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Autore: Vitani    31/08/2008    3 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO SECONDO, SCENA TERZA
-
Divertimento di un Giglio Bianco

Si svegliò la mattina dopo senza ricordare come ci fosse arrivato su quel futon, solo con un mal di testa allucinante. Doveva essere passata da poco l’alba. Ah, accidenti! L’emicrania da sbronza l’avrebbe riconosciuta fra mille, e avrebbe pure dovuto averci fatto l’abitudine da un pezzo, dannazione! Invece no, no, no, sempre lì a soffrire come un dannato!

Per lui tirarsi a sedere fu come trascinare il peso di un carro armato a mani nude. Che razza di fetente era! Più si ripeteva di smettere e meno riusciva a mantenerlo quel proposito!

Emise un gigantesco sospiro, e ascoltò per un istante il canto primaverile degli uccelli appena svegli fuori dalla finestra. La camera era ancora in penombra, e dovette abituarsi prima di riuscire a vedere qualcosa.

…camera?

La camera di chi? Accidenti a lui, era la volta buona che da sbronzo era finito in qualche letto sconosciuto!

Sbatté le palpebre, lentamente, e si stropicciò gli occhi.

No… quella stanza la conosceva.

Conosceva il basso, la chitarra e le bambole e la mensola coi pupazzetti di Doraemon ordinati sopra. Conosceva anche il letto che aveva accanto e la persona che ci stava stesa sopra, apparentemente addormentata.

No, dormiva davvero, lo capiva dalla regolarità del suo respiro.

Si mosse, facendo piano per non rischiare di svegliarlo.

Manabu non s’era neppure svestito, ma s’era addormentato ancora con addosso gli abiti che aveva portato il giorno prima.

Ah, la sua testa era proprio distrutta, e peggio ancora gli sembrava che gli avessero buttato dell’acido nello stomaco. S’era sempre dimenticato di chiedere a Mana dove teneva le medicine, da bravo idiota quale era. Avrebbe mai smesso di maledirsi da solo?

Comunque si tirò su – non senza più d’uno sforzo, a dire il vero – e riuscì ad infilare la via giusta per il salotto e la cucina malgrado la luce ancora rarefatta che filtrava dalle finestre.

Non ebbe neppure il tempo di assaporare il piacevole silenzio che quelle quattro mura possedevano a quell’ora, perché quel silenzio venne bruscamente interrotto da quello che sembrava essere il russare assordante di un animale.

E quell’animale temeva proprio di sapere chi era.

A mano a mano che s’avvicinava, infatti, l’intensità del rumore aumentava in modo esponenziale ed inquietante. Con un rapido dietro-front s’armò del cuscino del suo futon e fu finalmente pronto ad affacciarsi dalla sponda del divano.

Quello che vide aveva davvero del disgustoso.

Takeshi s’era legato parte dei capelli in una specie di codino da cane da compagnia che lo faceva somigliare ad un barboncino col pelo più liscio del normale, e se ne stava stravaccato su quel povero divano in una maniera che dire oscena era poco. E russava.

Pregò per lui che si svegliasse prima di Mana, che se lo beccava in quel modo erano guai grossi per lui. Avrebbe potuto dire di aver finito di vivere. Gli schiantò senza complimenti in faccia il cuscino e quello non provò neppure ad aprire gli occhi, semplicemente grugnì e si rivoltò come un fusillo. Aveva il sonno di una roccia, non di un uomo.

Satoru rise sottovoce, poi il suo sguardo venne attratto da una cosa che stava nel tavolinetto accanto al divano: un bicchiere d’acqua, un medicinale e un bigliettino scritto inequivocabilmente dal cerebroleso dormiente Taka-chan che diceva “antisbronza! ^__^”.

Inutile, a quel cerebroleso lui avrebbe eretto un monumento.

Dopo aver preso l’analgesico, era tornato a buttarsi sul suo futon. Non si sarebbe riaddormentato, lo sapeva, e anche Mana si sarebbe svegliato di lì a poco. Ormai aveva imparato a conoscerlo, e sapeva che alla passeggiatina al mattino presto non rinunciava in nessun caso.

E per lui accompagnarlo era diventata la norma. Tanto nessuno dei due riusciva a dormire di notte.

