Anime & Manga > Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru
Segui la storia  |       
Autore: Benio Hanamura    20/07/2014    1 recensioni
[Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru]
“Il mio nome è Kichiji Hananoya… o meglio, questo è il mio nome dall’età di 15 anni. Fino ad allora ero Tsukiko, la sesta figlia della famiglia Yamada...”
Nel manga originale della Yamato è detto ben poco del passato della geisha Kichiji, che fa la sua prima comparsa come causa inconsapevole di gelosia della protagonista Benio nei confronti del fidanzato Shinobu, ma che poi si rivelerà essere solo una sua ottima amica e stringerà una sincera amicizia con Benio stessa, per poi segnare anche l’esistenza del padre di lei, vedovo inconsolabile da tanti anni.
Per chiarire l’equivoco e per spiegarle quale rapporto c’è davvero fra lei e Shinobu, Kichiji racconta la sua storia del suo passato a Benio, dei motivi per cui è diventata geisha, abbandonando suo malgrado il suo villaggio quando era ancora una bambina, ma soprattutto del suo unico vero amore, un amore sofferto e tormentato messo a dura prova da uno spietato destino…
Dato che questa storia è solo accennata nel manga, ma mi è piaciuta e mi ha commossa molto, ho deciso di provare ad approfondirla e di proporvela come fanfiction!
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
      Più tardi Kiyoko disse che doveva lasciarmi, aveva degli impegni per il resto della mattinata e poi si era offerta di presenziare alle prove di danza delle apprendiste, dato che Keiko era andata via, il che l’avrebbe impegnata per il pomeriggio: qualsiasi cosa accada lo spettacolo deve andare avanti, ha sempre detto la okasan. Una geisha non deve lasciare che si notino i propri sentimenti e le proprie angosce, deve preoccuparsi di soddisfare i clienti sempre e comunque, ha sempre detto Kikyo-san.  A chi non è parte del nostro mondo questo potrà sembrare assurdo, crudele, eppure per noi è così, è la normalità: Kiyoko, la okasan, Kikyo-san non sono mostri insensibili, semplicemente sono geisha.
   Col permesso della okasan per il resto della mattinata Miyuki rimase con me. Non scesi a pranzo, lei mi portò qualcosa in camera, ma non riuscii a buttare giù nulla; quindi, quando lei fu richiamata in cucina per aiutare le altre domestiche a lavare i piatti, mi rimisi a letto, dove restai distesa per qualche ora in una sorta di dormiveglia. Anche la mamma si era sentita così quando quel terribile giorno si era ritirata in camera sua dopo la notizia della morte di Aiko? Lei almeno per tutta quella giornata si era sfogata per bene, versando calde lacrime, non reprimendo anche urla di dolore, e del resto anch’io in quella stessa occasione avevo pianto tanto; perché ora non ci riuscivo? Allora io mi disperavo pensando che non avrei più rivisto la mia sorellina, ero triste, ma come i miei altri familiari mi preoccupavo anche di cosa avremmo fatto noi altri per andare avanti, arrivando a propormi di venire qui all’okiya al suo posto per contribuire al sostentamento della famiglia e per salvare Miyuki dal triste destino che l’avrebbe attesa. Invece in quest’altra situazione non pensavo più a niente.
