ammoniva,
lanciando loro occhiate glaciali
« Se oserete ancora sminuirla, sarò costretto a
prendere provvedimenti
spiacevoli.» Questo bastava a farli tacere, nella maggior
parte dei casi.
Tuttavia
Rukia sembrava interpretare i propri continui insuccessi come
un’offesa nei
confronti del suo fin troppo generoso fratello maggiore: si allenava
spesso,
durante il tempo libero, quando non doveva indossare la tenuta da
shinigami,
tentando di colmare con l’esercizio le lacune dovute alla sua
goffaggine ed
all’inesperienza.
Capitava
che Byakuya rimanesse immobile ad ascoltarla anche per ore intere,
respirando
lentamente, continuando a chiedersi il perché di quello
strenuo sforzo a cui
Rukia si sottoponeva ogni giorno. Ogni sua azione, ogni sua parola,
ogni
movimento che compieva impugnando la katana, ogni battito di ciglia:
sembrava
che tutta la vita di Rukia, sin da quando era stata adottata, scorresse
in
funzione di lui. In un continuo ed
estenuante tentativo di renderlo fiero di averla come sorella, come per
sdebitarsi
per quel dono che le era stato offerto senza preavviso, senza
pretendere nulla
in cambio.
Perché lo fai, Rukia?
Non devi dimostrarmi nulla.
Perché non riesci a
capire?
…perché non riesco a
fartelo capire?
Le
dita di Rukia toccarono la corda sbagliata, troncando la lenta melodia
che quella
sera era già stata interrotta innumerevoli volte. Byakuya la
sentì sospirare di
frustrazione e poi riprendere da capo, con maggiore impeto. Anche se
non poteva
vederla, riusciva ad immaginarsi il suo cipiglio: conosceva molto bene
la risolutezza
che le si dipingeva in volto quando cercava di raggiungere un
obbiettivo.
L’unica sua espressione che gli era quasi del tutto
sconosciuta era il suo
sorriso.
Ebbe
una sfocata rimembranza quando la musica riprese ad un ritmo
più sostenuto. Il
suono dello shamisen era inconfondibile e – sin da quella
lontana fioritura dei
ciliegi, cinquanta anni prima – gli provocava una profonda e
dolorosa fitta al
petto.
Rivide
per un solo istante quella figura minuta e ricurva che si impegnava su
quelle
stesse corde, avvolta negli abiti pensanti, mentre il sole le inondava
il volto
leggermente incavato. Lo shamisen suonato da lei
assumeva una tonalità diversa da quella che aveva
caratterizzato le melodie eseguite da sua madre, ma gli aveva sempre e
comunque
suscitato un immenso piacere. Ricordava perfettamente quanto aveva
amato
ascoltarla, guardarla mentre si concentrava su quello strumento
affusolato che
accumunava tutte le donne della sua vita.
Byakuya
deglutì piano, lasciandosi cullare dalla musica incerta
prodotta dello shamisen
impugnato da Rukia.
Era
assurdo e struggente che, nella sua ricerca di perfezione, Rukia
tentasse
inconsapevolmente di assomigliare a sua sorella.
Quando
i ricordi che la riguardavano
tornavano nitidi ed intensi alla sua mente, gli era quasi impossibile
smettere
di pensarci.
Ma
forse, in realtà, la memoria di Hisana non lo aveva mai
abbandonato.
Neppure
per un istante, da quando lei aveva chiuso gli occhi e lo aveva
lasciato per sempre.
{• ***
•}
« E’ tutta colpa mia,
Byakuya-sama…» distesa sul futon, la fronte
imperlata di sudore, quelle erano
le parole che le uscivano di bocca «…se solo fossi
stata più forte…» abbassava
lo sguardo, ansimando leggermente, cercando di trattenere le lacrime
«…non
avrei permesso che mi abbandonasse...»
Byakuya le rispondeva
posando leggermente le labbra sulle dita tremanti, seduto al suo fianco:
« Pensa solo a guarire,
Hisana. Il resto non ha importanza.»
Lei strizzava forte gli
occhi, le lacrime che le inondavano il volto, mordendosi le labbra per
non
urlare.
