- Mad Tea Party -
ATTO SECONDO, SCENA TERZA
-
Divertimento di un Giglio Bianco
Si svegliò la mattina dopo senza ricordare come
ci fosse arrivato su quel futon, solo con un mal di testa allucinante. Doveva
essere passata da poco l’alba. Ah, accidenti! L’emicrania da sbronza l’avrebbe
riconosciuta fra mille, e avrebbe pure dovuto averci fatto l’abitudine da un
pezzo, dannazione! Invece no, no, no, sempre lì a soffrire come un dannato!
Per lui tirarsi a sedere fu come trascinare il
peso di un carro armato a mani nude. Che razza di fetente era! Più si ripeteva
di smettere e meno riusciva a mantenerlo quel proposito!
Emise un gigantesco sospiro, e ascoltò per un
istante il canto primaverile degli uccelli appena svegli fuori dalla finestra.
La camera era ancora in penombra, e dovette abituarsi prima di riuscire a
vedere qualcosa.
…camera?
La camera di chi? Accidenti a lui, era la volta
buona che da sbronzo era finito in qualche letto sconosciuto!
Sbatté le palpebre, lentamente, e si stropicciò
gli occhi.
No… quella stanza la conosceva.
Conosceva il basso, la chitarra e le bambole e
la mensola coi pupazzetti di Doraemon ordinati sopra. Conosceva anche il letto
che aveva accanto e la persona che ci stava stesa sopra, apparentemente
addormentata.
No, dormiva davvero, lo capiva dalla regolarità
del suo respiro.
Si mosse, facendo piano per non rischiare di
svegliarlo.
Manabu non s’era neppure svestito, ma s’era
addormentato ancora con addosso gli abiti che aveva portato il giorno prima.
Ah, la sua testa era proprio distrutta, e
peggio ancora gli sembrava che gli avessero buttato dell’acido nello stomaco.
S’era sempre dimenticato di chiedere a Mana dove teneva le medicine, da bravo
idiota quale era. Avrebbe mai smesso di maledirsi da solo?
Comunque si tirò su – non senza più d’uno
sforzo, a dire il vero – e riuscì ad infilare la via giusta per il salotto e la
cucina malgrado la luce ancora rarefatta che filtrava dalle finestre.
Non ebbe neppure il tempo di assaporare il
piacevole silenzio che quelle quattro mura possedevano a quell’ora, perché quel
silenzio venne bruscamente interrotto da quello che sembrava essere il russare
assordante di un animale.
E quell’animale temeva proprio di sapere chi
era.
A mano a mano che s’avvicinava, infatti,
l’intensità del rumore aumentava in modo esponenziale ed inquietante. Con un
rapido dietro-front s’armò del cuscino del suo futon e fu finalmente pronto ad
affacciarsi dalla sponda del divano.
Quello che vide aveva davvero del disgustoso.
Takeshi s’era legato parte dei capelli in una
specie di codino da cane da compagnia che lo faceva somigliare ad un barboncino
col pelo più liscio del normale, e se ne stava stravaccato su quel povero
divano in una maniera che dire oscena era poco. E russava.
Pregò per lui che si svegliasse prima di Mana,
che se lo beccava in quel modo erano guai grossi per lui. Avrebbe potuto dire
di aver finito di vivere. Gli schiantò senza complimenti in faccia il cuscino e
quello non provò neppure ad aprire gli occhi, semplicemente grugnì e si rivoltò
come un fusillo. Aveva il sonno di una roccia, non di un uomo.
Satoru rise sottovoce, poi il suo sguardo venne
attratto da una cosa che stava nel tavolinetto accanto al divano: un bicchiere
d’acqua, un medicinale e un bigliettino scritto inequivocabilmente dal
cerebroleso dormiente Taka-chan che diceva “antisbronza! ^__^”.
Inutile, a quel cerebroleso lui avrebbe eretto
un monumento.
