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Autore: Atticus 182    27/07/2014    1 recensioni
"L'aria bruciava la pelle, il silenzio teneva con cura tutto il Giacimento nelle sue mani e il dente di leone era appassito."
Questa è la storia vista dalla prospettiva di Primrose, e racconta tutto ciò che succede durante l'assenza di Katniss nella vita di Prim. Ricordi, sensazioni, amori, luce e oscurità.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Primrose Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Lingue di fuoco avvolsero il mio corpo, sentivo la carne sciogliersi sotto la pelle, il dolore penetrare nelle ossa e arrivare a toccarmi l’anima, i miei vestiti persi nel fumo, un cielo grigio, un bambino morto, una ghiandaia in fiamme.

Era strano come le perdite successive mi scivolarono letteralmente addosso. Aurelius fu l’ultimo paziente a cui regalai un pezzo di me stessa e il primo per cui non piansi. Altri morirono sotto i miei occhi, guardando il mio viso per l’ultima volta, sfiorando la mia mano e addormentandosi lentamente, ma non permisi a nessuno di essi di portarmi con sé, come avevano fatto Isaac e Caroline. La vita in ospedale era dura, l’avevo sempre saputo, ma lei mi aveva distratto dai miei doveri, annebbiando il mio giudizio e portandomi sull’orlo di un burrone fin troppo ripido, senza nessun appiglio a cui aggrapparmi. Ma poi un piccolo masso era spuntato dal lato della montagna dandomi sostegno e chiedendomi di rimanere, non per vivere, ma sopravvivere. Così saldando le dita alla sporgenza ero tornata sulla terra ferma e le mie gambe si stavano riabituando alla stabilità, erano rimaste fin troppo tempo appese nel nulla in cerca della terra sotto le suole e adesso era il momento giusto per tornare a camminare.
Il dente di leone portava con sé ancora il profumo di inverno inoltrato, mi si spargeva nelle narici per galleggiarmi in bocca e dare alle papille gustative un sapore di neve. Potevo sentire la linfa vitale scorrere nei vasi linfatici lungo il gambo e dare colore ai petali morbidi e sottili. Una mattina ripiombai nella realtà dal mondo degli incubi con la fronte imperlata di gocce di sudore e la mamma seduta sul ciglio del mio letto. «Buongiorno, Primrose. » Mi sussurrò con voce delicata e calma, fin troppo calma. C’era qualcosa che doveva dirmi. «Cos’è successo? » Mi prestai a dire, odiavo girare intorno alle cose. «Katniss è in viaggio per il 2 insieme a Gale e Finnick, a breve ho sentito che li raggiungerà anche Peeta, devono girare dei pass-pro come nell’8 e cercare di indebolire l’Osso, lo scudo di Capitol City. Nulla di preoccupante, tornerà presto. » Sarà vicina a Snow, pensai. Molto vicina, troppo. Nel corso di medicina durante una prova, il nostro professore aveva riprodotto insieme ai suoi tecnici un vero e proprio campo di battaglia che prevedeva lo scontro tra i ribelli e i Pacificatori nel Distretto 2, dove erano in corso le lotte piu’ estreme e dove vi erano centinaia di feriti. Ci spiegò che il Presidente nelle strade aveva fatto installare dei baccelli, trappole ben nascoste che una volta innescate potevano trasformarsi in ogni sorta di pericolo. Così ci fece allenare sulle ferite riportate dai baccelli; nei casi maggiori, cioè per il 90% dei casi le vittime non avevano possibilità di uscire indenni dallo scontro con quelle trappole, in casi minori agendo in fretta avremmo potuto salvare 2 o 3 vittime. Un numero decisamente scarso. Pensai a mia sorella in quelle strade, soffocata da una nube di fumo nero o catturata da una rete di spine, o senza un arto o due e misi le mani sul viso per coprire la mia espressione addolorata al resto del mondo. Era come vederla tornare nell’arena, come quando l’impotenza mi assaliva e non avrei potuto fare niente per aiutare, per aiutarla. Ricordai le parole della Coin ‘Chissà se in futuro potrò mandarla in prima linea a salvare qualche ribelle ferito in guerra... ‘  Se solo fosse stato possibile, non mi sarei sentita così inutile. E invece di prendere in pugno la situazione, mi limitai, durante il resto della giornata e nei giorni seguenti, a comportarmi come un computer che esegue le regole impartite dal sistema.