Si sentiva colpevole e
non riusciva a perdonarsi. Bastava un mancamento, un peggioramento di
salute,
ed entrambi vedevano i loro sogni sfumare in quella stanza da letto,
vicino a
quel futon dove lei stava distesa, al buio, in preda alla febbre, in
preda al
rimorso di aver deluso ancora – senza poter fare nulla
– le aspettative di suo
marito.
« La nobile Hisana non
potrà più avere figli.»
Lei piangeva,
mormorandogli le proprie scusa disperate, abbracciandolo, unendo le
loro mani nell’addormentarsi
al suo fianco. Byakuya la baciava, le sussurrava parole che riuscivano
a
calmarla come nessun’altra medicina; poi guardava il suo
volto magro e le sue
guance salate di lacrime, senza riuscire a chiudere occhio,
stringendola a sé mentre
respirava il profumo dei suoi capelli.
Finché poteva avere lei,
non gli interessava nient’altro.
Amava il suo sorriso.
Amava il taglio dolce dei suoi occhi.
L’aveva sposata per
vederla sorridere durante ogni singolo giorno della sua vita.
“ State facendo un
errore, nobile Byakuya.”
Erano le parole con cui
tutti lo accusavano tacitamente, osservandolo mentre avanzava lungo i
corridoi,
silenzioso nel suo incedere impeccabile e maestoso; nessuno aveva mai
smesso di
opporsi, di ricordargli quanto era stato avventato in quella sua
scelta. Di
quanto era stata vergognosa la sua risolutezza, quanto insolente il suo
oltraggio
alla legge, di quanto disonore aveva portato sul buon nome della casata.
« Vi prego di smettere
di tormentarmi con tali insensate parole.» era la risposta
garbata che forniva
a quelle accuse, quando non gli era più possibile ignorarle.
Hisana era sua. Era
stata la sua unica pretesa, dopo tutti quegli anni trascorsi in un
costante ed ubbidiente
sottostare alle decisioni che altri avevano preso per lui.
“Diventerai uno
shinigami”
“Indosserai
gli hakama
di chi pratica il kidoh”
“Sarai il prossimo
capofamiglia del casato Kuchiki”
“Impugna la spada”
“Rispetta
la legge.
Proteggila con tutto te stesso, fino a quando non avrai più
fiato nei polmoni”
“Studia, studia, studia.
Tempra la tua anima. Diventa forte.”
“Non rispondere alle
provocazioni.”
“ Sii freddo, sii
posato, sii l’esempio ed il modello esemplare per
l’intera Seiretei.”
“Sii
l’uomo che il clan
vuole che tu sia.”
Quando aveva indossato lo
scuro kimono cerimoniale, il kenseikan intrecciato fra i suoi capelli,
aveva accolto
la mano tremante di Hisana nella sua senza prestare la
benché minima attenzione
agli sguardi pieni di disapprovazione che avevano seguito ogni suo
passo, nel
santuario, finché non si era seduto con lei davanti
all’altare.
Il sacerdote vestito di
bianco aveva fatto tintinnare gli anelli del suo shaku, assistendoli
durante lo
svolgersi di quella silenziosa e tesa cerimonia. Hisana aveva bevuto i
suoi tre
brevi sorsi di sakè poggiando delicatamente le labbra sul
bordo delle tazze, la
sua bocca rossa e piccola che le sfiorava timida laddove anche Byakuya,
qualche
istante prima, aveva posato la propria.
Lui aveva seguito i suoi
gesti senza riuscire a distogliere gli occhi dalla sua figura, avvolta
in quell’abito
sfarzoso che era appartenuto a generazioni e generazioni di giovani
spose
Kuchiki, i fermagli preziosi che scintillavano fra i suoi sottili e
lunghi
capelli neri, acconciati secondo la tradizione del clan.
In quel momento Hisana gli
era sembrata tanto bella e perfetta nel suo silenzioso sedergli al
fianco, che
tutte le motivazioni con cui i parenti gli si erano opposti avevano
perso ogni
significato. Nessuno di loro aveva il diritto di sminuire quella donna,
sostenendo che il suo sangue non fosse degno di unirsi a quello di un
Kuchiki.
Aveva recitato la
formula rituale con voce decisa e profonda, senza avere una sola
esitazione.
« Kuchiki Byakuya.»
aveva concluso, poco prima che Hisana, inspirando, ripetesse le sue
stesse
parole, la voce melodiosa che fremeva:
« Kuchiki Hisana.»
