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Autore: Ivola    04/07/2014    1 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Note: Sono tornata, dopo tre settimane anziché due, causa trasloco che mi sta uccidendo. Perché non c'è niente di più bello di un trasloco fai-da-te. Già (notate l'ironia, per favore ç-ç). Ho trovato molto difficile scrivere questo capitolo perché per un breve quanto doloroso periodo sono entrata in una fase di blocco e ho davvero creduto di poter andare in paranoia. Non voglio avere IL blocco in estate, quando ho tanto tempo libero D:
Sinceramente non ho molto da aggiungere, a parte che spero siate pronti per il ventiquattresimo capitolo, ovvero quello a cui conduce tutta la storia e che è già mezzo-scritto :)
QUI c'è la mia pagina facebook, se può interessarvi, e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni creato da poco, gestito da me, JD Jaden e Tinkerbell92, dove si organizzano iniziative e tante cose carucce. E poi le mie colleghe sono persone stupende, per cui iscrivetevi soltanto per loro :'3
Grazie ancora a tutti i seguaci (fa molto setta satanica °^°) di Blur, vecchi e nuovi, vi amo ♥
Bon, vi lascio a La canzone del nemico

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Part II" dei Paramore. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






023. Twenty-third Chapter – Enemy's song.




C’era silenzio. Fu la prima cosa che avvertì nel ritornare cosciente. L’unico suono percettibile era il suo respiro che si regolarizzava.
Non riuscì a riaprire gli occhi per quelli che le sembrarono molti minuti. Inspirava, espirava. La sua guancia era a contatto con qualcosa di freddo, probabilmente le mattonelle di un pavimento. Cominciò ad schiudere le palpebre, piano, mentre il fascio di luce tremulo del luogo in cui si trovava l’abbagliava dolorosamente, come una lama che le feriva le cornee.
Serrò nuovamente gli occhi perché non riusciva a tenerli aperti neanche per poco – non ancora, almeno, presto si sarebbe abituata. Si concentrò sulle altre percezioni: si rese conto che c’era un’eccessiva puzza di chiuso, che era stesa a pancia in giù e che un dolore terribile alla testa le bloccava qualsiasi iniziativa di movimento.
Strizzò ancora una volta le palpebre e finalmente cominciò a distinguere qualcosa. Si trovava, effettivamente, su un pavimento piastrellato di bianco, in una stanza pulita ma piccola, decorata con delle fastidiose e mal funzionanti luci al neon. Dalle sue labbra fuoriuscì un basso gemito.
Dove si trovava? Se lo chiese veramente per la prima volta negli istanti successivi. Nel suo cervello regnava uno stato di caos e confusione, accompagnati da ricordi sfocati ma insistenti, che premevano per farsi strada nella sua mente annebbiata. Un hovercraft, Klaus, una grande porta di ferro, degli spari, dei Pacificatori, qualcuno che le puntava una pistola alla tempia.
Non cominciò subito a collegare i punti, perché fu distratta da un ulteriore fastidio, questa volta alle braccia, che in poco tempo si trasformò in dolore. Erano costrette dietro alla schiena, con i polsi ben stretti legati da una corda ruvida, che si collegava ad un’altra che le tratteneva ferreamente le caviglie.
Un’ondata di panico si fece ampiamente strada nel suo petto, tanto che cominciò a dimenarsi e a cercare di liberarsi, invano. Il respiro le si velocizzò nuovamente, al pari dei suoi tentativi di fuga. Tutto ciò che ottenne, in ogni caso, fu un maggiore intorpidimento alle membra di gambe e braccia.
Lanciò un grido di esasperazione e disperazione, ma si arrese l’attimo successivo.
I battiti del suo cuore aumentarono al pari del mal di testa, così forte che quasi non riusciva a pensare ad altro, e provò a calmarsi per cercare di ragionare lucidamente.
Voltò il capo nelle direzioni che le erano possibili e ciò che più l’atterrì fu il fatto che non c’era traccia di porte o finestre. Giunse all’affrettata e disperata conclusione che probabilmente ce ne dovesse essere una alle sue spalle, ma il solo pensiero di doversi muovere e girarsi dall’altro lato la fece andare in paranoia. Tuttavia si costrinse a farlo, anche perché non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse scoperto di trovarsi in una stanza senza vie d’uscita. Sarebbe di sicuro impazzita, in quel caso.
Ricacciò indietro un singhiozzo che le pulsava nella gola e cominciò a strisciare per voltarsi dalla parte opposta. Si sentiva uno stupido verme indifeso, in quel momento, ma sperava che non ci fosse nessuno a guardarla perché il suo viso era il ritratto dello sconforto e dell’angoscia.
Dove diavolo mi trovo…?, continuava a pensare, voltandosi piano. Quando quel doloroso movimento fu completato, scoprì che una porta effettivamente c’era, ma non provò nemmeno a sospirare di sollievo perché era talmente possente – e blindata – che non sarebbe riuscita ad abbatterla nemmeno con una forza sovrumana. Inspirò profondamente, provando a non rimanere intrappolata tra le salde reti del panico che si stava impossessando di lei. Non voleva piangere e non ci sarebbe riuscita, perché la paura era più grande di ogni altra emozione che potesse provare in quel momento.
Tentò di tirarsi su e di sedersi con la schiena appoggiata alla parete, ma abbandonò presto l’intento perché una fitta di dolore ai muscoli della schiena bloccò quel gesto.
Il suo cervello continuava a pulsare di domande, pensieri, ricordi confusi, il tutto amalgamato alla perfezione in quel mal di testa incessante che si diffondeva a partire dalla nuca, come se qualcuno le stesse perforando il cranio con un lungo chiodo, per poi librarsi nella sua mente. Chiuse gli occhi e cercò ci concentrarsi sugli ultimi avvenimenti che riusciva a ricordare.
Avevano trovato Klaudia… era nel Distretto Sei, insieme a Ben e ai suoi genitori, e Frantz Wreisht era morto. Il mal di testa aumentò, ma stavolta lei non si arrese.
Una frase detta da un Pacificatore le rimbombò all’improvviso nelle orecchie, come se un megafono inesistente la stesse urlando a distanza ravvicinata.