Il reparto era mezzo vuoto, qualche infermiere giaceva immobile e annoiato sulle sedie lungo le pareti, il lavoro scarseggiava, i feriti del bombardamento si erano ristabiliti mesi fa e le maggiori occupazioni erano ormai prendersi cura dei pazienti con instabilità mentale o con lievi ferite da lavoro. Le giornate si riducevano a controllare e cambiare le bende impregnate di pus, misurare le pressione a vecchie signore allegre e far bere il brodino ai bambini del reparto di pediatria. Durante il turno in pediatria, mi persi nei mille corridoi del reparto e contai sulla mia abilità di orientamento per uscire fuori di lì. I labirinti mi avevano sempre messo ansia e terrore, era come essere nel corpo di un topo intrappolato nel fondo di un bicchiere messo a testa in giù. Svoltai un angolo e un altro ancora e poi fermai la mia ricerca. Cinquanta o forse settanta piccoli cuoricini battevano tutti insieme e vicini nel nido dell’ospedale proprio di fronte ai miei occhi. I loro visi sereni e levigati si riflettevano sul vetro che dava sul corridoio e i movimenti delle loro minuscole mani sembravano impercettibili e veloci. Alcuni dormivano profondamente, altri vigili e attenti mi scrutavano piano dalla loro culla. Mi persi a guardare quei corpicini avvolti dalle coperte e lentamente passai l’indice sul vetro come se potesse sfiorare la guancia di uno di quegli esseri. Era tutto così calmo e silenzioso lì, come se il tempo si fosse fermato e avesse avvolto ogni cosa per immobilizzarla e far tacere ogni male. Nessuno poteva farmi soffrire in quel momento, una strana felicità mi sfiorò piano la pelle, come per tastare il terreno e cercare un foro d’entrata. Avevo i brividi, ma non erano i soliti brividi di freddo, erano causati da quel mondo, quella nuova era, quella nuova speranza. Perché ogni sguardo che potei osservare, ogni piccola creatura che si trovava in quel posto sarebbe stata un giorno portatrice di speranza nel mondo, di innovazione, prosperità e amore. E niente sarebbe riuscito a rovinare quel mondo, proprio lo stesso che Katniss stava cercando di salvare, di ricostruire, di rendere migliore. Mi sentii orgogliosa, orgogliosa del mio stesso sangue, di essere chi ero, di trovarmi lungo quel corridoio. Rimasi lì immobile e in piedi per mezz’ora all’incirca, potevo toccare la vita che pulsava anche attraverso le mura che ci dividevano, e mi resi conto che ciò che stavamo vivendo era molto piu’ importante della morte a cui andavamo incontro ogni giorno. Che Isaac morendo mi aveva forse privato di qualche anno di vita che avrei trascorso a perdermi nel suo ricordo, che Caroline , una bambina, mi aveva trascinato nei fondali marini con lei perdendosi nelle onde e lasciandomi salire in superficie per riprendere fiato, che Aurelius il piu’ saggio coltivatore che avessi mai conosciuto mi aveva mostrato la via per non  soffrire piu’ , ma tutto quello mi era servito a qualcosa, eccome se mi era servito. Avrei collezionato le loro vite nella mia, e sarei vissuta per loro. Per far capire a quel grande disegno che si sbagliava, che tutto non finiva con la mia morte, ma con la mia vita, quella vita che sarebbe stata il ricordo dei morti del Distretto 12 e 13, dei corpi che aggrappandosi a me avevano marchiato a fuoco ogni strato della mia pelle, sarebbe stata quella la mia nuova missione: sopravvivere per loro.
Mi addormentai con la schiena premuta sulla parete del nido, quel pomeriggio sognai bambini ricoperti di sangue e avvolti da mani solide, non erano incubi, era la vita che stava nascendo, era il simbolo della speranza, ogni battito faceva bruciare le fiamme dentro di me e faceva brillare gli occhi dei padri che avevano sofferto la fame e adesso vivevano d’amore per i figli.