Dopo aver preso l’analgesico, era tornato a
buttarsi sul suo futon. Non si sarebbe riaddormentato, lo sapeva, e anche Mana
si sarebbe svegliato di lì a poco. Ormai aveva imparato a conoscerlo, e sapeva
che alla passeggiatina al mattino presto non rinunciava in nessun caso.
E per lui accompagnarlo era diventata la norma.
Tanto nessuno dei due riusciva a dormire di notte.
Si sedette senza rumore sul letto e lo guardò,
sembrava tranquillo. Non si era tolto dalle palpebre la matita nera che ci
aveva messo il giorno prima, che gli era colata fin sotto gli occhi macchiando
di nero anche il cuscino.
Gli venne da sorridere.
Aveva lo stesso sonno tranquillo di un bambino
appena nato, stava voltato su un fianco ed immobile, come una tiepida statua
vestita di stoffa.
Fu involontario, senza rendersene conto gli
toccò appena una spalla.
Poi tolse la mano, per non disturbarlo, e se ne
andò in bagno a sciacquarsi la faccia.
Era inutile, una volta sveglio di starsene
buono proprio non se ne parlava.
Quando ritornò, lo trovò che s’era svegliato.
Stava seduto sulle coperte e lo guardava come
se stesse cercando di ricordare chi fosse.
In quegli occhi neri c’era un pensiero, non
avrebbe saputo dire quale, e i capelli d’ebano e sciolti gli cadevano dietro la
schiena come un manto corvino venato dei riflessi d’argento della luce.
Provò l’istinto di dirgli qualcosa, qualunque
cosa, perché quello sguardo era tanto intenso da provocargli un disagio che non
avrebbe saputo esprimere.
Incredibilmente, venne preceduto.
Le labbra rosee del ragazzo che aveva di fronte
s’aprirono ed egli sussurrò una domanda, con forse una nota di preoccupazione
sincera.
« Come ti senti? »
Allora
ricordò di stare soffrendo dei
postumi di una sbornia.
Perché, santo cielo, per un istante se n’era
bello che dimenticato.
« Meglio, Takeshi mi ha lasciato una medicina
sul tavolo in salotto. »
Mana comunque pareva non ascoltarlo già più, e
aveva buttato le sue lunghe gambe giù dalla sponda del letto con incredibile
indolenza.
« Lui dorme ancora, scommetto? »
« Già… e lo farà per parecchio temo. »
« Poco male. »
S’era alzato sui piedi scalzi e aveva tirato
fuori uno specchio da un cassetto, guardandocisi dentro con fare spudoratamente
assonnato.
« Ah, accidenti! »
S’allargò un attimo le palpebre con le dita
come se avesse voluto sondarsi le pupille.
« Ho dimenticato di struccarmi, guarda che
disastro… »
Dov’era poi tutto quel disastro, Gackt Camui
non poteva fare a meno di domandarselo.
« Comunque… mangiamo qualcosa, svegliamo il
deficiente e lo riaccompagniamo a casa, va bene? »
Annuì, tanto era stato già ribadito che alla
passeggiatina del mattino non si rinunciava mai manco da sbronzi o quasi.
Se ne andarono in cucina a consumare una
colazione alquanto buttata lì a forza, tanto nessuno dei due aveva lo stomaco
in vena di collaborazione estemporanee.
Svegliare l’altro a calci fu uno sfogo ben più
gradito.
« Ahiahiahi! Ma si può sapere perché ce l’avete
con me? »
« Perché ci fa male lo stomaco! »
« Ma fa male anche a me! »
Povero Taka-chan… era decisamente uno dei prossimi
candidati alla santità, perché dopo quella battuta si alzò in piedi e andò a
poggiare le mani sulle spalle di Manabu come se avesse voluto consolarlo per
qualche motivo.