« E Capitol sia… Gli farà compagnia, e gliene farà anche quando saranno morti entrambi. »
Morti. Entrambi. Le sue braccia esili furono percorse da un tremito involontario.
London continuò a ripetersi quella frase nella mente, muovendo appena le labbra e tenendo gli occhi chiusi, come se stesse provando a convincersi del contrario. Si trovava a Capitol City. Volevano ucciderla. Volevano uccidere Klaus.
I pensieri si annebbiarono ancora di più e tutto per un attimo si annullò, persino la sua paura.
Dov’è Klaus?
Il fatto di non riuscire a trovare una risposta immediata a quella domanda le fece più paura di tutto il resto. In quel caso avrebbe davvero voluto avere la forza per alzarsi in piedi e picchiare sulla porta finché qualcuno non le avrebbe risposto, ma era bloccata lì, a terra, sul quel maledetto pavimento di piastrelle fredde e bianche a contemplare il vuoto della stanza e il vuoto dentro di sé.
D’un tratto un rumore metallico le giunse alle orecchie e dunque la porta si spalancò, rivelando un Pacificatore che entrò nella cella senza preamboli. Per un improvviso e necessario istinto di sopravvivenza London ritrasse il suo corpo fino a toccare una parete, terrorizzata da cosa quell’uomo avrebbe potuto farle; l’ultima volta che aveva visto un Pacificatore, quello aveva avuto intenzione di spararle alla testa.

« Fermo! » tentò di gridare, ma la sua voce risultò più che altro solo un misero sussurro spezzato. « Non toccarmi! »
Il Pacificatore, con sua grande sorpresa, la ignorò completamente, limitandosi a lasciare sul pavimento un secchio di plastica e un vassoio dello stesso materiale con una ciotola e un bicchiere d’acqua. London lo fissò con gli occhi spalancati e rimase in silenzio esattamente come lui, che si apprestò ad abbandonare nuovamente la cella.
Prima di richiudere la porta blindata, tuttavia, disse: 
« Se collaborerai, non ti faranno molto male. Ti consiglio di non opporre resistenza. »
« Aspetta! » provò di nuovo la ragazza, ma il Pacificatore scomparve nel giro di un secondo. Non aveva idea di cosa avesse voluto dire – o forse aveva troppa paura persino di pensarlo. Non opporre resistenza. Suonava più come una minaccia, che come un consiglio. A cosa?
London si morse le labbra, sperando con tutta se stessa che avrebbe trovato il modo per scappare di lì con Klaus prima di ricevere altre visite inattese.
Visite che, ne era certa, non sarebbero state tranquille come quella. 
 

