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Autore: ManuFury    17/08/2014    1 recensioni
"Andrà tutto bene, tesoro." Mia madre tendeva a dirmelo spesso... peccato che si sbagliasse.
Pseudo Song - Fic.
Parte Prima ~ "Vivo in una gabbia di palazzi, di quelli senza fiori sui terrazzi."
Parte Seconda ~ "Vivo in una favola tragica, dove Papà è un orco."
Parte Terza ~ "Lividi che lasciano furia e umiliazione, i vicini sentono, ma alzano il volume della televisione."
Parte Quarta ~ "Non mi parlate ancora, non vi ascolto. Altre promesse false, non le sento."
(Terza Classificata al Contest: "Petali di lacrime!" indetto da DarkElf13)
(Vincitrice del Premio Speciale: "Petali di lacrime" per la storia più commovente)

(PRIMA CLASSIFICATA al Contest: "Why are you telling me lies?" indetto da Xxthe recklessxX e giudicato da gufetta1989)
(Il Professor Emil Radislav Timofeev ha vinto l'Oscar come MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA al Contest: "Oscars EFPiani" indetto da Frandra & Co.)
(Quarta Classificata al Contest: "Child!characters Contest" indetto da gnarly)
(Quarta Classificata al Contest: "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WahtHadHappened e vincitrice del Premio Speciale: "Miglior storia Introspettiva")
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fratres in Armis'
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PARTE SECONDA: Vivo in una favola tragica, dove Papà è un orco.
 
 
Mangio lentamente un biscotto mezzo bruciato leggendo la pagina di un giornale dimenticato su una panchina, l’ho trovato mentre facevo una passeggiata al parco e ho deciso di portarlo fino a casa.
Non so leggere benissimo, ma ho le conoscenze di base per sapere comprendere il cirillico, mamma mi ha insegnato qualcosa, ma nemmeno lei ha mai frequentato la scuola per imparare davvero a leggere e scrivere.
In testa alla pagina, in grande e in grassetto c’è scritto: “Necrologi”.
Da piccolo chiesi alla mamma che significava e scoprii che i necrologi servivano per presentare una persona che ormai era volata in cielo, una sorta di lettera di presentazione così che, anche chi non lo conoscesse, potesse capire che genere di uomo o donna fosse. Penso che sia una cosa bella conoscere qualcuno, anche se questa persona non c’è più. È un bel modo per ricordarla.
Ci sono molti anziani su questa pagina e anche un bambino della mia età: “incidente d’auto” recita una parte della sua lettera di presentazione, mi spiace molto che sia volato in cielo, ma magari lassù sarà lo stesso felice, forse è circondato dalle stelle che mi piacciono tanto.
Passo in rassegna le altre persone, masticando lentamente il mio biscotto: il sapore di bruciato si fa sentire e rovina il gusto di cioccolato, mi fa deglutire abbastanza spesso, ma cerco di apprezzare lo stesso, la mamma si è impegnata tanto per sfornare questi biscotti e voglio dimostrarle che li ho apprezzati.
Sento il portone in fondo al cortile aprirsi e poi chiudersi con un tonfo. Dei passi sulla ghiaia poi un’ombra si proietta su di me, facendomi alzare il viso: davanti a me c’è un uomo, abbastanza alto e anche un po’ grasso, ha una pancia abbondante, non come le foto di mamma quando mi aspettava, però è abbastanza grosso anche lui. Indossa vestiti leggeri e ha i capelli unti e scuri, tutti tirati da un lato, sono così lucidi che sembra che un cane gli abbia leccato la testa.
Mi sorride, con un sorriso che mi fa gelare il sangue senza motivo e mi fa stringere le mani attorno ai fogli di giornale appoggiati alle mie ginocchia. C’è qualcosa di brutto anche nel suo sguardo, il modo in cui mi guarda che mi fa paura: ha gli occhi piccoli e lucenti, sembrano quelli di uno scarafaggio, anche se non sono certo che gli scarafaggi abbiano gli occhi visto che fuggono sempre quando accendo la luce della cucina e non si fanno catturare mai.
Mi alzo lentamente, per farlo passare e lui procede senza una parola, ma guardandomi ancora attentamente.
Con i brividi lungo la schiena mi risiedo sulle scale, aprendo di nuovo il giornale e cercando di buttare giù il boccone che mi è rimasto bloccato in gola, me la sento così asciutta che provo il disperato bisogno di bere, ma se qualcuno è entrato in casa, io devo stare assolutamente fuori.
Deglutisco a fatica dopo qualche istante e porto gli occhi alle lettere delle persone morte. Uno in particolare attira la mia attenzione: c’è una foto in bianco e nero di un signore con gli occhiali e la testa ormai quasi calva, sorride, ma il suo sorriso è vuoto. Sotto la fotografia sono riportate poche parole: “Professor Emil Radislav Timofeev, 45 anni. Noto astrologo, ha dedicato la sua vita alle stelle, autore di molti saggi e di libri universitari; è stato stroncando da un infarto nel suo osservatorio alla periferia di Mosca.
Infarto
È una parola nuova. Ho sentito qualche volta anche quella, ma non sono certo di sapere che significhi, dopo chiederò alla mamma; ora mi limito a guardare la foto di quest’uomo che è stato gentile con me, che mi raccontava delle stelle e che non verrà mai più a trovarmi.
Peccato, avrei voluto sentire altre belle storie sulle stelle.
 