   All’improvviso mi resi conto che era giunta l’ora delle prove quotidiane delle apprendiste. Allora mi alzai, ed anche se barcollavo quasi come un’ubriaca scivolai, lentamente e silenziosamente, giù per le scale e poi lungo il corridoio, fino alla stanza dove avrei trovato Kiyoko. Chissà, magari quella situazione allegra mi avrebbe in qualche modo giovato… Raggiunta la stanza, feci scorrere appena i fusuma e vidi mia cugina, mentre correggeva una delle bambine. Era Kyu. Una ragazzina molto graziosa, ma che era anche una vera peste. La okasan l’aveva affidata proprio a Kiyoko perché la pazienza di mia cugina era proverbiale, e temeva che nessun’altra delle anziane l’avrebbe sopportata. In effetti non si capiva come suo padre avesse anche solo potuto vagamente pensare che quell’uragano avrebbe potuto mai diventare geisha, insofferente com’era di regola e disciplina; eppure anche con lei l’intuito della okasan, che non era certo il tipo da farsi scoraggiare da certe sfide, non aveva sbagliato, infatti mia cugina pareva l’unica a cui la piccola dava un briciolo di considerazione. Ancora una volta Kiyoko le dimostrava come avrebbe dovuto interpretare adeguatamente lo spirito del ciliegio, ancora una volta lei se ne usciva con pose assurde, perché quella danza era per lei troppo noiosa, come aveva dichiarato una volta senza mezzi termini, facendo impallidire Kikyo-san, che quella volta era presente e si era resa perfettamente conto di come la bambina a volte agiva in un certo modo proprio per stuzzicare lei, la geisha-oni. Più volte io ero stata di aiuto a mia cugina, ed ancora di più avrei dovuto esserlo ora che era venuto a mancare il supporto di Keiko nelle prove di danza, invece proprio nel momento del bisogno mi sentivo completamente svuotata. Non ebbi alcuna iniziativa. Fra l’altro in un altro momento quella scena mi sarebbe sembrata spassosa (anche se mai come le volte in cui Kyu faceva uscire fuori dai gangheri Kikyo-san: tanto per fare un esempio la storia di lei che le aveva fatto trovare una ranocchia nel futon facendola urlare parecchio a squarciagola, rimase famosa per anni nel nostro ambiente!), invece mi fu del tutto indifferente. Al contrario provai ulteriore tristezza e pensai che Kiyoko avrebbe dovuto capire che non valeva la pena sforzarsi tanto per raggiungere uno scopo, soprattutto di fronte a persistenti difficoltà, quindi senza farmi sentire richiusi i fusuma e tornai di sopra, con mio sollievo senza fare altri incontri nemmeno nel corridoio.
   Quando a fine lezione Kiyoko mi raggiunse nuovamente e mi invitò a scendere almeno per la cena io la seguii meccanicamente, ed altrettanto meccanicamente assecondai l’accorata insistenza della okasan e mangiai almeno un po’. Non sospettando affatto quale fosse la vera causa del mio stato, lei insistette sulla possibilità di farmi visitare dal suo medico di fiducia, temendo che potessi ammalarmi seriamente come Aiko, ma io declinai garbatamente la sua richiesta, attribuendo tutto solo alla stanchezza ed all’ansia che mi procurava la guerra, che teoricamente prima o poi avrebbe potuto anche estendersi alla nostra città. Evidentemente la mia recitazione fu convincente, perché lei rise e mi rassicurò, da come stavano andando le cose questo rischio pareva un’eventualità alquanto inverosimile, potevo stare tranquilla! Mi invitò comunque a prendermi qualche giorno di riposo, perché in quella situazione molto difficilmente avremmo avuto un altro ozashiki  molto presto, e per quelle poche serate poco affollate che ci capitava ancora di organizzare avrebbero anche potuto fare a meno della mia collaborazione per un paio di volte. In fondo non era una persona cattiva, i suoi atteggiamenti gentili nei confronti miei e delle altre ragazze non erano del tutto falsi ed era sinceramente preoccupata per me, o forse semplicemente si era resa in qualche modo conto che stavo molto più male di quanto volessi lasciare intendere, ma di certo lei confidava in una mia veloce ripresa, consapevole del fatto che io non ero cagionevole come la sfortunata Kikuko. Ma se avesse immaginato il vero motivo per cui stavo tanto male anche lei avrebbe compreso che avrei finito solo col peggiorare drammaticamente, come in effetti accadde.
   Non ero un’ammalata desiderosa di guarire, semmai avrei quasi preferito che l’incubo di quella notte fosse stato la realtà, era stato meno crudele in fondo: avevo ritrovato Koji ed eravamo insieme al nostro amato villaggio, avevamo intorno le nostre famiglie e potevamo amarci alla luce del sole, senza temere gli sguardi di disappunto della gente e le malelingue, ed eravamo arrivati addirittura davanti all’altare; persino il finale non era poi così terribile: lui era morto fra le mie braccia, ma di lì a poco anch’io avrei avuto la stessa sorte, e così sarei stata riunita a lui per sempre!