*


Prima ancora del dolore, Klaus sentì un rivolo di sangue scivolargli dalla bocca, lungo il mento. Subito dopo la guancia, lo zigomo e il labbro inferiore iniziarono a pulsare in modo lanciante, tanto che dovette strizzare le palpebre per non lacrimare e mostrarsi più inerme di quanto già non fosse. Nonostante ciò, non abbassò lo sguardo, anche se alcuni capelli gli scivolarono davanti agli occhi.
« Abbiamo notato con piacere che sei già stato punito da qualcun altro » sghignazzò l’uomo davanti a lui, quello che gli aveva dato poco prima i pugni al viso. Aveva una faccia anonima ma losca, i capelli brizzolati per l’età avanzata e gli occhi ottenebrati dalla cattiveria – o forse, dal semplice piacere di vedere una persona soffrire davanti a lui. « Ti hanno torturato anche nel posto in cui sei scappato? »
Klaus non rispose per l’ennesima volta. Tutto ciò che aveva detto da quando si era svegliato era stato “Liberatemi!” agli uomini che gli si erano parati davanti, prima di cominciare a percuoterlo come se fosse stato solo un’inutile valvola di sfogo. Quella scomoda posizione non gli permetteva alcun tipo di contrattacco – anche se avrebbe avuto la peggio in ogni caso, considerano che si trattava di tre persone contro una.
Il suo corpo era in piedi in mezzo alla stanza fetida in cui l’avevano rinchiuso, retto da catene in diagonale ancorate al muro che gli tenevano le braccia alzate e i piedi distanti l’uno dall’altro.
Dopo un primo giro di puro e sadico divertimento, quegli uomini, probabilmente alleati di Capitol City, avevano cominciato a fargli delle domande a raffica. Ad ogni risposta non data corrispondeva una percossa; gli avevano già stretto le catene, dato dei pugni al volto, delle ginocchiate nello stomaco e dei calci negli stinchi, ma Klaus aveva continuato a rimanere in silenzio. Non perché volesse proteggere la verità o nascondere qualcosa, ma soltanto perché non aveva la minima idea di ciò che stavano dicendo. Parlavano di rivolte, fughe, Hunger Games, ghiandaie, altri vincitori, ribelli e Distretto Tredici.
Innanzitutto, Klaus aveva sempre creduto che il Distretto Tredici fosse andato distrutto molti anni prima della sua nascita e, inoltre, lui e London erano mancati gli ultimi due anni, per cui non sapeva neanche lontanamente di tutte le cose che potessero essere accadute. Già, London. Klaus non sapeva dove diavolo l’avessero portata e non osava chiederlo perché era sicuro che non avrebbe ottenuto risposta. Era un pensiero che lo tormentava sin da quando aveva aperto gli occhi.