~°°~
 
Entro timidamente nella mia camera, guardandomi attorno confuso e un po’ spaventato. Mamma non mi fa mai entrare in casa quando ci sono degli uomini, dice che è meglio per me se sto fuori, perché loro devono parlare di “cose da grandi”.
Eppure, questa volta, è stata lei a chiamarmi, sorridendomi con gli occhi lucidi e quella polverina biancastra attorno alle narici. Mi ha preso per un braccio, invitandomi a entrare in casa, portandomi poi in cucina per mettermi a posto i capelli scompigliati e la maglietta.
“Vai in camera tua, tesoro.” Mi ha detto subito dopo, sorridendomi a tal punto da scoprire tutti i denti, mi ha fatto paura, mamma non aveva mai sorriso in quel modo.
Seguito a breve distanza da lei, mi sono avviato in camera, aprendo la porta socchiusa con una mano: questo è sempre stato un ambiente solido e famigliare per me, riconosco il profilo dei miei pochi mobili scheggiati recuperati in qualche mercatino di oggetti usati, il mio letto con le coperte sfatte, i miei pochi giochi appoggiati lì sopra, le pareti solide e nude. Nonostante tutte queste figure famigliari, questa stanza, adesso, mi trasmette una sorta di disagio; anche perché quando sono uscito nel pomeriggio, le tende erano aperte.
Avanzo di qualche passo e sento un brivido gelido scorrermi lungo la schiena. Con gli occhi frugo nel buio come faccio di solito nel mio baule, alla ricerca di un gioco o di una vecchia fotografia.
E in quel momento lo vedo.
È lo stesso uomo con gli occhi come quelli di uno scarafaggio e il sorriso marcio, non perché abbia i denti guasti, ma semplicemente perché sento che è marcio dentro.
Il cuore si ferma e gli occhi si spalancano alla sua vista: perché è nella mia camera? Cosa vuole? Perché non è sdraiato sul letto o sul divano con mamma?
Provo a indietreggiare di un passo, ma la schiena si appoggia al corpo di mia madre, lei mi blocca, impedendomi ogni possibile fuga.
“Mamma.” La chiamo in un lamento sottile, alzando gli occhi impauriti su di lei.
Mamma mi guarda, con quell’espressione un po’ assente che ha sempre dopo aver preso le sue medicine. Si china verso di me e mi posa le mani sulle spalle, da questa distanza, sento l’odore del suo alito: talmente dolciastro e forte da farmi arricciare il naso.
“Shh. Tesoro, stai tranquillo. Lui è Papà.” Inizia. Con la coda nell’occhio guardo l’uomo: non mi ricordo com’era mio padre, ma non sono certo che questo signore sia lui.
“Ma non mi avevi sempre detto che papà era biondo e con gli occhi azzurri come me?” Questa volta singhiozzo per questa paura forte e potente che sento sprigionarsi nel petto, facendomi battere forte forte il cuore.
Una lacrima mi scende lenta da un occhio. È una lacrima di paura, le so riconoscere perché sono sempre più calde di quelle di tristezza o dolore.
Mamma la pulisce con il pollice, ridacchiando appena.
“No, tesoro, non hai capito. Il nome di questo signore è Papà ed è così che devi chiamarlo, intesi? So perfettamente che il tuo di papà era come te. Con gli occhi azzurri azzurri e questi bei capelli biondi. – Mentre lo dice, me li accarezza, risistemandoli. – Sai, lui mi ha dato tanti soldi per passare qualche ora da solo con te.”
Un sussulto fa tremare il mio petto nello stesso momento in cui un singhiozzo lascia di nuovo le mie labbra. Serro i pugni lungo i fianchi, irrigidendo le spalle e mordendomi poi il labbro inferiore. Più lacrime lasciano i miei occhi lucidi.