A svegliarmi fu un’infermiera di una quindicina di anni piu’ grande di me, sembrava una ragazzina, i suoi occhi castani erano puntati nei miei e un sorriso stranamente dolce le si disegnava sul viso. Al 13 erano tutti molto cupi e rigidi, rispettavano le regole e pareva come se i sentimenti fossero una debolezza per loro. In quella infermiera invece vidi altruismo e confidenza e mi lasciai aiutare dalla sua mano tesa a rialzarmi. «Che ci fai qui, Prim ? » Conosceva il mio nome, ma io non l’avevo mai vista. «Mi ero persa e poi la stanchezza ha avuto la meglio su di me. » Le dissi, ironicamente. Mi sorrise di rimando, poi incurvò le labbra e la sua espressione si incupì. Forse mi sbagliavo, forse anche lei era una ragazza fredda e triste del 13. «Ci sono delle notizie riguardo tua sorella che forse dovresti sapere. » Mia sorella, Katniss. Delle notizie riguardo cosa ? «Cosa ? Cosa le è successo? » La mia domanda piu’ frequente fuoriuscì dalle labbra con altre mille richieste, i miei muscoli avevano iniziato a tremare e adesso stringevo le spalle della ragazza e la scuotevo per saperne di piu’. «Calmati, Primrose! Pensavo fosse meglio che lo sapessi da tua madre, ma ...non so come dirtelo... Il Presidente ha mandato in onda il notiziario di Capitol City, beh... » Non stava rispondendo alle mie domande, cosa potevo fare se non urlare ? «Dimmi cosa le è successo? Dov’è ? Dove si trova? » Era in difficoltà, una goccia di sudore le percorse il viso dalla fronte e mi afferrò per i gomiti per calmarmi o forse sorreggermi dopo la dolorosa notizia. «Hanno dichiarato la morte di tutti i membri della squadra partita dal Distretto 13. Tra cui anche tua sorella. » Era un bene che fosse piu’ robusta di me e avesse la presa stretta, mi sentii sprofondare, come se un incudine di piombo fosse stato lanciato sul mio petto e avessi perso il controllo sul mio corpo. Sentivo le orecchie fischiare e un leggero senso di vomito, lo stomaco rivoltato sottosopra e sulla lingua mille spilli pungenti punzecchiavano la superficie del palato. Inghiottii la saliva che aveva il sapore del metallo, mi si fermò in gola come se un pugno mi avesse bloccato le vie respiratorie colpendo dritto al collo. Katniss era morta, per salvare un mondo ormai perso. Nessuno avrebbe avuto la sua stessa determinazione, il suo stesso senso di sfida, il suo affetto per me, il suo senso di protezione per le persone a lei vicine, nessuno sarebbe potuto essere la Ghiandaia Imitatrice. L’impotenza non fu l’unica sensazione che riuscii a provare prima di venire sedata, debolezza, dolore fisico, l’incapacità di perdonare il mondo, odio, determinazione. Se lei non era riuscita a sconfiggere Snow, allora l’avrei ucciso io. Non era come vedere un cervo ferito, e avere pietà. Lui era un mostro, un serpe, un viscido bastardo che andava eliminato e la mia debolezza stava scemando insieme al dolore, sarei partita per Capitol City.
«Prim. » La mamma si trovava a due passi dal mio letto, aveva vegliato su di me tutta la notte fino al mio risveglio e mi stava fissando, con lo sguardo offuscato dalle lacrime e il vestito bagnato da quelle del giorno prima. Invece di risponderle rimasi a fissarla e osservare il suo viso. Era invecchiata tanto dai primi Hunger Games, non per il peso degli anni, ma per la vicinanza così stretta alla morte che doveva affrontare ogni giorno. Due o tre rughe le spuntavano sotto i ciuffi di capelli sulla fronte bianca, corrucciata dall’espressione addolorata, il naso appuntito e sottile era leggermente arricciato e le labbra erano percorse da numerose righe che lasciavano intendere che la mamma non era abbastanza idratata. Potevo contare tutte quelle righe eppure non sarebbero mai arrivate a raggiungere il numero delle nostre perdite e la quantità di dolore che ci stava facendo soffrire. Aveva perso il marito e ora una figlia. Probabilmente si chiedeva cosa avrebbe potuto fare di piu’, oltre aiutare i malati, per avere l’indulgenza di Dio e un po’ di tregua dalle sofferenze. Si chiedeva cosa avesse fatto di così sbagliato nella sua esistenza da essere privata della cosa piu’ bella: una famiglia. Vedeva la vita che aveva creato scivolarle via dalle dita e non poter fare niente, vedeva ogni cosa sgretolarsi intorno a lei e l’unica cosa che le riusciva davvero bene era piangere e imbambolarsi a guardare l’armadio grigio della stanza. Mi alzai e la presi violentemente per le spalle «Non puoi! Non stavolta! Non devi! » Urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo. «Devi rimanere con me! Devi essere forte, devi continuare a vivere!» Ma il suo corpo rigido e leggero si muoveva sotto i miei strattoni senza batter ciglio, mi pareva di tenere una bambola di pezza tra le mani e scuoterla non sarebbe servito a niente, era senza vita, dentro conteneva solo altra stoffa. Non mi guardava, in realtà non guardava niente. «Devi... tu devi... per me... tua figlia...mamma, sono Prim...guardami.... » Ansimavo e le forze mi stavano abbandonando, mi accasciai a terra, tenendo lo sguardo ben saldato sul viso di mia madre, la mia voce era flebile e si perdeva man mano che le mie mani allentavano la presa. L’effetto della medicina stava riprendendo il sopravvento, vidi solo gli occhi di mia madre scattare dall’armadio a me, ma nessun movimento, niente di niente, mi lasciò semplicemente sprofondare negli incubi in cui Katniss veniva uccisa ripetutamente dal gas nocivo dei baccelli o da ibridi bavosi.