Si sedette senza rumore sul letto e lo guardò, sembrava tranquillo. Non si era tolto dalle palpebre la matita nera che ci aveva messo il giorno prima, che gli era colata fin sotto gli occhi macchiando di nero anche il cuscino.

Gli venne da sorridere.

Aveva lo stesso sonno tranquillo di un bambino appena nato, stava voltato su un fianco ed immobile, come una tiepida statua vestita di stoffa.

Fu involontario, senza rendersene conto gli toccò appena una spalla.

Poi tolse la mano, per non disturbarlo, e se ne andò in bagno a sciacquarsi la faccia.

Era inutile, una volta sveglio di starsene buono proprio non se ne parlava.

Quando ritornò, lo trovò che s’era svegliato.

Stava seduto sulle coperte e lo guardava come se stesse cercando di ricordare chi fosse.

In quegli occhi neri c’era un pensiero, non avrebbe saputo dire quale, e i capelli d’ebano e sciolti gli cadevano dietro la schiena come un manto corvino venato dei riflessi d’argento della luce.

Provò l’istinto di dirgli qualcosa, qualunque cosa, perché quello sguardo era tanto intenso da provocargli un disagio che non avrebbe saputo esprimere.

Incredibilmente, venne preceduto.

Le labbra rosee del ragazzo che aveva di fronte s’aprirono ed egli sussurrò una domanda, con forse una nota di preoccupazione sincera.

« Come ti senti? »

Allora ricordò di stare soffrendo dei postumi di una sbornia.

Perché, santo cielo, per un istante se n’era bello che dimenticato.

« Meglio, Takeshi mi ha lasciato una medicina sul tavolo in salotto. »

Mana comunque pareva non ascoltarlo già più, e aveva buttato le sue lunghe gambe giù dalla sponda del letto con incredibile indolenza.

« Lui dorme ancora, scommetto? »

« Già… e lo farà per parecchio temo. »

« Poco male. »

S’era alzato sui piedi scalzi e aveva tirato fuori uno specchio da un cassetto, guardandocisi dentro con fare spudoratamente assonnato.

« Ah, accidenti! »

S’allargò un attimo le palpebre con le dita come se avesse voluto sondarsi le pupille.

« Ho dimenticato di struccarmi, guarda che disastro… »

Dov’era poi tutto quel disastro, Gackt Camui non poteva fare a meno di domandarselo.

« Comunque… mangiamo qualcosa, svegliamo il deficiente e lo riaccompagniamo a casa, va bene? »

Annuì, tanto era stato già ribadito che alla passeggiatina del mattino non si rinunciava mai manco da sbronzi o quasi.

Se ne andarono in cucina a consumare una colazione alquanto buttata lì a forza, tanto nessuno dei due aveva lo stomaco in vena di collaborazione estemporanee.

Svegliare l’altro a calci fu uno sfogo ben più gradito.

« Ahiahiahi! Ma si può sapere perché ce l’avete con me? »

« Perché ci fa male lo stomaco! »

« Ma fa male anche a me! »

Povero Taka-chan… era decisamente uno dei prossimi candidati alla santità, perché dopo quella battuta si alzò in piedi e andò a poggiare le mani sulle spalle di Manabu come se avesse voluto consolarlo per qualche motivo.

« Mana, Mana… avrei dovuto saperlo che questo sarebbe stato il prezzo da pagare per aver potuto passare la notte sul tuo sacro divano e per aver avuto il privilegio di svegliarmi rimirando la tua superba bellezza! »

Camui inarcò un sopracciglio, a metà tra il sorpreso lo schifato e il rassegnato. Ma ci faceva o c’era sul serio quello squilibrato?

Manabu poi s’era irrigidito come un baccalà essiccato e a occhio e croce aveva assunto pure lo stesso colorito non esattamente sano. Segno probabilmente che il suo sistema nervoso era sull’orlo del cedimento strutturale, per la centesima volta di quella giornata che sarebbe rimasta negli annali come il colmo della demenzialità umanamente raggiungibile.

« Sei… sei serio? »

Il povero chitarrista lo stava domandando a Takeshi che ancora non gli aveva mollato le spalle e sorrideva beato o beota – tanto per cambiare – mentre Mana lo guardava con un’espressione impagabilmente indecifrabile e a mezzo sconvolta e con gli occhi stranamente spalancati.

Il re della fetenza allora ghignò: ma lo fece in un modo talmente furbo e irraggiungibilmente maligno da farli spaventare per davvero tutti e due.