« Mana, Mana… avrei dovuto saperlo che questo
sarebbe stato il prezzo da pagare per aver potuto passare la notte sul tuo
sacro divano e per aver avuto il privilegio di svegliarmi rimirando la tua
superba bellezza! »
Camui inarcò un sopracciglio, a metà tra il
sorpreso lo schifato e il rassegnato. Ma ci faceva o c’era sul serio quello
squilibrato?
Manabu poi s’era irrigidito come un baccalà
essiccato e a occhio e croce aveva assunto pure lo stesso colorito non
esattamente sano. Segno probabilmente che il suo sistema nervoso era sull’orlo
del cedimento strutturale, per la centesima volta di quella giornata che
sarebbe rimasta negli annali come il colmo della demenzialità umanamente
raggiungibile.
« Sei… sei serio? »
Il povero chitarrista lo stava domandando a
Takeshi che ancora non gli aveva mollato le spalle e sorrideva beato o beota –
tanto per cambiare – mentre Mana lo guardava con un’espressione impagabilmente
indecifrabile e a mezzo sconvolta e con gli occhi stranamente spalancati.
Il re della fetenza allora ghignò: ma lo fece in un modo talmente furbo e irraggiungibilmente
maligno da farli spaventare per davvero tutti e due.
« No. »
E gli fece una linguaccia.
Ecco, ora sì che faceva bene a fuggire sul
serio. Satoru s’allontanò di qualche passo in modo da lasciare il campo libero
– anche perché a dirla tutta non aveva voglia di rischiare la vita – perché
quella scena se la voleva godere per bene.
Sarebbe scoppiata l’apocalisse di lì a pochi
istanti, ormai conosceva abbastanza bene Mana da saperlo e da sapere anche che
era meglio premunirsi e trovare riparo nel primo luogo adatto allo scopo.
Tuttavia, e se ne stupì, vide che Manabu
manteneva la calma. Un self-control invidiabile per un ragazzo tranquillo ma
capace di sbottare come un vulcano attivo non appena qualcosa non corrispondeva
alle sue aspettative.
Lo guardò incuriosito mentre s’avvicinava a un
vaso di gigli sopra una cassettiera e toglieva i gigli. Poveri fiori.
Dopodichè il chitarrista si voltò con fittizia
incuranza e malvagia eleganza e lanciò il vaso a schiantarsi a tutta birra in
testa al malcapitato e temerario Takeshi.
« Non lo
evitare. »
L’unico, tassativo ordine che gli diede.
Be’, andava detto che i capelli crespi del
povero Taka-chan ammortizzarono bene il colpo.
« Ah, ma perché ogni volta che tu sei nei
paraggi questa casa deve diventare il regno della stupidità? E dire che io sono
una persona tanto tranquilla e seria! »
Ah, e così lui era quello serio… a Gackt scappò
da ridere ma ebbe l’ottimo senso di trattenersi per non rischiare di fare la
stessa fine di quello che da quel momento in poi avrebbe soprannominato “Mister
Coraggio”.
« Ora usciamo. »
Manabu Satou era evidentemente rientrato nella
fase dittatoriale.
« Ma come? » si lamentò Takeshi « Mi neghi anche
la colazione? »
« Già, e scordati di venire a cena da me per i
prossimi tre mesi. »
Uh, si andava sul pesante!
« Stronzo… »
Taka-chan lo sibilò quell’insulto, sottovoce ma
non abbastanza per le orecchie bioniche di Mana, che captavano qualsiasi
ingiuria rivolta al loro proprietario nel raggio di almeno cento metri.
« Che hai detto? »
« Niente. »
Quell’ormai famoso e riecheggiato insulto venne
rimangiato da Mister Furbizia con la prontezza di riflessi di una faina a
caccia e rimase a pendere nel nulla dell’aria come un piccolo invisibile
fantasmino errante.
Per puro dovere di cronaca, i tre alla fine
uscirono.