Tre, quattro, cinque giorni erano trascorsi dalla sua morte. Io e la mamma avevamo ripreso il nostro lavoro dopo aver reso omaggio ai caduti e alla fermezza e determinazione della Ghiandaia Imitatrice, che rimase pur sempre il simbolo della ribellione. Che idiozia, la Coin era così meschina e falsa e calcolatrice, stava ancora tenendo in piedi la storia della ragazza ribelle morta in guerra, il simbolo della speranza,  del coraggio e del futuro migliore per i Distretti, mostrando la sua morte come un atto di sacrificio per tutti gli altri. Piu’ nessuno sarebbe dovuto morire per la causa, e invece Katniss, Gale, Finnick e il resto della squadra giacevano sotto le macerie di quella casa bombardata dagli stessi hovercraft che bombardarono il 12, un vero e proprio omicidio di massa. Era questa la speranza di un futuro migliore per la Coin ? Far morire chi era necessario per salvare il resto delle vite ? Pensai che il titolo di Presidentessa non le si addiceva per niente, i suoi principi erano  tutto purché sani. La rabbia che mi stava divorando la tenevo ben nascosta sotto la pelle e i vestiti, lasciavo che il lavoro placasse l’odio che provavo verso tutti e mi donasse lucidità e fermezza.
La polvere sul comodino venne sollevata leggermente dal venticello che penetrava dalla finestra di Ranuncolo, creava mulinelli d’aria e lanciava i granelli a terra. Mi sentivo un po’ come quei piccoli puntini di polvere che cadevano dal dirupo, spostati dal vento ,e non di loro spontanea volontà, perdevano il controllo su loro stessi. Mi distesi a pancia in giù sul materasso e lasciai cadere nel vuoto la testa penzolante. Il dente di leone era ancora lì, persistente e di un giallo carico. Ogni tanto lo idratavo con un bicchiere d’acqua, ma avrei lasciato che sopravvivesse da solo, con le sue forze, un po’ come me. Dei passi rimbombarono nel corridoio, mia madre entrò nella stanza e spalancando gli occhi, disse «Prim, corri! » Il mio primo pensiero andò ad un bombardamento o un attacco di qualche genere, in realtà il corridoio era vuoto, ma lei mi tirò per un braccio afferrandomi dal polso e mi diresse al Comando. Le porte si aprirono, Plutarch, la Coin, Haymitch e Beetee erano seduti sulle loro sedie e sorseggiavano i loro caffè in tranquillità. Uno schermo aleggiava sul grande tavolo al centro della stanza, su di esso un’immagine. Il mentore mi rivolse un sorriso compiaciuto, poi quella freccia, il modo in cui era conficcata nel petto di quella donna. Una sola persona poteva scoccarla così. «Katniss. » Pronunciai sotto voce. «Snow ha appena mandato in onda le foto di alcuni membri della squadra di Katniss rimasti uccisi dai baccelli nella zona sotterranea della città. Poi hanno mostrato la foto di questa donna per mettere in cattiva luce la Ghiandaia Imitatrice e disegnarla come un’assassina. » Era viva, ci saremo potute rivedere, bastava solo riuscire a sopravvivere a quell’inferno. «A quanto pare tra i membri morti mancano Gale, Peeta, Katniss, Cressida e Pollux, quindi ci sono buone probabilità di una loro vittoria. » Continuò Plutarch eccitato. Nella sua squadra c’era anche Finnick, a quando pare non era riuscito a sopravvivere. Una fitta di dolore mi trapassò  il cuore da parte a parte, quasi non riuscii a respirare, ma mantenni i piedi saldati a terra, e cercai di inspirare ed espirare lentamente, inoltre ero ancora stordita dalla notizia di Katniss viva. Pochi giorni prima Annie era stata ricoverata in ospedale, ormai mi lasciavano controllare qualsiasi paziente di minima importanza, così quando me la trovai avanti un piccolo pancione fioriva sotto il suo vestito grigio e mi sentii male al pensiero del figlio di Finnick. Nato e cresciuto senza un padre.