« No. »

E gli fece una linguaccia.

Ecco, ora sì che faceva bene a fuggire sul serio. Satoru s’allontanò di qualche passo in modo da lasciare il campo libero – anche perché a dirla tutta non aveva voglia di rischiare la vita – perché quella scena se la voleva godere per bene.

Sarebbe scoppiata l’apocalisse di lì a pochi istanti, ormai conosceva abbastanza bene Mana da saperlo e da sapere anche che era meglio premunirsi e trovare riparo nel primo luogo adatto allo scopo.

Tuttavia, e se ne stupì, vide che Manabu manteneva la calma. Un self-control invidiabile per un ragazzo tranquillo ma capace di sbottare come un vulcano attivo non appena qualcosa non corrispondeva alle sue aspettative.

Lo guardò incuriosito mentre s’avvicinava a un vaso di gigli sopra una cassettiera e toglieva i gigli. Poveri fiori.

Dopodichè il chitarrista si voltò con fittizia incuranza e malvagia eleganza e lanciò il vaso a schiantarsi a tutta birra in testa al malcapitato e temerario Takeshi.

« Non lo evitare. »

L’unico, tassativo ordine che gli diede.

Be’, andava detto che i capelli crespi del povero Taka-chan ammortizzarono bene il colpo.

« Ah, ma perché ogni volta che tu sei nei paraggi questa casa deve diventare il regno della stupidità? E dire che io sono una persona tanto tranquilla e seria! »

Ah, e così lui era quello serio… a Gackt scappò da ridere ma ebbe l’ottimo senso di trattenersi per non rischiare di fare la stessa fine di quello che da quel momento in poi avrebbe soprannominato “Mister Coraggio”.

« Ora usciamo. »

Manabu Satou era evidentemente rientrato nella fase dittatoriale.

« Ma come? » si lamentò Takeshi « Mi neghi anche la colazione? »

« Già, e scordati di venire a cena da me per i prossimi tre mesi. »

Uh, si andava sul pesante!

« Stronzo… »

Taka-chan lo sibilò quell’insulto, sottovoce ma non abbastanza per le orecchie bioniche di Mana, che captavano qualsiasi ingiuria rivolta al loro proprietario nel raggio di almeno cento metri.

« Che hai detto? »

« Niente. »

Quell’ormai famoso e riecheggiato insulto venne rimangiato da Mister Furbizia con la prontezza di riflessi di una faina a caccia e rimase a pendere nel nulla dell’aria come un piccolo invisibile fantasmino errante.

Per puro dovere di cronaca, i tre alla fine uscirono.

« Credo che Takeshi ti odierà per tutta la vita. »

Satoru Okabe in arte Gackt Camui stava ridendo come quel babbeo che probabilmente era.

« Tu dici? »

Manabu Satou detto Mana gli camminava svogliatamente accanto guardandolo mentre si sbudellava piegato in due per le risa sul marciapiede deserto.

Era ancora presto, circolavano quasi solo i mezzi pubblici, ma presto le strade si sarebbero animate di gente. Lavoratori, studenti, casalinghe che andavano a fare compere.

La città sarebbe tornata ad essere piena di vita come sempre.

In quel momento una giovane studentessa in divisa, evidentemente mattiniera, passò accanto a loro.

« C’è un liceo da queste parti? » domandò Gackt.

« A quanto pare sì », rispose Mana con noncuranza.

« Tu l’hai finito il liceo? »

« Ovvio, i miei mi spellavano se mollavo. E cosa anche più importante mi avrebbero tagliato i fondi per i prossimi cent’anni della mia esistenza. Anche se ammetto di averlo proposto una volta, ma ti assicuro che dopo non ho più ripetuto l’esperienza. La cosa positiva era che a scuola facevo quel che mi pareva. Mi annoiavo, principalmente. »

« Allora eravamo in due. »

« Mi sa che tutta la nazione la pensava come noi. »

Satoru rimase in silenzio.

« Anche se oddio… meglio la scuola di una casa di cura. »

Come sospettava, dopo quell’uscita si sentì gli occhi penetranti di Mana incollati addosso.

« Tu dici? »

Annuì.

« Dico, dico… »

Già, lo diceva per esperienza… provata sulla sua stessa pelle quando era ancora un bambino.

