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Autore: G K S    14/07/2014    2 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Minuscolo spazio autrice -
Non ho granchè da dire, solo, benvenute al Quattrocentoventisette, in questo capitolo il primo step importante e qualche incontro particolare... ehehe, non fatemi parlare.



 
2. Ascesa


Attraversò il corridoio andante per la mensa seguendo il tragitto, descritto e delineato dalla piantina stilizzata. Adocchiò l’entrata dell’infermeria di sottecchi, delle voci vagavano nell’aria dietro quella porta. Kell affrettò il passo.
Quando il lungo corridoio giunse al termine si ritrovò davanti la mensa del Quattrocentoventisette.
La visione raccapricciante di quella distesa interminabile di mattonelle bianche inizialmente la stordì.
Erano quasi le 13:00. Ancora qualche minuto e le sue due più grandi fobie si sarebbero manifestate insieme come non succedeva da otto mesi a quella parte.
Agorafobia e Demofobia insieme, spazi aperti e tanta gente pronta ad assistere a un suo attacco di panico forte quanto un uragano.
Fece un respiro profondo. 
Quand’era con persone che conosceva o di cui non le interessava il parere non aveva alcun problema a mostrarsi sfrontata, ma quei ragazzi... la maschera si stava crepando, velocemente, tutto quello che aveva fatto fino a quel momento nella sua vita perse ogni senso, non c’era più niente a separarla dal futuro da cui scappava da sempre, era lì, lo stava vivendo, lo sentiva in ogni fibra del suo corpo, era rotta, vulnerabile...
Non c’era più niente da controllare, e questo la irritava da morire.


Dovette rimanere ferma vicino allo stipite della porta, guardando nel vuoto della distanza per cercare di calmarsi, doveva regolare il respiro.
Uno due tre, uno due tre, uno due tre, respira.
Prima di tutto, respinse il desiderio di tornare sui suoi passi, sarebbe stato umiliante far sapere ai suoi genitori che era troppo debole per riuscire a vincere una distesa di mattonelle bianche, un passo alla volta, un piede dopo l’altro.
Faceva terapia di esposizione ancora prima di entrare in classe.
Iniziò a camminare, e prima di riuscire a pensarlo finì per correre verso le scale, infischiandosene dei bagagli che le rimbalzavano contro le scapole facendole male.
Quell’interminabile sala era arricchita da un’innumerevole sfilza di tavoli di legno circolari, perfettamente allineati uno dopo l’altro. Cercò di non guardarli continuando a correre fino a quando non si infilò nella nicchia che mostrava le scale, altrettanto bianche, con un corrimano di legno al lato destro.
Era impressionata dall’ordine, dalla disciplina dell’aspetto di quel luogo, lei doveva riuscire a scappare da se stessa e stava pensando all’arredamento, si DIEDE della stupida senza rendersi conto che almeno, per un momento si era distratta.
Sei piani a piedi pensò e poi si sarebbe potuta chiudere in camera.
La sua era la camera 185, era scritto sulla tessera.
Ripetersi quel numero la aiutò a non pensare che di lì a due minuti tutti e trecentonovanta, gli studenti fobici di quell’istituto, si sarebbero riversati sulle scale calpestandola.
Rimpianse casa sua e i suoi genitori; chi l’avrebbe mai detto che un luogo chiuso per quanto spazioso potesse essere così impervio, era stata mesi a pensare di non voler uscire più di casa, proprio mai più e in quel momento... no, non sarebbe voluta stare ne al chiuso ne all’aperto...
Si appoggiò al corrimano di legno appena riuscì a superare il secondo piano illesa per darsi maggiore sostegno.
Paura immotivata si ripeteva. 
Ma paura immotivata un corno.
Il sesto piano le sorrideva, il numero dorato a caratteri cubitali le sorrideva sghembo da un lato. Kell fece appena in tempo a lanciare un’occhiata alla cabina della sorvegliante notturna poi sentì la campanella suonare.
Perse il controllo insieme alla presa della sua borsa, la lasciò cadere, i libri finirono a terra, le ginocchia sorrette dalle sue gambe non riuscirono a farla rimanere in piedi.
Un chiacchiericcio indistinto prese a vagare per i corridoi.