« No, queste cicatrici sono vecchie » intervenne un altro uomo alle sue spalle, passandogli la mano callosa sulla schiena. Klaus provò a dimenarsi perché quel tocco lo umiliava più di qualunque altra cosa, ma non riuscì nell’intento. Era sicuro che quel tizio stesse ridendo di lui anche se non poteva vederlo e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterlo stendere al suolo a suon di pugni. « Chissà come se l’è procurate… frustate? »
L’uomo davanti a lui fece un sorriso storto. « Forse mi stai dando un’idea, sai? I vecchi metodi sono sempre i migliori. »
Le membra di Klaus a quelle parole si irrigidirono all’istante, involontariamente, e le sue pupille si dilatarono. Sapeva che quelle percosse erano soltanto l’inizio di un lungo soggiorno, ma preferiva quelle ad altre frustate.
« No, Preston » intervenne il terzo uomo, incrociando le braccia, « Emil ha richiesto apertamente di lasciare la frusta a lui. »
Il ragazzo fissò negli occhi quello che aveva parlato, intenzionato a metterlo in soggezione, ma lui non si scompose e gli si avvicinò con fare minaccioso. Gli fece alzare la testa prendendolo per i capelli e, vicinissimo alla sua faccia, gli domandò: « Dove si nascondono i ribelli? » Il suo alito fetido gli invase le narici.
« Non lo so » si decise a replicare – anche perché non esisteva risposta più vera – senza staccare gli occhi dall’uomo.
L’altro, tuttavia, rise con asprezza e gli diede l’ennesimo pugno dello stomaco, a cui Klaus non poté fare a meno di gemere debolmente.
« Non lo sai? Oh, povero stupido bambino. » Gli lasciò andare i capelli e girò in tondo, scrutando il suo corpo esposto. « Beato Emil, lui che ha gli ordini si divertirà molto con te. »
Klaus non si volle domandare chi fosse quell’Emil e cosa gli avrebbe fatto quando si sarebbero incontrati. Come aveva già pensato, la sua permanenza a Capitol City non sarebbe durata soltanto qualche giorno, anzi, forse non avrebbe più rivisto casa sua, forse non avrebbe più rivisto nemmeno London o Klaudia. Il nome della moglie gli premeva sulle labbra, ma non aveva il coraggio di pronunciarlo per paura di poterla mettere ancora più in pericolo.
Sempre che non labbiano già uccisa, sembrava sussurrargli insistentemente una voce nel suo cervello, a cui cercava di non dare ascolto. Si era detto che se l’avessero voluta uccidere, le avrebbero sparato già quando li avevano scoperti, nel Distretto Sei… ma non aveva idea di dove la tenessero rinchiusa – in realtà non sapeva nemmeno dove fosse rinchiuso lui. In un palazzo, in una prigione? Non c’erano finestre e anche soltanto il fatto di non riuscire a capire se fosse giorno o notte gli faceva perdere lucidità, come se stesse smarrendo il controllo del proprio corpo di minuto in minuto. Non sapeva dire neanche quanto tempo fosse passato da quando si era svegliato, perché quella tortura stava procedendo lentamente e dolorosamente. Più percosse riceveva, più il tempo rallentava. Gli sembrava addirittura di riuscire a sentire in lontananza il ticchettio di un orologio, sempre più lento… Quando le lancette si sarebbero fermate, allora sarebbe morto?
Inspirò a fondo, sperando di non impazzire, così almeno avrebbe provato a scappare non appena sarebbe rimasto da solo, per quanto l’idea gli apparisse assurda già in partenza.

« Dove sei stato in questi due anni, Wreisht? » tornò a chiedergli. « Il Presidente Snow vorrebbe tanto saperlo. »
Klaus perse giusto un istante a collegare gli avvenimenti alle parole di quell’uomo. Erano stati rintracciati a Valhalla da un hovercraft. Se non Capitol, allora, chi era stato a rapire Klaudia? Non rispose nemmeno a quella domanda, non voleva che riuscissero a giungere né a Käthe, né alla bambina, che per il momento era al sicuro.
Il mutismo di Klaus, in ogni caso, infastidì ancora di più i tre uomini che continuarono la loro personale tortura, finché qualcuno non li chiamò per interfono.