« Sei stato in una casa di cura? »

Evidentemente Manabu glielo aveva chiesto così, tanto per dire e certamente senza cattive intenzioni. Del resto non erano cose che accadevano tutti i giorni. Però… la risposta era sì. Quando aveva solo sette anni, quando dicevano che lui vedeva i demoni.

I suoi genitori non l’avevano mai amato.

E lui a quella domanda non rispose.

« Oggi si va a fare shopping. »

Mana lo sorprese con quelle sei parole poco dopo che avevano finito di pranzare.

« Va bene… »

Satoru aveva risposto così a quel solito amorevole ordine perentorio, mentre ancora stava giocherellando assorto con le bacchette con cui aveva mangiato. Tanto dire di no a Manabu Satou non avrebbe sortito alcun effetto e lo sapevano bene tutti ormai.

« Ah, ci sarà anche un mio amico, Kamijo Yuuji. È stato il roadie dei Malice Mizer finché abbiamo fatto le serate con Tetsu, insisteva a dire che vuole tanto conoscerti. »

« Certo, non c’è problema. »

Oddio in verità non era esattamente vero che non ci fosse problema, Gackt gli aveva detto una balla ma sperava che il chitarrista ci sarebbe passato sopra. A dirla tutta lui in quel momento si stava misurando con una certa piccola e alquanto inesprimibile paura di incontrare l’ennesimo amico di Mana.

Questo naturalmente perché non aveva idea di che esemplare si sarebbe trovato davanti stavolta.

Poteva davvero succedere di tutto, e la sua ambientazione in quella città multiforme e a tratti alienante che era Tokyo era consistita quasi esclusivamente nel girare come una trottola dietro a Mana, che coi suoi ritmi allucinanti aveva finito per contagiare pure lui. Ormai non c’era mattina che non lo accompagnasse a correre, non c’era giorno che non provavano assieme, non c’era sera che non passavano a parlare. Strano, per una persona timida come Manabu. Ma ne avevano di cose in comune, incredibilmente. Ne avevano tantissime.

La musica su tutte. E se anche avessero avuto solo quella, sarebbe stato lo stesso.

Per questo lui, poiché era con Mana, di quello strano mondo in cui s’era trovato non aveva paura. Degli amici di quel pazzo sì, non credeva di avere poi tutti i torti in fondo… ma tutto il resto dell’umanità non aveva più ragione di temerlo.

Ormai era cresciuto.

Non era più il bambino che parlava col demonio.

Eppure, ogni tanto, di notte i suoi genitori li sognava ancora.

« Satoru? »

La voce del chitarrista lo riscosse, e quando mosse la testa si trovò davanti un preoccupato sguardo d’ossidiana che in altre circostanze l’avrebbe intimorito.

« Sì? »

Fece quella piccola domanda a Mana con gli occhi sgranati, chiedendosi forse con un lieve affanno che cosa davvero quel ragazzo dagli occhi neri avesse capito di lui e delle circostanze che l’avevano portato lì a Tokyo. Lui non voleva che Manabu lo venisse a sapere, non in quel momento almeno.

« Tutto bene? »

Come al solito, sempre discreto e sempre temendo di dire una parola di troppo. Mana non s’impicciava degli affari altrui a meno che non lo riguardassero direttamente, e quel lato del suo carattere aveva imparato davvero ad apprezzarlo. Ogni tanto gli capitava anche di aver bisogno di riservatezza.

« Sì, tutto bene. »

« Abbiamo appuntamento con Yuuji davanti alla statua di Hachiko tra un’ora, quindi sbrigati a prepararti. »

Ah già, la statua di Hachiko. Quel cane che anche dopo la morte del padrone aveva continuato ad aspettarlo anni e anni e che era stato omaggiato con un monumento. Il quale era a sua volta diventato il luogo d’incontro più famoso di Shibuya.

« Ok. »

S’alzò in piedi un po’ svogliatamente, infilando la porta della camera di Mana quasi senza guardare e tirando fuori dal suo bagaglio un paio di jeans e una maglietta bianca senza troppe pretese. Figurarsi se gli andava di vestirsi, in quel momento.

Passò in bagno e si pettinò i lunghi capelli castani – che stavano crescendo a vista d’occhio – mettendoci un po’ di gel e poi lasciando la stanza libera per Manabu che invece era perfettamente in grado di trascorrerci ore.