« Credo che Takeshi ti odierà per tutta la
vita. »
Satoru Okabe in arte Gackt Camui stava ridendo
come quel babbeo che probabilmente era.
« Tu dici? »
Manabu Satou detto Mana gli camminava
svogliatamente accanto guardandolo mentre si sbudellava piegato in due per le
risa sul marciapiede deserto.
Era ancora presto, circolavano quasi solo i
mezzi pubblici, ma presto le strade si sarebbero animate di gente. Lavoratori,
studenti, casalinghe che andavano a fare compere.
La città sarebbe tornata ad essere piena di
vita come sempre.
In quel momento una giovane studentessa in
divisa, evidentemente mattiniera, passò accanto a loro.
« C’è un liceo da queste parti? » domandò
Gackt.
« A quanto pare sì », rispose Mana con
noncuranza.
« Tu l’hai finito il liceo? »
« Ovvio, i miei mi spellavano se mollavo. E
cosa anche più importante mi avrebbero tagliato i fondi per i prossimi
cent’anni della mia esistenza. Anche se ammetto di averlo proposto una volta,
ma ti assicuro che dopo non ho più ripetuto l’esperienza. La cosa positiva era
che a scuola facevo quel che mi pareva. Mi annoiavo, principalmente. »
« Allora eravamo in due. »
« Mi sa che tutta la nazione la pensava come
noi. »
Satoru rimase in silenzio.
« Anche se oddio… meglio la scuola di una casa
di cura. »
Come sospettava, dopo quell’uscita si sentì gli
occhi penetranti di Mana incollati addosso.
« Tu dici? »
Annuì.
« Dico, dico… »
Già, lo diceva per esperienza… provata sulla
sua stessa pelle quando era ancora un bambino.
« Sei stato in una casa di cura? »
Evidentemente Manabu glielo aveva chiesto così,
tanto per dire e certamente senza cattive intenzioni. Del resto non erano cose
che accadevano tutti i giorni. Però… la risposta era sì. Quando aveva solo
sette anni, quando dicevano che lui vedeva i demoni.
I suoi genitori non l’avevano mai amato.
E lui a quella domanda non rispose.
« Oggi si va a fare shopping. »
Mana lo sorprese con quelle sei parole poco
dopo che avevano finito di pranzare.
« Va bene… »
Satoru aveva risposto così a quel solito
amorevole ordine perentorio, mentre ancora stava giocherellando assorto con le
bacchette con cui aveva mangiato. Tanto dire di no a Manabu Satou non avrebbe
sortito alcun effetto e lo sapevano bene tutti ormai.
« Ah, ci sarà anche un mio amico, Kamijo Yuuji.
È stato il roadie dei Malice Mizer finché abbiamo fatto le serate con Tetsu,
insisteva a dire che vuole tanto conoscerti. »
« Certo, non c’è problema. »
Oddio in verità non era esattamente vero che
non ci fosse problema, Gackt gli aveva detto una balla ma sperava che il
chitarrista ci sarebbe passato sopra. A dirla tutta lui in quel momento si
stava misurando con una certa piccola e alquanto inesprimibile paura di incontrare l’ennesimo amico di
Mana.
Questo naturalmente perché non aveva idea di
che esemplare si sarebbe trovato davanti stavolta.
Poteva davvero succedere di tutto, e la sua
ambientazione in quella città multiforme e a tratti alienante che era Tokyo era
consistita quasi esclusivamente nel girare come una trottola dietro a Mana, che
coi suoi ritmi allucinanti aveva finito per contagiare pure lui. Ormai non
c’era mattina che non lo accompagnasse a correre, non c’era giorno che non
provavano assieme, non c’era sera che non passavano a parlare. Strano, per una
persona timida come Manabu. Ma ne avevano di cose in comune, incredibilmente.
Ne avevano tantissime.
La musica su tutte. E se anche avessero avuto
solo quella, sarebbe stato lo stesso.