Cadde in ginocchio, desiderava strapparsi il ciondolo con il porta pillole dal collo, stava per mollare e non era neanche arrivata in camera sua, tutte quelle voci, tutte quelle persone...
Non seppe mai dove trovò la forza di rialzarsi, raccolse i libri, e sgusciò nel corridoio correndo verso la camera 185.
Forse era stata la paura a salvarla, inutile dire che respinse quel pensiero facendo finta di nulla. Le porte erano tutte quante azzurre, azzurre come la porta di camera sua, quand’era ancora a casa.
Infilò la chiave con la mano tremante dentro la serratura argentata e la girò un paio di volte, entrò dentro e si chiuse la porta alle spalle.
Aveva dieci minuti per riprendersi e scendere di sotto per pranzo; era tentata, voleva prendere un calmante, ma di nuovo si costrinse a reprimere quell’impulso da codarda. 
Ce l’avrebbe potuta fare, un sacco di ragazzi con i suoi stessi problemi anche più piccoli di lei erano riusciti a stare senza calmanti e antidepressivi per mesi, perché lei no?
Kell cercò di distrarsi per qualche momento, concentrandosi per qualche secondo solo sulla stanza.
Era piccola, cupa, buia, esattamente come l’aveva immaginata, non a caso erano appena le 13:00 e dalla finestra con le sbarre non passava abbastanza luce. 
Decisa, accese la luce dall’interruttore principale ignorando  le inutili lampade da salotto poste vicino al letto e alla scrivania.
Il pavimento era costellato di pietra bianca proprio come tutto l’edificio, i muri erano altrettanto bianchi, color panna montata. 
Il letto come aveva detto il dirigente era morbido e da una piazza e mezza, ci si sedette sopra disfacendo ansiosa il bagaglio; mise tutto in ordine nell’armadio di legno, prima di andarsene andò a dare un’occhiata al bagno, un cubicolo minuscolo, ma, stranamente funzionale.
Lasciò la cartella sulla scrivania già familiarmente legnosa e uscì fuori dalla stanza con una sensazione di sporco addosso, come se le si fosse attaccato qualcosa di appiccicoso e non si volesse proprio staccare; appiccicoso come la nuova realtà ad esempio, appiccicoso come il presentimento che aveva paura e in un certo qual modo quello che aveva sotto gli occhi non le dispiaceva del tutto.
La tessera dentro la tasca sinistra dei pantaloni, lo sguardo fermo, solamente cento scalini di pietra bianca a dividerla tra il tutto e il niente. 
Scese le scale aggrappata al corrimano di legno con una mano e al suo porta pillole con l’altra.
Aveva fatto sei piani di scale correndo per sfuggire a una sala piena di gente e ora? Ora stava tornando volontariamente, ironico a dirsi.
L’ultima rampa di scale fu la peggiore. Sentiva il chiacchiericcio nient’affatto trattenuto, ne tantomeno timido degli studenti dell’istituto Quattrocentoventisette, si fermò sull’ultimo gradino indugiando volontariamente sullo spazio aperto direttamente nella sala.
Le prese un colpo quando una ragazza con un andamento saltellane la superò dandole le spalle. Con che coraggio saltellava verso un tavolo a quel modo? 
Kell indietreggiò sul penultimo scalino. Non ci riesco.
Trattenne il respiro e poi ispirò ed espirò un paio di volte per calmarsi, tutti i suoi tentativi di darsi una regolata furono resi vani dall’entrata in scena di una cameriera tutta defilata con tanto di grembiule: «Tu sei la ragazza nuova?»
«Si.» Rispose Kell abbassando lo sguardo intimorito sulle sue scarpe di pelle nuove. «Bene, vieni con me, non aver paura.»
La prese per un braccio e fino a quando non entrarono nella sala non la lasciò: «Ti troviamo un posto libero immediatamente.»
La sala era gremita di ragazzi, se non fosse stato per il soffitto relativamente alto sarebbe svenuta al quinto passo, era spaventoso a livelli cronici e a Kell mancava il respiro.
«Sei del 4°C giusto?» Annuì alla cameriera senza alzare lo sguardo verso di lei. «Preferisci stare con qualcuno della tua classe?» Ci pensò su un momento... non l’avrebbe mai retta, aveva bisogno di riposare prima: «No, preferirei di no.»