Proprio lui gli aveva chiesto o si poteva dire quasi comandato di lasciarseli allungare, asserendo che per il loro stile e per quel che aveva in mente potevano starci. A quanto pareva aveva ordinato la stessa cosa a Kami e non per ultimo a se stesso, per quanto i suoi splendidi capelli già gli raggiungessero tranquillamente i fianchi stretti.

E tuttavia non s’era ancora degnato di rivelare a nessuno cos’era di preciso quella cosa che aveva in mente. Qualcosa di devastante o giù di lì, probabilmente.

« Io ho finito », disse quasi urlando in direzione della cucina, dove Mana aveva evidentemente finito di rassettare.

Come prevedeva, se lo trovò a schizzargli di fianco col suo passo soldatesco prima ancora di aver finito la frase, dritto sparato verso il bagno.

Allora sorrise: eh sì, ormai lo conosceva…

Mana uscì da quella stanza all’incirca una mezz’oretta più tardi, pulito e profumato come se appena uscito da un bagno termale. E probabilmente almeno la doccia se l’era fatta sul serio. S’era avvolto attorno alla vita un asciugamano e vagava per casa come un fantasma dalla pelle candida, a cercare chissà che nascosto fra le pieghe delle tende e i cuscini del divano.

Fu in quella tenuta che Gackt Camui se lo vide spuntare da dietro la porta della camera, e quasi se ne sconvolse.

Riuscì a mantenere un tono indifferente quel tanto che bastava per guardarlo fisso come un ebete senza ritenerla una discreta figura di merda. E senza neanche accorgersi che Mana intanto aveva preso a scrutarlo a sua volta come domandandosi che diamine avesse. Non aveva forse mai visto un uomo a torso nudo? E come faceva lui poi a spiegargli l’ovvia opzione che nella fretta aveva dimenticato di prendere l’asciugamano grande?

« Mi allunghi quei vestiti che ho lasciato sul letto? »

Bastò il tono leggero e quasi sarcastico di quella domanda a far ritornare Camui al reale, e quasi balbettando una scusa gli passò gli abiti che quello andò a infilarsi in bagno senza degnarlo più di uno sguardo.

Santo cielo… per un istante – e dovette ammetterlo – se l’era vista davvero brutta.

Quel ragazzo era di una bellezza che aveva dell’assurdo, e quel torace sottile e circondato dalle ciocche bagnate di capelli neri gli aveva ricordato la neve dell’inverno illuminata dalla luna, dai capezzoli simili a rose che in quel pallore erano fiorite ed incantevoli come rubini.

E si diede da solo dell’idiota e dell’emerito demente.

Da quando si lasciava andare a certe stupide considerazioni? Per non parlare di quell’imbarazzo inspiegabile che l’aveva colto, inspiegabile almeno quanto l’irriproducibile pensiero da poesia romantica vecchio stile che l’aveva appena seguito. Mica era la prima volta che vedeva un ragazzo nudo.

Già… non era la prima volta ma c’era andata molto vicino.

Lui era diverso, semplicemente diverso.

E quella singola parola continuò a girargli per la mente anche mentre andavano verso la statua del cane fedele Hachiko, mentre il chitarrista gli camminava accanto con quei suoi soliti occhiali da sole e una gonna lunga e nera addosso e di tanto in tanto pareva scrutarlo quasi nervoso come a voler capire cos’era che lo distraeva tanto.

Se avesse conosciuto l’identità di quel qualcosa, non dubitava che Mana si sarebbe posto qualche domandina in più.

Tuttavia, fortunatamente, non aveva ancora il potere di leggergli nella mente.

Non poteva capire che, in quel momento, la mente di Satoru Okabe era tutta per lui.

Per Manabu Satou.

Yuuji Kamijo era già lì, Gackt lo riconobbe senza neppure il bisogno che Mana glielo indicasse.

Mentre s’avvicinavano vide infatti davanti alla statua del cane Hachiko qualcosa che somigliava vagamente ad un ragazzo. Non più di quanto somigliasse ad un ragazzo la creatura che in quel momento aveva accanto e che camminava sopra un paio di zattere chilometriche in formato stivaletto. La cosa che colpì Satoru non fu tanto la tonnellata di boccoli lunghi e biondissimi di quel tizio o il fatto che evidentemente non si trattava di una parrucca… fu il fatto che nonostante l’abbigliamento palesemente signorile che fasciava un corpo piuttosto esile non del tutto dissimile – e ti pareva! – da quello di una ragazza, il tipo lì stava masticando chewing-gum con la grazia di un teppistello.