Per questo lui, poiché era con Mana, di quello
strano mondo in cui s’era trovato non aveva paura. Degli amici di quel pazzo
sì, non credeva di avere poi tutti i torti in fondo… ma tutto il resto
dell’umanità non aveva più ragione di temerlo.
Ormai era cresciuto.
Non era più il bambino che parlava col demonio.
Eppure, ogni tanto, di notte i suoi genitori li
sognava ancora.
« Satoru? »
La voce del chitarrista lo riscosse, e quando
mosse la testa si trovò davanti un preoccupato sguardo d’ossidiana che in altre
circostanze l’avrebbe intimorito.
« Sì? »
Fece quella piccola domanda a Mana con gli
occhi sgranati, chiedendosi forse con un lieve affanno che cosa davvero quel
ragazzo dagli occhi neri avesse capito di lui e delle circostanze che l’avevano
portato lì a Tokyo. Lui non voleva che Manabu lo venisse a sapere, non in quel
momento almeno.
« Tutto bene? »
Come al solito, sempre discreto e sempre
temendo di dire una parola di troppo. Mana non s’impicciava degli affari altrui
a meno che non lo riguardassero direttamente, e quel lato del suo carattere
aveva imparato davvero ad apprezzarlo. Ogni tanto gli capitava anche di aver
bisogno di riservatezza.
« Sì, tutto bene. »
« Abbiamo appuntamento con Yuuji davanti alla
statua di Hachiko tra un’ora, quindi sbrigati a prepararti. »
Ah già, la statua di Hachiko. Quel cane che
anche dopo la morte del padrone aveva continuato ad aspettarlo anni e anni e
che era stato omaggiato con un monumento. Il quale era a sua volta diventato il
luogo d’incontro più famoso di Shibuya.
« Ok. »
S’alzò in piedi un po’ svogliatamente,
infilando la porta della camera di Mana quasi senza guardare e tirando fuori
dal suo bagaglio un paio di jeans e una maglietta bianca senza troppe pretese.
Figurarsi se gli andava di vestirsi, in quel momento.
Passò in bagno e si pettinò i lunghi capelli
castani – che stavano crescendo a vista d’occhio – mettendoci un po’ di gel e
poi lasciando la stanza libera per Manabu che invece era perfettamente in grado
di trascorrerci ore.
Proprio lui gli aveva chiesto o si poteva dire
quasi comandato di lasciarseli allungare, asserendo che per il loro stile e per
quel che aveva in mente potevano starci. A quanto pareva aveva ordinato la
stessa cosa a Kami e non per ultimo a se stesso, per quanto i suoi splendidi
capelli già gli raggiungessero tranquillamente i fianchi stretti.
E tuttavia non s’era ancora degnato di rivelare
a nessuno cos’era di preciso quella cosa che aveva in mente. Qualcosa di
devastante o giù di lì, probabilmente.
« Io ho finito », disse quasi urlando in
direzione della cucina, dove Mana aveva evidentemente finito di rassettare.
Come prevedeva, se lo trovò a schizzargli di
fianco col suo passo soldatesco prima ancora di aver finito la frase, dritto
sparato verso il bagno.
Allora sorrise: eh sì, ormai lo conosceva…
Mana uscì da quella stanza all’incirca una
mezz’oretta più tardi, pulito e profumato come se appena uscito da un bagno
termale. E probabilmente almeno la doccia se l’era fatta sul serio. S’era
avvolto attorno alla vita un asciugamano e vagava per casa come un fantasma
dalla pelle candida, a cercare chissà che nascosto fra le pieghe delle tende e
i cuscini del divano.
Fu in quella tenuta che Gackt Camui se lo vide
spuntare da dietro la porta della camera, e quasi se ne sconvolse.