«Okay.» Prima che se ne accorgesse si ritrovò davanti a uno dei legnosi tavoli rotondi.
Si sedette alla svelta non appena si accorse di essere arrivata a destinazione, sperava tanto che almeno non le rivolgessero la parola.
Sembravano persone perfettamente normali, Kell era molto irritata e cominciò a sentirsi come una vecchietta nel mezzo di un branco di giovani, quando invece avrebbe dovuto trovarsi in tutt’altro posto...


Lei era in una 4°, se fossero stati tutti in via di guarigione tranne lei che cosa si sarebbe inventata? L’avrebbero fatta retrocedere di una classe? Kell ispirò lentamente, gli altri erano lì da anni, quanto sarebbe stata indietro rispetto a loro? Si zittì mentalmente, tanto l’avrebbe scoperto molto presto.
Fece le scale lentamente, lasciandosi superare, arrivò in camera sua più calma ma soprappensiero. La prima volta che era passata non ci aveva fatto caso, notò che c’erano due finestre di vetro che dividevano l’ala femminile da quella maschile, sia a destra che a sinistra, come se fossero altre due camere aggiunte pronte a portare nel vuoto.
Se non ci fossero state le sbarre si arrischiò a pensare Kell.


Prese la borsa con i libri con se, si avviò con cinque minuti di ritardo alla lezione di terapia di esposizione.
Non c’era un attimo di tempo per prendere fiato in santa pace che i dieci minuti per raggiungere l’aula erano già finiti.
Diede una sbirciata all’orario con le classi e si ritrovò davanti all’aula giusta, la H2.
La porta era chiusa, perfetto, odiava aprire le porte, l’aveva sempre odiato, a scuola la gente si gira a guardarti, ti scruta, ti giudica e tu non riesci a zittirli.
Abbassò la maniglia della porta scocciata e si ritrovò dentro.
La stanza era grande, c’era un’immensa vetrata che lasciava la vista aperta sulla città, era enorme, probabilmente era antiproiettile e antigraffio, strano che non fosse sbarrata.
Non se ne accorse per quant’era distratta, ma uno strano individuo le stava venendo incontro.
«Sei Kellan Hall?» Kell annuì di nuovo con i piedi per terra.
«Vieni.» Non la toccò e questo le fece pensare che fosse una professoressa; quando la indirizzò dentro un cerchio fatto di sedie già occupate si rese conto che quella era la psicologa.
Si sedette e le fece cenno di mettersi di fianco a lei, all’unico posto ancora libero: «Questa è Kellan Hall, una vostra nuova compagna.» Kell si sforzò di alzare lo sguardo dalle sue ginocchia piegate, diede un rapido sguardo davanti a se e poi tornò al punto di partenza.
«Lasciamole un po’ di tempo per ambientarsi.»
Un coro di assenso piuttosto teso autorizzò la psicologa a cominciare a spiegarsi: «Io sono la professoressa Strins, faccio per la H2 psicologia e terapia di esposizione, in queste ore tutti e venti siete sotto la mia tutela.»
La professoressa sorrise da dietro i sottili occhiali neri, Kell non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, aveva il viso un tantino troppo scavato per essere bella e portava un’assurda bombetta sulla testa, sembrava calva, forse portava solo i capelli troppo corti, complice anche il fatto che fosse una professoressa: la cosa fece mettere Kell sulla difensiva.
Era così tragicamente eccentrica che Kell temette che stesse per saltare sulla sedia e mettersi a cantare.
«Sei in questo gruppo perché hai delle fobie in comune con loro...» Fece una pausa come se si fosse ricordata di qualcosa: «Loro non sono tutti della 4°C, solo alcuni, gli altri sono delle altre 4°, capisci?» Kell annuì assentendo con un movimento abbastanza brusco della testa.
«Loro naturalmente usufruiscono anche di altre terapie ancora più specifiche anche con altri psicologi, ma per adesso ho bisogno di conoscerti meglio quindi per te non sarà da subito lo stesso.»
Buona parte dei ragazzi che erano in cerchio si rilassarono sul posto, era chiaro a tutti, anche a Kell, che quella seduta sarebbe stata incentrata su di lei.