Poi si girò dalla loro parte, evidentemente accorgendosi di Mana, perché lo salutò alzando il braccio.

« Bonjour Honey! »

Manabu non lo degnò che di un cenno del capo e la sua testolina rimase leggermente inclinata da una parte come segno di apparente perplessità e di mille speranze infrante.

Gli occhi neri del ragazzo che aveva di fronte si posarono poi su di lui, Satoru, osservandolo con quel che pareva sommo divertimento.

« Io sono Yuuji Kamijo, molto piacere. »

« Io Satoru Okabe, piacere mio. »

Si strinsero la mano come due occidentali, e a Gackt – non seppe mai di preciso perché, poi – la schiettezza di Kamijo piacque subito. Anche se non sarebbero mai diventati amici stretti.

« Quando ti degnerai di guardarmi, Mana-chan? »

Il diciannovenne ex-roadie si stava ora palesemente rivolgendo agli occhiali da sole indossati da Mana, il quale ancora non l’aveva degnato di una singola parola.

Perfino Gackt pareva perplesso da quell’atteggiamento, ok che Mana era taciturno ma rimanere così sulla difensiva anche con un suo amico apparentemente stretto gli sembrava alquanto insolito persino per un riccio arrotolato come lui.

Kamijo comunque si dimostrò immediatamente per quel che era: un essere incapace di venire scalfito dalla subdola e in qualche caso inavvertibile ironia sagace di Mana.

Difatti scoppiò a ridere, forte.

« Sei sempre più divertente, caro il mio alienato! »

Non diede ancora peso all’ennesima mancata risposta del chitarrista e allora si girò ridacchiando verso Satoru, in uno scintillio di boccoli biondi che aveva del paranormale.

« Devi sapere che questa persona mi vuole così bene che non riesce ad esprimerlo e allora sta zitto direttamente. »

« Chiudi quella fogna, bimbetto. »

Eccolo, alla fine s’era svegliato a quanto sembrava. Kamijo non gli risparmiò un ghignetto sardonico che aveva dell’inquietante.

« La bella addormentata nel bosco si è degnata di scendere a colazione, finalmente! »

« Abbi rispetto per quelli più grandi di te, ragazzino. »

Ma quel ragazzino in particolare non pareva essere interessato a mettere un freno alla sua lingua, con grande sconforto di un Manabu che ne veniva perseguitato di continuo.

Fu così che Gackt, mosso da uno strano sentimento di comprensione mista a pietà, lo salvò in corner attirando l’attenzione del teppistello camuffato da pulzella.

« Mana mi ha detto che volevi conoscermi, come mai? »

Ancora un sorrisetto non privo di malizia da parte di quel ragazzino un poco più basso di lui, che lo fissò con una certa curiosità e senza timore nelle iridi scure.

« Be’, semplicemente volevo vedere il viso del vocalist che ha tanto sconvolto Mana-chan. Prima che tu ti trasferissi qui non ha fatto altro che parlarmi di te, e non nego che la cosa mi ha incuriosito e alquanto indispettito… sai, nel mio piccolo anche io sono un vocalist. O meglio, lo sarò appena avrò trovato i componenti per la band che voglio formare. »

Fece due passi in avanti prima di continuare, e Satoru s’accorse che portava scarponi zeppati più che simili a quelli di Mana.

« Non fraintendere… non voglio prendere il tuo posto. Ho scelto io di mia iniziativa di non lavorare con Mana, ho timore che stare sullo stesso palco assieme a lui mi ucciderebbe. »

« Perché ti ucciderebbe? »

Il ragazzo si limitò a sistemarsi uno dei boccoli, evitando di guardare negli occhi Camui.

« Semplicemente perché abbiamo idee differenti e andiamo per strade separate. Io e lui finiremmo per scontrarci se dovessimo lavorare assieme, perché come puoi vedere io non sono incline a dargli spago. Non riuscirebbe a essere il mio despota. »

Poi finalmente alzò lo sguardo e lanciò un bacio in direzione di Mana, che dal buio angolo del suo silenzio non s’era perso una battuta ed anzi era stato più di una volta lì lì per lanciare la sua borsa contro quel genio di oratoria che era quella specie di boccoluta donzella – quel pensiero pronunciato con un’ovvia dose di sarcasmo acido malcelato.