Ormai mi ero estraniata da tutti, le parole che inondavano la stanza non arrivavano alle mie orecchie intontite e pensai fosse una buona idea uscire di lì. Mi sentii chiamare dietro le spalle, ma ero fin troppo stanca e stremata per sentire altro. Katniss era viva, e l’avrebbe ucciso. Era tutto ciò che importava al momento.
Quel giorno non ebbi piu’ notizie di lei, ma ero sicura che stava preparando un piano, un buon piano insieme a Gale, i due compagni di caccia in lotta contro la capitale. Mi sentii stranamente sicura della riuscita di quella strana missione, confidavo nel fatto che il caos stava sopraffacendo la città e Snow non era capace di contenere tutto ciò che aveva scatenato mia sorella.
Nei giorni seguenti tutto seguiva il suo ciclo e io mantenevo il solito ritmo  lavorativo. Forse mi sentivo piu’ leggera dopo aver saputo di Katniss, ma la mia espressione non cambiava di molto, cercavo di assumere sempre uno sguardo perso e tenere le labbra dritte e tese e stringere i denti. In realtà non ‘cercavo’, quello era ciò che provavo, irrigidivo il corpo per sopportare i ricordi ed aspettare la fine della guerra, ma se anche un po’ di sollievo attraversava il mio viso nessuno avrebbe dovuto vederlo, perché ero sembrata fin troppo debole di fronte agli infermieri e ai miei compagni di corso, tutti avevano sofferto, ma io mi ero lasciata andare completamente, così ero passata per una pecorella smarrita, e dovevo dimostrare che la sorella della Ghiandaia Imitatrice non era una rammollita.
Quel giorno al corso c’era molta confusione, non tra gli alunni ma tra i nostri professori, si scambiavano occhiate cariche di tensione ed attesa, ma poi Octavius si schiarì la voce e tutto tacque. «Oggi è l’ultimo giorno di corso per tutti voi, ragazzi. » Un minuto di silenzio, poi riprese. « E come ben sapete dobbiamo analizzare il vostro livello di preparazione con un’ultima prova, noi la chiamiamo ‘Il test rivelatore’, che appunto ci rivelerà la vostra attitudine per reparto, ovvero in quale di essi intraprenderete la vostra specializzazione. Abbiamo studiato che i reparti di chirurgia si dividono in ...... » Una nota di allerta risuonò sull’IN e il suo dito puntò dritto alla mia fronte. «Cardiochirurgia, neurochirurgia, chirurgia pediatrica, ortopedia, ginecologia e ostetrica, chirurgia d’urgenza, chirurgia plastica e chirurgia generale, professore. » Risposi prontamente, ricordando a memoria ogni parola scritta sul libro di Chirurgia. Mi sorrise piano e poi passò oltre, spiegando le modalità con cui avremmo sostenuto il test. «La prova consiste nel ritrovarsi in una stanza completamente soli con un paziente, creato dai nostri computer, aperto dal petto fino all’ombelico sul tavolo e ferito in vari punti. Dovrete iniziare a ricucire e curare da un organo a vostro piacimento e in base ad alcune analisi, che faremo al vostro cervello grazie a questo cip che vi inseriremo prima della prova, capiremo a quale reparto attribuirvi. Tutto chiaro ? » Ci fu un generale silenzio, poi come all’unisono ci risvegliammo tutti e pronunciammo un si sottovoce. «Bene, iniziamo subito. Abacus William.... » Iniziò a chiamare tutti in ordine alfabetico, inserendo il cip sulle loro nuche e spuntando la lista man mano che ognuno di loro entrava ed usciva dalla stanza. Alcuni uscendo si tenevano una mano sulla bocca ed erano pallidi in viso, segno evidente che il corpo aperto del ferito li aveva scossi e stavano per rimettere la colazione. In realtà non avevo mai pensato veramente a una specializzazione, così prima della chiamata del mio nome, feci uno schema mentale analizzando i vari reparti. Neurochirurgia consisteva nel mettere le mani nel cervello delle persone ed era un lavoro di