Inchinandosi
all’unisono, ripetendo in silenzio il nome
dell’altro all’infinito come una
solenne promessa, avevano offerto all’altare i rami di
sempreverde che
avrebbero suggellato la loro unione.
Non si era mai pentito
per un solo istante di quella decisione, anche se aveva deluso le
aspettative
dell’intero clan. Anche se aveva infranto la legge a cui i
suoi antenati si
erano dedicati anima e corpo. Anche quando le continue pressioni lo
spingevano
al limite, bastava sfiorare con la punta delle dita la fede dorata che
non
toglieva mai dall’anulare per ritrovare la propria
determinazione. Bastava che
Hisana continuasse ad accoglierlo con il suo sorriso, dopo una lunga
giornata
di lavoro; bastava potersi distendere vicino a lei, la testa poggiata
sulle sue
gambe, con gli occhi chiusi, mentre lei gli carezzava il volto ed
insinuava le
dita sottili e morbide fra i suoi capelli. Bastava che lei parlasse.
« Nobile Byakuya.»
Lui dischiudeva le
palpebre: il volto di Hisana era sereno:
« Avete voglia di
conversare un po’ con me?» era sempre cortese,
mentre lo sfiorava con il suo
tocco delicato.
Sul volto di Byakuya
appariva un’espressione quasi divertita. Forse sua moglie non
aveva nemmeno la
più pallida idea di quanto
fosse
follemente innamorato di lei.
« Ti ascolto, Hisana.»
Non aveva mai domandato
altro.
Voleva solo che nessuno
gli negasse la presenza di sua moglie.
Era una richiesta così
vergognosa…?
« Sua Eccellenza Byakuya
…»
Quella sera, quando i
medici erano venuti a cercarlo, cadeva una fitta nevicata. Il laghetto
nel
giardino era diventato un ampio specchio di ghiaccio, mentre le pietre
e i rami
spogli degli alberi sembravano pittoresche sculture punteggiate di
bianco.
« Le condizioni di
salute della nobile Hisana si sono aggravate...»
Le mani ed i piedi nudi
di Hisana erano sempre stati freddi. Anche le sue guance e le sue
labbra, a
volte, quando lo baciava, erano esangui e gelide. L’avvolgeva
fra le pieghe del
proprio kimono, abbracciandola, sperando che servisse a farle
ricolorare il
volto. Lei aveva sempre soffocato qualche colpo di tosse,
ringraziandolo e
chiedendogli scusa, anche se il suo sorriso si faceva sempre
più spento.
« …ha avuto un
mancamento questa mattina…abbiamo dovuto somministrarle
…»
A volte si erano seduti
insieme fra i fusuma aperti, avvolti nello stesso spesso ed imbottito
shikibuton, gli occhi rivolti al cielo che rifletteva le scintille
multicolori
dei fuochi d’artificio invernali. Quell’anno,
Hisana aveva detto di averli
apprezzati più del solito, ma Byakuya l’aveva
sentita tossire con una violenza
preoccupante. Anche se lei diceva di stare bene, lo spettacolo
pirotecnico di
quell’inverno non gli aveva suscitato altro se non una
terribile inquietudine.
«…possiamo fare poco
ormai, se non alleviarle la pena…»
Era stato un inverno
particolarmente rigido. Uno dei più freddi e duri che
Byakuya ricordasse.
«…la nobile Hisana potrebbe
non raggiungere la fine della prossima primavera.»
Forse fu il più gelido inverno
della sua vita.
Non si era allontanato
dal suo capezzale neppure un istante. La guardava stringendole la mano
inerte,
mentre il suo petto si alzava ed abbassava con difficoltà ed
il suo volto
diventava sempre più magro, i suoi polsi sempre
più esili. Le sorrideva
debolmente quando la vedeva svegliarsi, chiedendole come stesse,
sperando che
la sua presenza potesse portarle conforto. A mano a mano che i giorni
passavano, la veglia diventava sempre più penosa, sempre
più difficile
accettare l’idea che lei stesse davvero per andarsene.
Il giorno in cui lei aveva
chiuso gli occhi per sempre, non era ancora iniziata la fioritura dei
ciliegi.
Quell’anno non aveva fatto in tempo a vederla.