Riuscì a mantenere un tono indifferente quel
tanto che bastava per guardarlo fisso come un ebete senza ritenerla una
discreta figura di merda. E senza neanche accorgersi che Mana intanto aveva
preso a scrutarlo a sua volta come domandandosi che diamine avesse. Non aveva
forse mai visto un uomo a torso nudo? E come faceva lui poi a spiegargli
l’ovvia opzione che nella fretta aveva dimenticato di prendere l’asciugamano
grande?
« Mi allunghi quei vestiti che ho lasciato sul
letto? »
Bastò il tono leggero e quasi sarcastico di
quella domanda a far ritornare Camui al reale, e quasi balbettando una scusa
gli passò gli abiti che quello andò a infilarsi in bagno senza degnarlo più di uno
sguardo.
Santo cielo… per un istante – e dovette
ammetterlo – se l’era vista davvero brutta.
Quel ragazzo era di una bellezza che aveva
dell’assurdo, e quel torace sottile e circondato dalle ciocche bagnate di
capelli neri gli aveva ricordato la neve dell’inverno illuminata dalla luna,
dai capezzoli simili a rose che in quel pallore erano fiorite ed incantevoli
come rubini.
E si diede da solo dell’idiota e dell’emerito
demente.
Da quando si lasciava andare a certe stupide
considerazioni? Per non parlare di quell’imbarazzo inspiegabile che l’aveva
colto, inspiegabile almeno quanto l’irriproducibile pensiero da poesia romantica
vecchio stile che l’aveva appena seguito. Mica era la prima volta che vedeva un
ragazzo nudo.
Già… non era la prima volta ma c’era andata
molto vicino.
Lui era diverso, semplicemente diverso.
E quella singola parola continuò a girargli per
la mente anche mentre andavano verso la statua del cane fedele Hachiko, mentre
il chitarrista gli camminava accanto con quei suoi soliti occhiali da sole e
una gonna lunga e nera addosso e di tanto in tanto pareva scrutarlo quasi
nervoso come a voler capire cos’era che lo distraeva tanto.
Se avesse conosciuto l’identità di quel
qualcosa, non dubitava che Mana si sarebbe posto qualche domandina in più.
Tuttavia, fortunatamente, non aveva ancora il
potere di leggergli nella mente.
Non poteva capire che, in quel momento, la
mente di Satoru Okabe era tutta per lui.
Per Manabu Satou.
Yuuji Kamijo era già lì, Gackt lo riconobbe
senza neppure il bisogno che Mana glielo indicasse.
Mentre s’avvicinavano vide infatti davanti alla
statua del cane Hachiko qualcosa che somigliava vagamente ad un ragazzo. Non
più di quanto somigliasse ad un ragazzo la creatura che in quel momento aveva
accanto e che camminava sopra un paio di zattere chilometriche in formato
stivaletto. La cosa che colpì Satoru non fu tanto la tonnellata di boccoli
lunghi e biondissimi di quel tizio o il fatto che evidentemente non si trattava
di una parrucca… fu il fatto che nonostante l’abbigliamento palesemente
signorile che fasciava un corpo piuttosto esile non del tutto dissimile – e ti
pareva! – da quello di una ragazza, il tipo lì stava masticando chewing-gum con
la grazia di un teppistello.
Poi si girò dalla loro parte, evidentemente
accorgendosi di Mana, perché lo salutò alzando il braccio.
« Bonjour
Honey! »
Manabu non lo degnò che di un cenno del capo e
la sua testolina rimase leggermente inclinata da una parte come segno di
apparente perplessità e di mille speranze infrante.
Gli occhi neri del ragazzo che aveva di fronte
si posarono poi su di lui, Satoru, osservandolo con quel che pareva sommo
divertimento.
« Io sono Yuuji Kamijo, molto piacere. »
« Io Satoru Okabe, piacere mio. »
Si strinsero la mano come due occidentali, e a
Gackt – non seppe mai di preciso perché, poi – la schiettezza di Kamijo piacque
subito. Anche se non sarebbero mai diventati amici stretti.