Era necessario che non si mettesse in imbarazzo davanti a tutti quei ragazzi, e assolutamente indispensabile che mantenesse la calma e un certo contegno.
«Kellan, elencaci le tue fobie, così cominciamo a conoscerci.»
Kell ripassò mentalmente l’ordine in cui erano state messe sulla sua tessera e cominciò a dire la prima sollevando lentamente la testa ancora china: «Agorafobia.»
«E’ quella più forte.» Disse la professoressa rivolta ai ragazzi: «Abbiamo un sacco di agorafobici qui, quasi tutti in questa classe. Dopo andiamo sotto a fare un giro nel parco.» La cosa non aiutò a tranquillizzarla ma proseguì: «Demofobia.»
«Va a braccetto con l’agorafobia.» Disse la Strins sorridendo continuando a dire proprietà risapute sulla demofobia, smise di ascoltarla e alzò finalmente lo sguardo da terra.
Non l’avesse mai fatto. La invase una fortissima sensazione di vertigine attanagliante e incontrollabile, sapeva anche perché  e non poté nasconderselo. 
Il ragazzo che stava seduto affianco alla professoressa.
Sconvolgente, uno sconvolgente deja-vu arrivò troncarle la respirazione, stava chino su se’ stesso, un po’ ripiegato, come a volersi nascondere, proprio come lui
Quello che sentiva era facilmente accostabile a una botta in testa, forte, come se un martello pneumatico le avesse perforato il cranio, aveva il cuore in gola, che scalciava per gettarsi fuori dal suo petto, non riusciva a capacitarsene, non riusciva a credere che stesse succedendo davvero.
Si trattenne per un secondo dallo spalancare la bocca e indicarlo  in preda all’ansia come una bambina.
Il ragazzo che stava guardando non aveva le sembianze di una persona qualsiasi, lui era tutti i particolari di quella persona. Aveva un occhio di vetro, attraversato da parte a parte da una profonda cicatrice bianca che andava dal sopracciglio sinistro alla guancia, fino ad accarezzargli il mento passando pericolosamente vicino alla bocca, arrivava fino al collo, in quel punto sembrava più leggera, poi tornava calcata e spariva sotto la maglietta. Agghiacciante, ma non quanto la prima volta che l’aveva visto in quelle condizioni, quando la cicatrice sembrava combattere contro di lui, ora sembrava che stesse bene.
Invece, l’occhio vivo, era grigio e stranamente meno luminoso di quello artificiale. Creava un contrasto estremamente strano con i capelli neri, corvini, un tantino arricciati, disordinati, un sacco di sfumature di colore, scure, vivide e pallide in un solo viso.
Aveva creduto per qualche momento che non potesse essere proprio lui, ma quanti altri con il lato sinistro della faccia  ridotto in quella situazione aveva visto prima? No, ne era certa. 
L’aveva già visto, Kell lo ammise a se stessa, fortunatamente lui non poteva ricordarsi di lei, era passato troppo tempo. Fece un rapido calcolo mentale e si rese conto che erano passati praticamente dieci anni. 
Scostò un momento lo sguardo per dire: «Acluofobia.» La sua odiata paura del buio e poi tornò a guardare il ragazzo, che aveva abbassato un momento lo sguardo. Non poté fare a meno di notare che la cicatrice proseguiva anche sopra la palpebra delineando una linea continua che lasciva intuire senza cerimonie cosa gli fosse successo: era stato sfregiato.
Ma... l’occhio di vetro sembrava così vivo, prima non era così, seguiva l’altro a tempo, si alzava insieme agli zigomi, vagava in giro per la stanza come se ci vedesse, ma era morto, bianco, vetroso, quasi trasparente. Le immagini passate e quelle presenti le sfilavano davanti agli occhi una dopo l’altra, i ricordi, i pensieri, sembrava tutto incredibilmente vicino, lui era sempre stato così inspiegabile, lo era ancora.
Come aveva fatto, come faceva, ridotto ancora in quello stato, spezzato, divorato, ad essere così straziatamente bello? 
«Davvero sei acluofobica?» Kell annuì alla svelta, distogliendosi dai suoi pensieri e la Strins si voltò a guardare inaspettatamente il ragazzo con l’occhio di vetro tutta sorridente.
«Sentito Jesse?» Jesse Larey avrebbe poi appreso in seguito.