estrema precisione e calma, un solo piccolo errore avrebbe mandato in corto circuito ogni cosa, lo esclusi immediatamente, anche perché la stabilità non era davvero il mio forte. Ovviamente il mio unico e vero pregio era la mia mano ferma ma non sarebbe bastata, bisognava essere lucidi e vigili e non me la sarei sentita. Chirurgia pediatrica non era nelle mie possibilità, ma ci pensai per qualche minuto, ottenendo il risultato che con i bambini era necessaria la delicatezza e  soprattutto la spensieratezza; per stare a contatto con i bambini sarei dovuta essere la persona piu’ allegra del mondo e proprio non sarei riuscita a farlo, non con la mia espressione perennemente cupa e triste. Per ortopedia necessitavano braccia forti e soprattutto la passione e dedizione per la ricostruzione delle ossa, cose che in realtà io non avevo. Avrei voluto intraprendere un percorso che mi avesse soddisfatta a pieno, una specializzazione che mi desse l’occasione di stringere la vita pulsante tra le mani. E sapevo di cosa si trattava, sapevo esattamente, alla fine di quel percorso mentale, da quale organo sarei partita. «Everdeen Primrose.. » Una voce forte e acuta mi chiamò e mi distolse dai miei pensieri, gli altri avevano impiegato 15 minuti per terminare il test, ma io avevo le idee chiare. Inserendo il cip un leggero bruciore si dipanò dal collo fino alla spina dorsale, ma io lo ignorai ed entrai nella stanza. Le pareti erano di un bianco lucente quasi fastidioso per gli occhi, un vetro a specchio ricopriva una parete, molto probabilmente dietro vi era un gruppo di dottori che ci esaminava, il resto della stanza era vuoto, al centro esatto un corpo inerme e sofferente si contraeva aperto in due e sanguinante. La prova era iniziata. Un semplice carrello con tutto l’occorrente prendeva posto vicino al lettino. Mi diressi vero il paziente, feci mente locale, chiusi gli occhi, respirai e iniziai ad osservare ogni minimo dettaglio. Torace squarciato, costole rotte, cuore e polmoni colpiti da un oggetto appuntito, profonde ferite da arma da taglio si stagliavano sulla parete liscia del cuore, rimasi due minuti esatti a fissarlo, poi presi i guanti li infilai, iniettai una fiala di morfamina e iniziai a tastare gli altri organi. La milza era intatta così come il pancreas e il fegato. Lo stomaco aveva un foro da arma fa fuoco, questo rendeva inattivi anche l’esofago e l’intestino, ma potevano aspettare.  Il cuore e i polmoni erano la mia priorità. Iniziai a controllare i polmoni; bisognava riallacciare i tessuti pulendo per bene la zona infettata. Le garze mi servirono per fermare l’emorragia e utilizzai le pinze e il filo per cucire le parti tagliate. Riuscii a ricucire le zone piu’ danneggiate in cinque minuti e poi rivolsi la mia piu’ totale attenzione al cuore. Avvolsi le dita intorno a quell’organo, tanto importante quanto meraviglioso, era proprio lui che spigionava la vita e sentirlo battere sotto i palmi era una sensazione impareggiabile. Percorsi con le dita le vene gonfie e aperte e iniziai subito la procedura. Infilai il divaricatore per un’operazione a cuore aperto, era fondamentale controllare che l’interno non fosse stato danneggiato così iniziai a riallacciare i tessuti spezzati e ripulire ogni piccola ferita, poi lo ricucii per bene e guardai la mia opera. La cucitura era impercettibile e sottile, ero riuscita a ripararlo, ma non batteva. Sapevo che ci voleva almeno qualche secondo prima di tornare a battere ma ci stava mettendo piu’ del previsto, pensai di aver fallito, poi con la punta dell’indice lo stuzzicai leggermente e al contatto riprese a pulsare. Una sensazione di sollievo colorò i miei occhi e mi fece sospirare. Lo stomaco perdeva molto sangue, le