« Ma non ti preoccupare honey, tu sei e resti uno degli esseri umani che più adoro in assoluto. »

« E tu sei e resti uno dei maggiori bambocci dell’universo, marmocchio. »

« Ti voglio bene in un modo che non puoi neanche immaginare. »

« Non lo voglio immaginare! »

« Comunque… Okabe-san? »

Yuuji si voltò di nuovo verso Gackt con sempre quello scintillio di chiome bionde sotto il sole, e Gackt si trovò improvvisamente a sudare freddo. Oh be’, chiunque avrebbe sudato freddo vedendo come quella furia teneva testa a una personalità suo malgrado dirompente quale era Satou Manabu.

« Sì, Kamijo-san? »

« Non devi preoccuparti, oggi non sono qui con l’intenzione di esaminarti. Tutt’altro. »

« Ah no? »

« Mana non ti ha detto nulla? »

« Cos’avrebbe dovuto dirmi? »

Kamijo Yuuji allora si mosse, iniziò a camminare, poi si girò e li guardò e fece loro una smorfia.

« Che andiamo a fare shopping. »

Poi aggiunse, vedendo che Satoru non accennava a capire dove stesse il problema: « Abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti le borse! »

Quella sera, quando tornarono a casa, Satoru Okabe poteva dirsi veramente sfinito. Molto più che da un giorno intero di prove, molto più che da una settimana intera senza dormire, molto più che da un mese di guida ininterrotta a bordo della sua Ferrari che aveva lasciato parcheggiata sotto casa. Era stato terrificante.

Ora capiva come mai Mana era stato tanto reticente nel confessargli le vere motivazioni della loro uscita con quel tornado diciannovenne a boccoli. Andare in giro con quei due era qualcosa che andava vicino ad un’odissea da action movie.

Era stato trascinato in tutti e sottolineava tutti i centri commerciali della zona nessuno escluso e costretto ad aspettare ore intere mentre quelli si accapigliavano su che cappello stava meglio con che guanti e se era meglio comprare una giacchina ricamata col pizzo bianco o con quello nero o peggio se il tacco sarebbe andato di moda l’anno dopo. Una volta risolti tutti questi dilemmi esistenziali s’erano portati via abbastanza roba da aprirci un negozio e l’avevano rifilata tutta a lui.

E dire che non andavano neppure sempre in giro vestiti da donna… cosa dovessero farsene di tutta quella roba era un mistero per lui.

Così come era un mistero dove li avessero nascosti i soldi per comprare tutto quell’armamentario così squisitamente femmineo quanto apparentemente inutile.

Alla fine, tuttavia, s’era divertito e pure parecchio. Quel Kamijo era un’altra personalità interessante, anche se con Mana sembravano il giorno e la notte. Forse per quello stavano sempre a battibeccare, anche se si vedeva che c’era sotto qualcosa di simile a un’amicizia molto stretta.

E poi gli era piaciuta quell’aria di sfida con cui l’aveva salutato, prima di tornare al suo appartamento.

“Non voglio sentirti cantare ora,” gli aveva detto “voglio vedere quello che sai fare su un palco, e guai a te se fallisci. Non far pentire Mana di averti scelto.”

Aveva colto, dietro al suo tono, una nota di preoccupazione sincera nei riguardi del chitarrista.

Era evidente che per tutti loro, per tutti quei pochi esseri che potevano ritenersi suoi amici, quella persona contava molto più di quanto l’apparenza non tradisse.

“Sei preoccupato per Mana?” gli aveva domandato allora.

Yuuji Kamijo semplicemente gli aveva sorriso, sornione e simile a un gatto dal pelo biondo come l’oro.

“Affatto. È solo che prima voi Malice Mizer vi rimettete in sesto prima questo diciannovenne squattrinato ritroverà la sua fonte principale di introiti. Sono il vostro roadie, non ve lo scordate.”

E s’erano salutati, con quelle parole.

E con la promessa, da parte di Gackt, che la sfida sarebbe stata bene accolta e vinta.

- continua -


N.d.A. Capitolo dai trascorsi un po’ travagliati questo, al solito causa studio, causa caldo e causa lentezza mia… perdonatemi… spero che lo abbiate gradito!

Vitani

   
 
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