Ma, proprio Jesse si chiese? Il suo nome era davvero Jesse? Non se ne capacitava neanche, dargli un nome era qualcosa che non aveva mai potuto fare.
«Effettivamente Jesse attualmente è l’unico acluofobico in tutte le 4°, ci serviva qualcuno come te, un confronto diretto è la cosa migliore in assoluto per persone con il vostro problema.»
Lui la guardò indifferente studiandola un momento, forse ci lesse qualcosa, abbassò lo sguardo storcendo leggermente la bocca, non poteva in alcun modo ricordarsi di lei; stranamente la cosa la rincuorò, ma poi si sentì in colpa, non era una bella cosa essere fissati quando si ha... una cosa come quella che si vorrebbe poter nascondere.
«Sociofobia.» E a quel punto riuscì ad alzare la testa del tutto, quella fobia era il suo cruccio più grande: «Ma non me la sento tanto.» «Ah no?» Buona parte degli studenti alzarono le sopracciglia scettici; di certo il modo in cui si era presentata non lasciava intendere che fosse una persona molto spigliata.
«Buona parte, se non tutti i nostri studenti sono sociofobici, è una conseguenza abbastanza comune.»
Kell la ignorò: «Fobofobia.»
«Oh, interessante, hai paura della paura stessa, molto saggio.»
«Grazie.» Disse Kell con un tono un po’ strozzato.
«Agyrofobia, e lo ammetto.»
Qualcuno rise, la professoressa Strins li guardò piuttosto male.
Paura delle strade, anche a Kell venne da ridere, com’era finita ad aver paura persino delle strade?
Kell ci pensò un attimo e poi disse: «Non gli avevo mai dato grande importanza.» 
La Strins sospirò come se fosse insoddisfatta di quello che aveva appena detto: «Ci sono persone, ad esempio gli Xantofobici che hanno paura della parola ‘giallo’ che dovrebbero dire loro?»
Kell evitò di commentare quello strano appunto.
Sperò con tutto il cuore di essere riuscita a non sembrare una debole, si sentiva sufficientemente spigliata, forse l’aveva data a bere anche agli altri.


La Strins convenne che fosse venuta l’ora di andare sotto a fare una “rilassante” passeggiata all’aria aperta.
Non appena suonò la campanella, Kell non riuscì a trattenersi dal rabbrividire per tutto il tragitto.
Camminare da sola non era esattamente divertente, ma in effetti in cuor suo sapeva che non sarebbe riuscita a reggere una conversazione in quel momento, specialmente dopo i recenti sviluppi, il suo cervello stava collassando dai troppi pensieri. 
La professoressa stava al suo fianco e non pareva per niente vogliosa di farla socializzare con qualcuno.
Per essere una psicologa allora doveva essere davvero molto accorta con i propri studenti; lanciò un’occhiata al suo viso candido e fermo, sovrastato dalla bombetta e convenne che probabilmente era una professionista un tantino anti-convenzionale.
La maggior parte dei suoi ex psicologi le dicevano che era necessario che si aprisse con il prossimo, lei non aveva neanche provato ad avvicinarla a qualcuno.
Quando furono fuori Kell le si fece più vicina, di solito sua madre se la stringeva su un fianco, invece quella era terapia di esposizione, doveva fare tutto da sola.
Stava fissando intensamente uno degli alberi lì davanti per tranquillizzarsi: «Kellan?» Si voltò bruscamente verso la Strins: «Si professoressa?» 
«Volevo solo dirti, che solitamente la terapia di esposizione viene fatta al chiuso per lunghi periodi all’inizio, poi si mette il paziente a confronto con la situazione temuta, lo sapevi?» «No.» Disse Kell: «Ma non mi pare di trovarci al chiuso...» «E’ questo il punto.» Fece la Strins finalmente soddisfatta: «Qui non farai terapia su carta, usiamo mettere subito in pratica la situazione che temete, quindi adesso rimani calma e cominci a camminare qui intorno.»
La sua spiegazione aveva distratto Kell ma la paura persisteva, non sapeva se sarebbe riuscita davvero a muoversi, a calpestare le foglie secche e l’erba del prato, a seguire gli altri...
«Non c’è un altro modo per stare meglio, superarlo è possibile.»