garze che avevo posto in precedenza a fermare l’emorragia stava cedendo non avrebbero tenuto a lungo. Il paziente sotto l’effetto della morfamina dormiva profondamente, erano passati 7 minuti, avevo 3 minuti a disposizione per ricucire lo stomaco e ridargli funzionalità se volevo ottenere il record dei 10 minuti. Usai la stessa procedura e i punti sembravano mantenere, tutti gli organi rispondevano agli stimoli, bastava solo ricucire il torace aperto nel modo migliore. Le ossa erano molto danneggiate, ma riparlare non fu difficile, al 13 erano riusciti a comporre una sostanza che riusciva a unire i legamenti delle ossa per ridurre i giorni di convalescenza ai pazienti, le costole si ricomposero all’istante. Ripresi poi a sterilizzare ogni punta affilata e iniziai a ricucire. 8 minuti. Due gocce di sudore mi percorsero la fronte, i miei occhi puntati sulla pelle che si ricomponeva al mio tocco. 9 minuti. L’ultimo punto si stava infilando nella carne, il sangue era incrostato sul petto, intorno all’ombelico e sui miei guanti. 10 minuti. Il petto era stato ricucito a dovere e avevo appena staccato le mani dal corpo. Ero riuscita a salvare quell’uomo, che se pur immaginario, adesso stava respirando e il suo alito si stagliava sulle mie mani posizionate a coppa sopra di lui. Scomparve proprio sotto i miei occhi, era una proiezione, ma sembrava davvero reale. Tecnologia di Capitol City, ovviamente. Sorrisi, fiera del mio lavoro e delle mie capacità. Sarei diventata un Cardiochirurgo ?
Octavius mi guardava stupito e compiaciuto. «Hai capito la pecorella! » Pronunciò Adelaide, sorridendomi acidamente. Il mio tempo era comparso sul monitor sopra la porta della stanza e tutti parlavano sottovoce, lanciandomi sguardi d’intesa. «Complimenti Everdeen. Sei stata molto veloce. » Ripresi posto e sentivo ancora gli occhi di tutti puntati addosso. «Ben fatto, ragazzi. I vostri punteggi saranno esposti domani nelle sala comune durante la colazione. Per cui buona fortuna e ultimo consiglio: affidatevi sempre a voi stessi, in qualunque situazione. » Sapevo che il nostro professore, nella sua solita freddezza, ci stava augurando il meglio e con quella frase ci aveva avvertito di non fidarci di nessuno, se non di noi stessi. E io avrei di sicuro custodito per bene il suo consiglio. Stavamo per alzarci tutti, quando mille sirene assordanti suonarono tutte insieme, facendomi sobbalzare. Prendemmo a camminare uno dietro l’altro come nelle normali esercitazioni, ma quelle sirene erano suonate solo nel reparto ospedaliero. Una voce, l’inconfondibile voce dura della Coin, invase le mura. «I seguenti nomi... Ripeto i seguenti nomi dovranno recarsi al corridoio 370, nell’area A, ad attenderli ci saranno 3 hovercraft, una volta in volo vi sarà spiegato tutto. » Nella lista dei nomi compariva anche il mio, mi diressi insieme agli altri verso l’area A, non salutai nemmeno mia madre, non potevo perdere tempo, la situazione sembrava davvero grave. Una volta sull’hovercraft un’altra voce, stavolta registrata e metallica come di un computer, spiegò ad ognuno di noi la situazione sul campo. «Siete diretti alla Villa del Presidente Snow dove centinaia di bambini sono stati colpiti dalle bombe incendiarie di un hovercraft della capitale. Lungo il tavolo che avete di fronte c’è tutto l’occorrente, legate la fascia bianca con la croce rossa sul braccio sinistro e prendete una borsa ciascuno. In essa troverete tutto ciò che vi servirà per aiutare quei bambini. Coraggio Dottori e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore. » L’inserimento di quella frase mi aveva scossa, ma era stata evidentemente registrata in chiave ironica per smorzare l’ansia che si era creata nei nostri corpi.