« Basta così, per oggi » disse una voce distorta dall’apparecchio. « Con lui continuerò io a lavorare domani. »
Uno dei tre uomini alzò gli occhi al cielo. « Non crederti fortunato, Wreisht » disse, aprendo la porta blindata. « Emil saprà come passare il tempo con te e con la tua amata mogliettina. »
Klaus si agitò improvvisamente, pur essendo incatenato. « Dov’è? » domandò di scatto, forse già terrorizzato da una possibile replica.
L’uomo rise semplicemente in risposta e abbandonò la stanza con i suoi colleghi, lasciandolo solo e dolorante.
Avrebbe voluto urlare, persino infrangere le barriere del suono se avesse potuto, ma si impose di mantenere la calma per cercare un piano di fuga. Si guardò intorno con ansia, sperando di trovare qualcosa che potesse aiutarlo a scappare, ma tutto ciò che vide furono una telecamera e l’interfono sulla parete di fronte a lui. La cella era completamente vuota e nei muri non c’era nemmeno una crepa.
Capì che qualcuno lo stava osservando, perché una piccola lucina rossa lampeggiava sotto la telecamera; tenne fissi gli occhi su quella luce.
Chi sei, maledettissimo bastardo?
Nei successivi minuti non accadde assolutamente nulla. Klaus sentì il dolore delle percosse aumentare sempre più e i pensieri farsi di gran lunga più sfocati. Si accasciò alle catene per quanto gli era possibile e si umettò le labbra con la lingua per eliminare il ferruginoso sapore del sangue, ma quel gesto valse a poco. I polsi e le caviglie gli dolevano già incredibilmente e sperava che quel posto non l’avrebbe fatto impazzire prima del previsto. Non solo si sentiva soffocare da quella cella piccola e chiusa, infatti, ma l’idea di non sapere cosa ne avrebbero fatto di lui e London lo tormentava tanto da farlo sentire male.
Le tempie pulsavano di dolore e il pensiero della moglie ugualmente torturata – o peggio – gli si aggrappava voracemente alla gola, come per soffocarlo, facendogli desiderare di avere la forza di liberarsi da quelle catene solo per raggiungerla.
Le aveva detto che sarebbe andato tutto bene, se lo ricordava quasi come se l’avesse appena pronunciato. Anzi, gliel’aveva giurato.
Klaus si chiese con orrore se sarebbe riuscito* a mantenere la promessa.

 

*


Non aveva neanche la più pallida idea di quante ore potessero essere trascorse. Era rimasta tutto il tempo a fissare la parete di fronte, facendo vagare i pensieri dalla sua famiglia a Klaus. Si era chiesta troppe volte se Klaudia fosse effettivamente al sicuro, ma era certa che in compagnia dei suoi genitori e di Ben i pericoli non fossero molti – anche se dopo quella sparatoria alla porta sud del Distretto Sei ne era sempre un po’ meno convinta. Quanto avrebbe voluto rivederla, riabbracciarla, dirle che la sua mamma non l’avrebbe mai più lasciata sola… E quanto avrebbe voluto rivedere Ben, nessuno sarebbe mai riuscito ad esprimerlo a parole. Era un dolore diverso da tutti gli altri, un dolore che proveniva dall’interno del suo petto e si espandeva – si imponeva – intorno al cuore, coprendolo di un manto freddo, come quando la pioggia ricopre il terreno di schizzi violenti.
Una lacrima fu sul punto di scivolarle sulla guancia, ma ebbe l’ostinazione di non farla cadere. Nulla era perduto, anche se l’essere bloccata in quella cella metteva a dura prova quella piccola ma costante scintilla di speranza.
Speranza che, nonostante il suo ardore, si smorzò all’entrata di un Pacificatore.
London era certa che non fosse lo stesso di prima, perché questi si avvicinò con fare minaccioso e con un calcio rovesciò il vassoio che non aveva nemmeno toccato – e come poteva, dal momento che aveva le braccia legate dietro la schiena?

« Si cambia stanza, bambolina » le disse l’uomo con cattiveria, « non credo ti dispiacerà, visto che non hai gradito il cibo. »
London quasi ringhiò nella sua direzione, arretrando fino alla parete. « E, di grazia, come avrei fatto a gradire se sono legata come un animale? » Non sapeva dove avesse cacciato quel sarcasmo pungente, ma forse era soltanto un modo per cercare di difendersi. Ma le parole non vincono mai, avrebbe dovuto saperlo.
« Appunto, avresti potuto mangiare come un animale, con quella bella boccuccia che ti ritrovi » rispose il Pacificatore, palesemente ridacchiando sotto il casco bianco. Dopodiché si abbassò sul suo corpo e se la caricò in spalla.
« Lasciami andare! » urlò London, cercando di scalciare in qualsiasi modo, ma la doppia corda non le permetteva di opporsi più di tanto. « Lasciami! »
Il Pacificatore non si scompose e la trascinò di peso lungo il corridoio al di fuori della stanza, del tutto immune alle sue grida di protesta. London perse giusto un istante ad osservare l’ambiente, vuoto e spoglio esattamente come la cella, raramente decorato da altre porte – ma mai finestre.
Continuò a dimenarsi sulla spalla dell’uomo, finché quello non la fece cadere violentemente a terra per farla smettere. L’impatto fu doloroso, soprattutto per il suo mento che batté contro le mattonelle. Gemette e probabilmente il Pacificatore si beò di quel suono, per cui, forse non ancora soddisfatto, le diede un calcio alla schiena con la punta dello stivale, che le mozzò il respiro.