Kell cominciò a camminare, non poté fare a meno di chiedersi se dicesse quella frasetta fatta a tutti i nuovi studenti, di sicuro era la prassi. 
Camminava lentamente di albero in albero con i respiro come sempre accelerato e il chiodo fisso in testa che se fosse successo qualcosa, qualsiasi cosa, non avrebbe saputo da che parte correre.
Voleva tornare a fare psicoterapia sdraiata su una comoda poltrona, in un salotto ben arredato, in completa tranquillità, lontana da tutti i pericoli del mondo.
Sentì che qualcuno le si stava avvicinando da dietro, impallidì sconcertata: «Dimenticavo...» Fece la Strins, Kell si appoggiò a un albero vicino per non perdere l’equilibrio. «Tu ricordi di un trauma che ti ha portata a questo?»
Domanda di rito, strano che non gliel’avesse posta prima: «Sì.» 
Il ragazzo con l’occhio di vetro si era seduto a terra con altri ragazzi, in cerchio, li stavano raggiungendo tutti.
«Ti va di riassumerlo in poche parole?»
Non le andava proprio no, che storia era? Non consegnavano un fascicolo plastificato con la loro storia personale a tutti i professori? Digrignò i denti, Kell affondò le unghia nella corteccia dell’albero, forse senza neanche scalfirla, sarebbe dovuta andare a sedersi con gli altri non voleva parlare con lei, ma parlò lo stesso, raccontava quella storia quasi automaticamente, la storia che l’aveva resa quello che era.
«Quando avevo sei anni e mezzo, ero al parco con mia madre, credo che...» Si incespicò: «Lei si è distratta e delle persone...» Scosse la testa una e più volte, la Strins era ferma impassibile a guardarla un po’ meno famelica di prima: «D’accordo, basta così, credo di aver afferrato.»
Beh, era una psicologa, se non avesse afferrato Kell avrebbe voluto, oppure dovuto picchiarla. 
Per quello aveva paura di uscire di casa e dei luoghi affollati, la causa si spiegava da se orribilmente comprensibile.
Ricordare quei momenti, quegli attimi, quell’angoscia, quella paura, era stata costretta a riportare alla luce tutto quello che era accaduto a intervalli regolari, come per controllare se avesse dimenticato e ricordato qualcosa.
Ma Kell ricordava tutto, ogni cosa e sapeva che non sarebbe stata in grado di dimenticarlo, mai.
I posti erano gli stessi di prima, la professoressa attaccò a farli parlare delle loro sensazioni, uno alla volta, come agli alcolisti anonimi nei film.
Una ragazza con una voce monotona e triste stava parlando della difficoltà che aveva di muovere le gambe nelle sensazioni di panico. 
Si sentiva gli occhi dei suoi compagni addosso, forse si aspettavano che avrebbe dato di matto dopo neanche un paio di minuti; le dispiaceva davvero deluderli...
Kell si concentrò sulle foglie secche, ne prese una in mano, sorrise, c’era una coccinella sopra, per evitare di infastidire il ragazzo con l’occhio di vetro con i suoi sguardi corrucciati era intenzionata e fissare la coccinella per il resto della seduta.
Quella cicatrice e quell’occhio bianco... forse doveva solo farci l’abitudine, ma in realtà era proprio come una volta, attirava talmente tanto l’attenzione che...
«Oh mio Dio!» Urlò la ragazza che era affianco a lei saltando in piedi come se le avessero appena tirato uno schiaffo.
«Che succede Bernadette?» 
Bernadette, lunghi capelli castani fino alle costole, corse dentro l’istituto agitando le braccia come una forsennata. La professoressa la inseguì lasciandosi una scia di foglie secche e svolazzanti alle spalle.
«Bernadette è insectofobica.» Esordì la ragazza che era al suo fianco: «Le coccinelle sono insetti, fai due più due...»
Per qualche momento il cerchio di ragazzi si limitò a rimanere zitto e ad attendere l’arrivo della prof, poi una ragazza esordì piccata un tantino troppo sottovoce: «Finisce sempre così, non sa proprio contenersi...» «Oh.» Fece un ragazzo con l’aria da sbruffone stampata in faccia: «Perché tu credi di essere messa meglio?»