Mi diressi verso il tavolo, uno zaino arancione con il numero 13 stampato sopra non era ancora stato preso, così me lo misi in spalla e tornai a sedere. Stirai la gonna con le mani, anche se non ce n’era bisogno, avevamo appena attraversato il Distretto 1 e l’attesa ci stava stremando. Quei bambini stavano soffrendo, morendo e noi avremmo potuto salvarli. Ricordai di nuovo le parole della Coin e pensai che per certi versi stava adempiendo alle sue promesse. Sarei stata utile alla causa, adesso mi sentivo un vero Dottore, qualcuno su cui fare affidamento. Ci fecero indossare dei camici bianchi e imbottiti tutti uguali, io strappai la stoffa con la croce dal braccio e la misi sopra il cappotto bianco. «Stiamo per atterrare vicino l’Anfiteatro che si trova di fronte la Villa del Presidente, posizionatevi e attendente istruzioni. »
La pancia dell’hovercraft si aprì e una luce accecante ci colpì facendoci coprire il viso con le braccia. Poi man mano svanì e lo spettacolo che si aprì dinanzi a noi era decisamente straziante. Una moltitudine di piccoli corpicini giaceva a terra in pozze di sangue e neve macchiata di rosso. Erano stati ammassati in un recinto proprio di fronte la casa di Snow. Attraversammo il recinto e ci fiondammo sui bambini. Non capivo il perché di un attacco verso dei bambini indifesi, ma in quel momento la rabbia mi si stava montando addosso e il mio unico scopo era ricucire ogni strato di pelle martoriato e squarciato, e dare sollievo e rifugio a quei bambini. Corsi in direzioni di un bambino che stava piangendo, aveva uno squarcio su una coscia, la maglietta di stoffa era fin troppo leggera, aveva la pelle bluastra e le labbra livide, la neve gli aveva ricoperto i capelli e i vestiti, così mi tolsi di dosso il cappotto e coprii quel corpo tremante, sussurrandogli parole rassicuranti all’orecchio. La mia camicetta era sottile e spuntava dalla gonna, ma non avevo tempo per preoccuparmi di me stessa, mi guardai intorno, con il bambino ancora tra le braccia, fasciai la sua ferita continuando a lanciare sguardi agli altri feriti.  Erano tantissimi, ma le nostre uniformi bianche avevano quasi del tutto ricoperto quel bagno di sangue, oltre ai bambini cercai di studiare il territorio per riuscire a trasportarne qualcuno al sicuro e al caldo. Guardai oltre il recinto, scrutai ogni angolo, poi delle dita infilate nei fili di metallo della recinzione, un nome, il mio, disegnato sulle sue labbra. Il suo, disegnato sulle mie. Un ultimo semplice sospiro, poi diressi lo sguardo su un paracadute argentato coperto dalla neve e posto vicino alle mie scarpette consumate. Stava bruciando, il metallo colorato di rosso e poi lingue di fuoco avvolsero il mio corpo, sentivo la carne sciogliersi sotto la pelle, il dolore penetrare nelle ossa e arrivare a toccarmi l’anima, i miei vestiti persi nel fumo, un cielo grigio, un bambino morto, una ghiandaia in fiamme. Avevo fallito. Era così che finiva.  Ed era proprio quella, la mia fine. La fine di Primrose Everdeen, una primula bianca nata e morta nel cielo della Capitale.


AUTRICE: Sto soffrendo. E bene sì questo è l’ultimo capitolo della mia FF. Credetemi se vi dico che sono riuscita a stento a scrivere queste ultime righe, ho sofferto insieme a lei e non è stato facile, davvero. Spero comunque che vi piaccia il modo in cui l’ho scritto e l’ho impostato, ho pensato di scriverlo lungo perché l’ultimo capitolo merita qualche parola in piu’. Recensite e datemi consigli, ripeto sono aperta ad ogni tipo di critica. In oltre ringrazio chi mi ha seguito dal primo capitolo come  Ronald_wesley mi sei stata d'aiuto e di incoraggiamento, e ti ringrazio infinitamente per tutto, ogni parola, ogni recensione e ogni complimento alla mia storia. Sono anche felice per tutte le visualizzazioni che arrivano anche a 300, a chi ha aggiunto la mia storia tra i preferiti e chi l'ha apprezzata davvero. Ci ho messo tutta me stessa anche perchè amo la saga e ammiro la scrittrice Suzanne Collins, e spero che io possa essere riuscita a renderle omaggio con questa piccolissima storia.
Un saluto
Annalisa.
 

   
 
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