« Quando ti degnerai di guardarmi, Mana-chan? »
Il diciannovenne ex-roadie si stava ora
palesemente rivolgendo agli occhiali da sole indossati da Mana, il quale ancora
non l’aveva degnato di una singola parola.
Perfino Gackt pareva perplesso da
quell’atteggiamento, ok che Mana era taciturno ma rimanere così sulla difensiva
anche con un suo amico apparentemente stretto gli sembrava alquanto insolito
persino per un riccio arrotolato come lui.
Kamijo comunque si dimostrò immediatamente per
quel che era: un essere incapace di venire scalfito dalla subdola e in qualche
caso inavvertibile ironia sagace di Mana.
Difatti scoppiò a ridere, forte.
« Sei sempre più divertente, caro il mio
alienato! »
Non diede ancora peso all’ennesima mancata
risposta del chitarrista e allora si girò ridacchiando verso Satoru, in uno
scintillio di boccoli biondi che aveva del paranormale.
« Devi sapere che questa persona mi vuole così
bene che non riesce ad esprimerlo e allora sta zitto direttamente. »
« Chiudi quella fogna, bimbetto. »
Eccolo, alla fine s’era svegliato a quanto
sembrava. Kamijo non gli risparmiò un ghignetto sardonico che aveva dell’inquietante.
« La bella addormentata nel bosco si è degnata
di scendere a colazione, finalmente! »
« Abbi rispetto per quelli più grandi di te,
ragazzino. »
Ma quel ragazzino in particolare non pareva
essere interessato a mettere un freno alla sua lingua, con grande sconforto di
un Manabu che ne veniva perseguitato di continuo.
Fu così che Gackt, mosso da uno strano
sentimento di comprensione mista a pietà, lo salvò in corner attirando
l’attenzione del teppistello camuffato da pulzella.
« Mana mi ha detto che volevi conoscermi, come
mai? »
Ancora un sorrisetto non privo di malizia da
parte di quel ragazzino un poco più basso di lui, che lo fissò con una certa
curiosità e senza timore nelle iridi scure.
« Be’, semplicemente volevo vedere il viso del
vocalist che ha tanto sconvolto Mana-chan. Prima che tu ti trasferissi qui non
ha fatto altro che parlarmi di te, e non nego che la cosa mi ha incuriosito e
alquanto indispettito… sai, nel mio piccolo anche io sono un vocalist. O
meglio, lo sarò appena avrò trovato i componenti per la band che voglio
formare. »
Fece due passi in avanti prima di continuare, e
Satoru s’accorse che portava scarponi zeppati più che simili a quelli di Mana.
« Non fraintendere… non voglio prendere il tuo
posto. Ho scelto io di mia iniziativa di non lavorare con Mana, ho timore che
stare sullo stesso palco assieme a lui mi ucciderebbe. »
« Perché ti ucciderebbe? »
Il ragazzo si limitò a sistemarsi uno dei
boccoli, evitando di guardare negli occhi Camui.
« Semplicemente perché abbiamo idee differenti
e andiamo per strade separate. Io e lui finiremmo per scontrarci se dovessimo
lavorare assieme, perché come puoi vedere io non sono incline a dargli spago.
Non riuscirebbe a essere il mio despota. »
Poi finalmente alzò lo sguardo e lanciò un
bacio in direzione di Mana, che dal buio angolo del suo silenzio non s’era
perso una battuta ed anzi era stato più di una volta lì lì per lanciare la sua
borsa contro quel genio di oratoria che era quella specie di boccoluta donzella – quel pensiero
pronunciato con un’ovvia dose di sarcasmo acido malcelato.