Kell abbassò lo sguardo sulla coccinella, la lasciò scivolare dalla foglia in mezzo ai fili d’erba del prato, aveva quasi paura che qualcuno si alzasse in piedi e la calpestasse.
«Se la Strins non si muove a tornare io vado a cercarla.» Disse la ragazza che stava accanto a Bernadette: «E’ migliorata tantissimo...» Disse ancora, questa volta rivolta a Kell stessa: «Prima non riusciva neanche a stare seduta sul prato.»
Se fosse riuscita a parlare avrebbe detto che prima di arrivare lì si sarebbe aspettata di ritrovarsi in una gabbia di matti, invece, sembravano perlopiù quello che erano, ragazzi con fobie.
Quando la Strins e Bernadette tornarono Kell fu costretta, come richiedeva il suo turno, a dire come si sentiva in quel posto, in quel momento. Fece un respiro profondo e si limitò a dire che era desiderosa di scappare.
Altri ragazzi si limitarono a non dire niente passando il turno. Stessa cosa fece il ragazzo con l’occhio di vetro, quelli a detta di Bernadette erano tutti un branco di glossofobici fifoni.
Avere paura di parlare in pubblico non era una stranezza, ce l’avevano un sacco di persone senza saperlo, Kell stava pensando appunto a questo quando si accorse di tenere una foglia secca ancora in mano, nonostante fossero appena tornati dentro l’aula H2, se la mise in tasca e ascoltò i saluti e le raccomandazioni della Strins.
Stava per varcare la porta per uscire, un pensiero vago attraversò la sua mente naturalmente per ultima, ma venne trattenuta dal richiamo della professoressa.
«Senti Kellan, qui al Quattrocentoventisette...» Che poi, perché quell’istituto si chiamasse Quattrocentoventisette, per lei era ancora un mistero. «Ci sono ragazzi che hanno subito traumi molto radicanti e profondi, quindi per cortesia, te ne prego, non sottovalutare superficialmente neanche la più insignificante delle fobie, nessuno è superiore a qualcuno perché ha l’agorafobia invece dell’insectofobia, ci sono sempre delle storie dietro, storie che voi ragazzi non potete capire se siete armati di pregiudizi. Ti è chiaro questo?»
Kell annuì, la bombetta della Strins le ricadde leggermente sulla fronte: «Questo è un istituto privato...» Continuò lei sospirando: «Se siete qui significa che siete messi male psicologicamente e caratterialmente, suppongo tu abbia notato che non sembrano messi così male...» Kell annuì, chissà dove andava a parare la professoressa con quel tono contrito: «Non voglio spaventarti...» Addirittura spaventarla? 
«Ma ti voglio assicurare Kellan, alcuni dei tuoi compagni sono segnati a vita.» Alcuni, segnati letteralmente: «Quello che hanno subito mai verrà cancellato dalle loro menti, neanche con l’ipnosi o altre tecniche sperimentali, non sono fatti che possiamo estirpare, noi ci occupiamo di aiutarvi a superare il lato fisico e attutire quello mentale, tutto qui.»
Kell non sapeva cosa dirle, per un attimo le sembrò che volesse... giustificarsi.
Riusciva solo a pensare di aver compreso un lato della faccenda a di cui non aveva tenuto conto.
«Sta dicendo che sono tutti gravi quanto me, anche se non lo danno a vedere?»
La Strins annuì aprendo la porta della H2: «Tu sei stata rapita giusto?» 
E a quel punto toccò a Kell annuire.
«Beh.» Fece la professoressa sorridendo appena: «Neanche tu lo dai a vedere.»


Si pentì immediatamente di essere uscita fuori dalla porta, una ragazza e una professoressa stavano parlando, o meglio, gridando, nel mezzo del corridoio.
Dopo quello che le aveva detto la Strins non si sarebbe fatta cogliere così facilmente alla sprovvista dagli abitanti dell’istituto Quattrocentoventisette.
Kell si appiattì contro la porta sperando che l’insenatura la nascondesse abbastanza da non permettere alle due litiganti di notarla.
Forse ce la poteva fare, doveva solo aspettare che smettessero di gridare e poi sgattaiolare via in camera sua.