« E’ inutile opporsi, bambolina » disse, ricaricandosela in spalla come se fosse fatta di piume e non di carne.
« Non chiamarmi così » biascicò London, non arrendendosi del tutto. Si lasciò trasportare malvolentieri per quel corridoio anonimo, dimenandosi con tutte le proprie forze, che tuttavia cominciarono ad indebolirsi di secondo in secondo, finché non iniziò a sentirsi quasi completamente fiacca.
Non poteva lasciare che quella spasmodica voglia di fuggire l’abbandonasse, non poteva lasciarsi andare in quel modo.
Eppure, in effetti… da quanto tempo non metteva del cibo sotto i denti, o da quanto non beveva un sorso d’acqua? Improvvisamente quei bisogni si fecero pressanti, come se stessero per trascinarla vero una lenta agonia; aveva la gola secca, così come lo stomaco e la vescica contratti. Si domandò per quanto avrebbe retto, ma, soprattutto, se avrebbe retto. Non aveva idea di cosa volessero farne di lei e il suo terrore aumentava al trascorrere del tempo, mentre la speranza di scappare, suo malgrado, diminuiva progressivamente.
London sapeva di non aver mai avuto un’alta sopportazione del dolore – detestava ammetterlo, ma aveva persino creduto di morire con il parto di Klaudia – ed ora l’idea di poter essere torturata, per crimini che forse non potevano considerarsi nemmeno tali, la stava atterrendo. Non poteva arrendersi, non poteva limitarsi a lasciare che fossero gli eventi a decidere.
Aveva paura del dolore, questa era la verità, aveva paura che potessero scorticarla o seppellirla viva o, ancora, bruciarla.
Non voleva che la toccassero, nemmeno per sfiorarla.
L’istinto, infine, fu più forte di ogni altra cosa. Si mosse ancora un po’ sulla spalla del Pacificatore, fino a raggiungere l’incavo tra spalla e collo con la bocca; morse repentinamente e il più forte possibile, lì dove c’era il tessuto. Strinse i denti fino a sentire la pelle e l’urlo dell’uomo invaderle i timpani. La reazione fu istantanea: quello la sbatté contro il muro, lasciandola poi cadere sul pavimento un’altra volta.

« Stupida puttana » sibilò, prima di recuperare la propria pistola dal fodero e colpirle la testa con il calcio. Non ebbe neanche il tempo di rispondere a quell’insulto, che tutto divenne buio. Ancora.
 

*


Era caduto addormentato, per chissà quale motivo. Il suo corpo cominciava a perdere le forze, costretto in quella posizione.
Eppure tutto era più nero di prima, più dell’incoscienza, non percepiva alcun tipo di luce, nemmeno quelle al neon della cella. Poi capì che qualcuno doveva avergli messo una benda davanti agli occhi, perché sentiva chiaramente il nodo premergli dietro la nuca.
Deglutì a fatica con la poca saliva che gli era rimasta e strinse i pugni intorno alle catene. Cercò di escludere il battito velocizzato del proprio cuore dalla mente, concentrandosi sugli altri suoni che riusciva ad ascoltare.
Passi. Lenti, circospetti, poco lontani da lui.
S'irrigidì immediatamente e mormorò a bassa voce, pur sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta: 
« Chi c’è? »
« Sei sveglio. » Era una semplice affermazione, che tuttavia gli fece ghiacciare il sangue nelle vene. Una voce distorta, roca, eppure calmissima. Capì che doveva trattarsi di Emil, colui che aveva richiamato i tre uomini per interfono. « Allora, Klaus… ti va di giocare un po’? »
Klaus rabbrividì d’istinto nell’ascoltare il proprio nome pronunciato da quella voce. Drizzò le orecchie al suono di un piccolo sibilo indistinto, che tuttavia nel silenzio della cella rimbombò come lo sparo di mille cannoni. Era un veloce movimento, un suono quasi impercettibile, come del cuoio che schiocca piano sul pavimento.
Come una frusta.








*Questa espressione è voluta e non dovrebbe essere un errore dal momento che voglio indicare una condizione del futuro relativamente al passato.










   
 
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