« Ma non ti preoccupare honey, tu sei e resti uno degli esseri umani che più adoro in
assoluto. »
« E tu sei e resti uno dei maggiori bambocci
dell’universo, marmocchio. »
« Ti voglio bene in un modo che non puoi
neanche immaginare. »
« Non lo voglio
immaginare! »
« Comunque… Okabe-san? »
Yuuji si voltò di nuovo verso Gackt con sempre
quello scintillio di chiome bionde sotto il sole, e Gackt si trovò
improvvisamente a sudare freddo. Oh be’, chiunque avrebbe sudato freddo vedendo
come quella furia teneva testa a una personalità suo malgrado dirompente quale
era Satou Manabu.
« Sì, Kamijo-san? »
« Non devi preoccuparti, oggi non sono qui con
l’intenzione di esaminarti. Tutt’altro. »
« Ah no? »
« Mana non ti ha detto nulla? »
« Cos’avrebbe dovuto dirmi? »
Kamijo Yuuji allora si mosse, iniziò a
camminare, poi si girò e li guardò e fece loro una smorfia.
« Che andiamo a fare shopping. »
Poi aggiunse, vedendo che Satoru non accennava
a capire dove stesse il problema: « Abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti le
borse! »
Quella sera, quando tornarono a casa, Satoru
Okabe poteva dirsi veramente sfinito.
Molto più che da un giorno intero di prove, molto più che da una settimana
intera senza dormire, molto più che da un mese di guida ininterrotta a bordo della
sua Ferrari che aveva lasciato parcheggiata sotto casa. Era stato terrificante.
Ora capiva come
Era stato trascinato in tutti e sottolineava tutti i centri commerciali della zona
nessuno escluso e costretto ad aspettare ore intere mentre quelli si
accapigliavano su che cappello stava meglio con che guanti e se era meglio
comprare una giacchina ricamata col pizzo bianco o con quello nero o peggio se
il tacco sarebbe andato di moda l’anno dopo. Una volta risolti tutti questi
dilemmi esistenziali s’erano portati via abbastanza roba da aprirci un negozio
e l’avevano rifilata tutta a lui.
E dire che non andavano neppure sempre in giro
vestiti da donna… cosa dovessero farsene di tutta quella roba era un mistero
per lui.
Così come era un mistero dove li avessero
nascosti i soldi per comprare tutto quell’armamentario così squisitamente
femmineo quanto apparentemente inutile.
Alla fine, tuttavia, s’era divertito e pure
parecchio. Quel Kamijo era un’altra personalità interessante, anche se con Mana
sembravano il giorno e la notte. Forse per quello stavano sempre a battibeccare,
anche se si vedeva che c’era sotto qualcosa di simile a un’amicizia molto
stretta.
E poi gli era piaciuta quell’aria di sfida con
cui l’aveva salutato, prima di tornare al suo appartamento.
“Non voglio sentirti cantare ora,” gli aveva
detto “voglio vedere quello che sai fare su un palco, e guai a te se fallisci.
Non far pentire Mana di averti scelto.”
Aveva colto, dietro al suo tono, una nota di
preoccupazione sincera nei riguardi del chitarrista.
Era evidente che per tutti loro, per tutti quei
pochi esseri che potevano ritenersi suoi amici, quella persona contava molto
più di quanto l’apparenza non tradisse.
“Sei preoccupato per Mana?” gli aveva domandato
allora.
Yuuji Kamijo semplicemente gli aveva sorriso, sornione
e simile a un gatto dal pelo biondo come l’oro.
“Affatto. È solo che prima voi Malice Mizer vi
rimettete in sesto prima questo diciannovenne squattrinato ritroverà la sua
fonte principale di introiti. Sono il vostro roadie, non ve lo scordate.”
E s’erano salutati, con quelle parole.
E con la promessa, da parte di Gackt, che la
sfida sarebbe stata bene accolta e vinta.
- continua -
N.d.A.
Capitolo dai trascorsi un po’ travagliati questo, al solito causa studio, causa
caldo e causa lentezza mia… perdonatemi… spero che lo abbiate gradito!
Vitani