Aveva abbassato le
palpebre con le ciglia bagnate, lacrime di gratitudine che le solcavano
le
guance, ed era morta con il suo nome sulle labbra:
« …Nobile
Byakuya…»
La mano di Hisana era
diventata fredda ed immobile, abbandonata nella sua. Anche nella morte,
il
volto della donna che aveva amato con tutto sé stesso
conservava una bellezza ed
una serenità che sapeva di non poter dimenticare. Il gemito
di dolore che gli
era sfuggito dalle labbra era parso rimbombare nella stanza vuota in un
eco
senza fine, sovrastando anche il rumore del vento.
Per ironia della sorte,
la fioritura dei ciliegi era iniziata il giorno del suo funerale.
Avvolto
nell’abito nero a lutto, Byakuya aveva guardato i petali
scivolare via dai loro
rami, mentre lo scampanellio provocato dagli ospiti gli riempiva le
orecchie in
una continua processione che si fermava davanti al feretro di Hisana.
Perché?
Quei cinque anni passati
con lei erano trascorsi veloci come in un sogno. Ora che lei non
c’era più, era
difficile riabituarsi alla lentezza estenuante con cui i giorni avevano
ripreso
a susseguirsi.
Era diventato tutto più faticoso.
Più difficile sorridere,
più difficile esprimersi, più difficile
comunicare con gli altri.
Aveva dimenticato quanto
potesse essere monotona e fredda la vita di un nobile.
Quarantanove giorni dopo
il funerale – il mese più lungo che avesse mai
affrontato – si era ritrovato a riaccostare
i battenti del butsudan che onorava il ricordo di Hisana con mani
tremanti,
chiudendo forte gli occhi. Si era accasciato davanti al piccolo altare,
la fronte
premuta contro il legno smaltato, mentre i lembi dell’abito
si distendevano
attorno alle sue gambe, sul tatami.
Perché Hisana?
Perché mi hai lasciato?
Ogni volta che apriva le
ante del butsudan e rivedeva il suo sorriso, immortalato nella sua
dolcezza,
era difficile richiuderle e andarsene. Batteva velocemente le palpebre,
rifiutando
quella profonda disperazione che lo assaliva quando ripensava a lei.
Ti ho amata, Hisana.
Un anno dopo, aveva
trovato Rukia quasi per caso. Nell’attimo in cui
l’aveva vista – così simile a
sua sorella, così piccola nei suoi abiti accademici
– gli era parso di
assistere ad un miracolo. Le ultime parole di Hisana non gli avevano
mai dato
pace, ma in quel momento il suo cuore aveva ritrovato una
tranquillità
inaspettata.
Nobile Byakuya…
Vi
supplico…
…trovate la mia
sorellina
…usate
il vostro potere
per proteggerla…
Non ho il diritto di
essere chiamata “sorella”…
…vorrei….
…che le permetteste di
chiamarvi “fratello”.
Non sono stato in grado di
proteggerti, Hisana.
Non ho saputo impedire che tu mi
lasciassi.
Aveva risposto con
silenzioso sprezzo alle proteste. Ancora una volta gli uomini che gli
stavano
attorno cercavano di impedirgli di fare come gli dettava il suo cuore.
Ma dopo che il destino
gli aveva portato via Hisana, non avrebbe permesso che loro gli
portassero via
la sua unica via di redenzione.
Ti amo, Hisana.
Il santuario in cui
riposavano i suoi nobili genitori era vuoto e silenzioso; seduto sui
talloni, si
era inchinato davanti alle loro due tombe affiancate fino a far toccare
il volto
contro il tatami, pronunciando sommessamente quelle parole che si era
ripetuto
tante volte dal giorno dell’adozione di Rukia.
Sarò la legge.
Sarò la giustizia.
Sarò
un Kuchiki.
Quel solenne giuramento
– e la promessa fatta a sua moglie – avrebbero
guidato i suoi passi da quel
momento in poi.
Hisana.
Non smetterò mai di
amarti.
{•
***
•}
Byakuya
aprì lentamente gli occhi, mentre sentiva il calore del
tramonto scivolare via
lungo la linea spigolosa del proprio profilo, lasciando spazio al
bagliore ceruleo
della luna.
Rukia
aveva ormai smesso di suonare.
{•
***
•}
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