«Cecely!» Gridò quella che doveva essere la professoressa: «Non puoi continuare così, quanto pensi che andrà avanti questa storia? Un altro anno ancora ed è finita, te ne dovrai andare anche se non sei guarita! Vuoi che io dica ai tuoi genitori che sei un caso disperato?! Dopo tutti i soldi che hanno speso per te!»
Kell rabbrividì e ascoltò la ragazza replicare con voce squillante: 
«Ma che diavolo dice? Ormai nessuno esce di qui prima del quinto anno! Sono fatti miei! Lei si limiti ad aiutarmi in terapia, non ho bisogno d’altro!» Era troppo sbrigativa, non aveva voglia di litigare, la ragazza di nome Cecely era desiderosa di andarsene almeno quanto lei.
Ma a quel punto era proprio curiosa di sapere di che stessero parlando quelle due; Kell si appiattì di più contro la porta.
«Non devi pensarci da sola! Ci siamo noi qui che dobbiamo sostenerti, lo sai. Solo che non puoi continuare a chiuderti nei tuoi limiti. Se una persona ha i problemi psicologici che hai tu, non dovrebbe per alcun motivo evitare con tutte le forze la compagnia femminile!»
«Non voglio avere delle amiche femmine!» Esclamò Cecely in un urlo ancora più acuto dei precedenti: «Non me ne faccio niente! Sono un branco di smorfiose che mi guardano dall’alto in basso perché sanno per cosa soffro! Non posso stare con loro!»
«Ma non sono tutte così!» Gridò la professoressa sconsolata: «Continuerai a chiuderti sempre più dentro te stessa se non smetterai di frequentare solamente quei due, devi cercare di superarti Cecely!»
Cecely sputò un mucchio di parole sulla professoressa, più arrabbiata che mai: «Che cosa ne sa lei! Quei due dice lei! Oh, oh professoressa si da il caso, che quei due siano i miei amici!»
La professoressa abbassò i toni, capì semplicemente che continuare a gridare addosso a una persona arrabbiata come Cecely non avrebbe portato a niente: «Lo so, e va benissimo se piacciono a te, non lo metto assolutamente in dubbio.»
«Grazie tante.»
Kell si fece forza, era praticamente finita, la professoressa aveva abbassato i toni, più o meno, era il momento giusto di sguisciare fuori dal suo nascondiglio.
Camminò dritta verso le scale, anche se era costretta a passare davanti a quelle due... senza arrischiarsi a guardare le litiganti. «Solo, dovresti cercare di trovare una ragazza che...» La professoressa smise di parlare tutto a un tratto.
«Hey! Hey tu!»
Kell ghiacciò all’istante.
Fece appena in tempo a fare un altro passo poi, a malincuore si ritrovò voltata verso di loro.
«Vieni qui.»
Cecely scuoteva già la testa come se avesse perfettamente compreso cosa la aspettava.
«Tu sei la ragazza nuova della 4°C giusto?»
«Si.» Rispose semplicemente Kell.
«Perfetto. Problema risolto signorina Marson.» Fece la professoressa Dorles con un tono ostentatamente solenne.
E lei che pensava che nessuno le avrebbe fatto pressione.
«Ti chiami?» «Kellan... Hall.» 
Lo sguardo di Cecely era talmente infuriato che probabilmente se la professoressa non le avesse liquidate con poche parole, si sarebbe ritrovata le mani di Cecely attorno al collo.
«Dici che non hai bisogno di nessuno, e va bene, hai ragione, ma lei è nuova, non conosce nessuno, quindi lei sicuramente ha bisogno di qualcuno.» Kell si ritrovò a inghiottire la saliva contrita, senza riuscire a dire niente, in realtà no, non aveva davvero bisogno di nessuno grazie mille lo stesso.
«Facciamo una scommessa. Se la prossima settimana a quest’ora deciderai di volerla lasciare non ti dirò niente, altrimenti, se volessi tenerla con te... beh! Tanto meglio per tutti. Siamo d’accordo Cecely? Accetti?»
La ragazza esitò: «Quindi lei giura che dopo non mi infastidirà più con questa storia?» La professoressa annuì. Non ci voleva un genio per capire che Cecely non aveva alcun dubbio su cosa avrebbe detto e fatto. 
Kell si incupì, a quanto pareva Cecely aveva intenzione di spiegarle le equazioni di secondo grado.
  
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