   Nella realtà invece avevamo dovuto ricorrere a mille sotterfugi anche solo per poterci parlare, creare disagi e far correre rischi anche ai pochi che volevano sostenerci ed aiutarci… Quella notte, infilatami completamente sotto le coperte del mio futon, in modo di coprirmi anche la testa, non riuscii a chiudere occhio. Miyuki non c’era lì con me, era stata incaricata dalla okasan di rimanere accanto ad una sua compagna che pareva aver preso un fastidioso raffreddore, ed io non avevo detto o fatto nulla per trattenerla: così ero sola ed anche se ancora i miei occhi erano irrimediabilmente asciutti la mia mente era più che mai viva, intenta a tentare di rievocare i momenti in cui, per quell’unica volta mi ero trovata in quello stesso futon avvolta dal suo abbraccio. E pensai ad Oyuki, la moglie del capitano Miura… Quella notte anch’io avrei potuto rimanere incinta; magari ciò mi avrebbe causato problemi, ma avrei potuto comunque portare a termine la gravidanza, mettere al mondo il figlio che entrambi desideravamo (o magari la figlia, su questo non eravamo mai stati d’accordo, perché Koji diceva sempre che per prima avrebbe preferito una bambina!) e morire nel farlo: Koji sarebbe stato triste, certo, ma gli avrei lasciato il frutto del nostro amore, e ciò avrebbe ben compensato il mio sacrificio, perché non ritenevo poi Oyuki così sfortunata, dato che in fondo era morta dando alla luce il figlio dell’uomo che amava…
   Invece allora nessuno di noi due aveva preso in considerazione quell’eventualità, ma ciò nonostante non c’erano state conseguenze e mentre da un lato ciò era stato un sollievo perché non avrei avuto guai all’okiya dall’altro ora mi riempiva di amarezza, perché dovendo sopravvivere al mio amato mi sarebbe rimasto sempre suo figlio a darmi quella forza che ora nessuno avrebbe mai potuto darmi. Non avrei avuto un bambino, il mio ventre era vuoto, vuoto come il mondo ormai senza Koji, vuoto come dev’essere il cuore di una geisha votata esclusivamente alla soddisfazione del cliente, vuoto come era diventata la mia esistenza.
   Non rimpiangevo nemmeno la compagnia di Miyuki o di Kiyoko e nemmeno quella dei miei cari rimasti al villaggio. Li amavo ancora, certo, ma sapevo che non avrebbero potuto in alcun modo essermi di vero conforto, attenuare anche solo in parte il mio dolore, liberarmi da quel nodo che sempre più stretto mi toglieva il respiro… Volevo restare sola, pensando che forse, rimanendo zitta e buona al buio per un tempo sufficiente anch’io avrei potuto sparire, annullandomi nell’oscurità e ponendo fine una volta per tutte al mio insopportabile tormento.
   Ma ovviamente non sparii affatto. E non solo non sparii, l’oscurità si attenuò sempre più ed iniziò ad albeggiare. Non avevo ancora sentito Miyuki risalire in camera sua (d’altra parte se fosse risalita non vi sarebbe rientrata prima di venire a controllare come stavo!), evidentemente si era addormentata in camera della sua amica, ma sicuramente appena sveglia mi avrebbe raggiunta. Non volevo che ciò accadesse: non volevo essere raggiunta, non volevo essere consolata, volevo solo che tutto finisse. Così decisi di non farmi trovare in camera e scesi velocemente, badando di non far rumore per non rischiare di svegliare qualcuno. E proprio mentre percorrevo la scala in silenzio pensai all’unico modo in cui avrei potuto riuscire ad ottenere ciò che volevo, ritrovare colui che amavo: anch’io avrei dovuto abbandonare questo mondo!!!
   Mi avevano raccontato che era tradizione del nostro paese che le mogli dei militari nel trasferirsi nella casa dei propri mariti portassero con sé fra le altre cose un kimono bianco da lutto ed un pugnale, entrambi da usare nel caso i mariti fossero caduti in battaglia e loro fossero rimaste vedove: in tal caso infatti la donna aveva il dovere, per dimostrare la sua devozione e la sua fedeltà, di indossare il kimono da lutto per poi rivolgere il pugnale contro se stessa. Ricordo che quando sentii questa storia da un cliente, nel corso di un ozashiki quando ero ancora una maiko, fui inorridita: in effetti era normale che una vedova restasse sempre devota alla memoria del defunto marito, ma addirittura questo? Non bastava che una donna dopo il matrimonio fosse condannata a rimanere praticamente relegata in casa, con l’unica funzione di lavorarci dalla mattina alla sera e di partorire e crescere figli, senza poter decidere nulla della propria vita se non in funzione del marito? Avevo sempre pensato che quando mi fossi innamorata di qualcuno non avrei potuto più innamorarmi di nessun altro se mai avessi perso il mio uomo, ma certamente non avrei pensato mai alla morte; e poi come avrei potuto avere il coraggio di provocarmela da sola? Senza contare che la mia famiglia avrebbe sofferto ancora di più!
  Allora non potevo ancora capire ciò che invece mi era improvvisamente divenuto chiaro e logico, rendendo la mia carriera, le amiche, persino la mia famiglia del tutto indifferenti. Non mi sentii più confusa, mi mossi con sicurezza, sapendo dove andare, cosa procurarmi e dove cercare; quindi mi diressi verso il magazzino, che di recente era più spazioso perché era stato recentemente risistemato, dopo che la okasan aveva fatto portar via diversi oggetti che vi si trovavano da anni inutilizzati. Inoltre era stato ripulito da cima a fondo, perciò nessuno mi avrebbe disturbata. Per un attimo pensai che avrei dovuto pianificare meglio il tutto, magari lasciare una lettera di addio alla mia famiglia per spiegare loro che non avevo avuto scelta, chissà se i miei mi avrebbero capita, se mi avrebbero perdonata perché alla fine anch’io avrei provocato loro dolore… E fui tentata di tornare indietro nella mia camera per prepararla, in fondo avrei potuto rimandare almeno di un giorno…
   Subito però mi resi conto che non potevo più resistere anche solo un’altra ora lontana dal mio Koji, e soprattutto pensai che in tanto tempo qualcuno avrebbe potuto intuire le mie intenzioni e fermarmi: pazienza, Kiyoko sapeva, lei avrebbe dato loro spiegazioni, non si sarebbe tirata indietro, almeno per amor mio!
   Sì, mi stavo comportando da egoista, ne ero perfettamente consapevole, ma non potevo farci più niente. Stringendo il pugnale in una manica del kimono entrai nel magazzino e richiusi la porta, quindi mi sfilai l’haori: per quanto assurdo anche in una situazione del genere l’esperienza che ormai avevo accumulato come geisha mi aveva indotto a compiere quel gesto apparentemente del tutto illogico e fuori luogo perché in quel modo almeno non avrei rovinato anche quel capo così costoso. Quindi, muovendomi quasi come se stessi compiendo un cerimoniale ben definito, mi portai verso il centro dello stanzone, mi sedetti e poggiai il pugnale sui tatami per racchiudermi per qualche minuto in preghiera, chiedendo almeno in quel modo perdono per i miei peccati.
   Infine, ripresi il pugnale e lo tesi con una certa esitazione verso il mio polso sinistro. Non sarei mai riuscita a conficcarmelo nel cuore né tanto meno a sgozzarmi, così avevo scelto un altro sistema, di sicuro meno traumatico, meno sanguinoso. Ma ugualmente la mano mi tremava, avevo paura. Dovevo fare in fretta, o avrei perso completamente il coraggio, e poi tenui raggi di sole iniziavano ad entrare dalla finestra…
   Calai: un improvviso dolore sordo, poi un brivido, poi l’odore del sangue che iniziò a gocciolare sempre di più. Il pugnale mi era caduto, ma raccogliendo le mie forze residue lo ripresi con la mano ferita, e lo rivolsi all’altro polso, stavolta con maggiore velocità e sicurezza. E poi di nuovo il buio più totale. 

 
  
Note: 
Geisha: non è un errore, il plurale italiano dei termini giapponesi è identico al singolare, l’ho appena scoperto! Perciò se in precedenza avete trovato “geishe” era lì l’errore!!!^^’’

Haori (羽織): un soprabito che giunge fino all'anca o alla coscia, che aggiunge ulteriore formalità. Introdotto già tra il XV e il XVI secolo, fu riservato agli uomini fino alla fine del periodo Meiji (1868-1912), quando col cambio delle mode è entrato nell'uso anche per le donne. I modelli da donna tendono ad essere più lunghi.
Originariamente, gli Haori furono creati per essere indossati esclusivamente dagli uomini sopra il Kimono.
Furono le geishe, verso la fine del periodo Meiji(1862-1912), a estenderne l'uso anche alle donne per proteggere i loro preziosi Kimono dalla polvere e dall'umidità.
La moda prese definitivamente piede con l'avvento del periodo Taisho (1912-1926).
 
Tatami (): è una tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari affiancati fatti conpaglia di riso intrecciata e pressata. Può anche avere diversi spessori che mediamente raggiungono i 6 cm. Le dimensioni non sono fisse variando da zona a zona. Orientativamente il tatami è lo spazio occupato da una persona sdraiata. Le misure più frequenti sono 90 cm × 180 cm oppure 85 cm × 180 cm. Vi sono anche i mezzi tatami di 90 × 90 oppure 85 × 85.
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Mademoiselle Anne/Haikara-san ga toru / Vai alla pagina dell'autore: Benio Hanamura