“Ma io non voglio… mi fa paura.” Sussurro così piano che stento a sentire le mie stesse parole, adesso il corpo intero trema e il terrore più puro si fa largo da angoli nascosti del mio io. L’indice della mamma si posa delicato sulla mia bocca, a zittirmi dolcemente, esattamente come faceva quando ero più piccolo e facevo domande; anche allora mi metteva un dito sulle labbra e mi diceva: “No, sono cose da grandi queste e tu sei troppo piccolo.
“Shhh… tesoro, non fare così. Mi ha dato davvero tanti tanti tanti soldi, così poi posso comprarti tutto quello che vuoi, no?” Sorride, come se il suo ragionamento fosse inattaccabile.
Scuoto la testa, preferisco mille volte non avere niente che dover vedere un’altra volta quest’uomo che mi spaventa. Provo a superare il corpo della mamma, ma questo mi blocca la strada, appoggia di nuovo le mani sulle mie spalle tremanti e mi fa fare un mezzo giro, mi ritrovo così faccia a faccia con quell’uomo dal sorriso marcio. Tremo a vederlo.
Quando ero piccolo, avevo paura del buio e dell’Uomo Nero, avevo il terrore che potesse emergere dalle tenebre, afferrarmi per un braccio e portarmi chissà dove. Mamma mi aveva consolato dicendomi che l’Uomo Nero non esisteva, che era frutto della mia fantasia.
Mentiva… perché la persona che ho davanti è l’Uomo Nero.
Con una spintarella alla schiena, vengo obbligato a fare un paio di passi avanti, verso Papà.
“Andrà tutto bene, tesoro.” Sento le parole di mamma all’orecchio, poi il suo viso si allontana e la porta si chiude.
Mi volto di scatto e corro alla porta, afferrando la maniglia disperatamente, cercando di abbassarla, ma senza successo. Avverto il rumore che fa la serratura quando scatta e capisco che la porta è stata chiusa a chiave.
Inizio a prenderla a pugni, con il cuore in gola e le lacrime che mi bagnano le guance.
“Mamma! Ti prego, apri! Apri! Non lasciarmi qui! Ti prego!” Imploro contro la porta, la voce rotta dal pianto che si sta facendo sempre più forte e disperato. Martello la porta di pugni, la colpisco persino con un calcio pur di aprirla, ma questa non cede.
È un attimo, sento le mani dell’uomo posarsi sulle mie spalle, sono enormi, tanto che le sue dita mi arrivano al petto, prendendo ad accarezzarlo in movimenti lenti e circolari. Tremo, singhiozzando.
Il suo respiro mi sfiora il collo, le sue labbra un orecchio.
“Andrà tutto bene.” Mi dice.
No, non è vero…
 
 
***
 
HOLISSIMA! ^_^
 
Visto che una volta tanto sono stata puntuale? Sono o non sono brava? XD
Bando alla ciance e passiamo a cose serie… tipo chiedervi se vi è piaciuto questo capitolo, ammetto che qui il rating
Arancione si tinge leggermente di Rosso, ma spero che non me ne vogliate, in fondo non sono scesa nei dettagli, anche se penso che abbiate tutti intuito…
Lo so che è una cosa tragica, ma le “
Tematiche Delicate” non sono messe lì a caso. u_u
Poi… che altro volevo dire?
Beh, avete ascoltato la canzone che ti ho dato nel primo capitolo, vero? è_______é
E poi… niente, quello che ho scritto prima vale anche per questo capitolo, la partecipazione ai Contest e tutto il resto.
Cambia solo la Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 visto che, questa volta, il prompt è 132) Terrore.
Che altro devo dire?
Basta direi… semplicemente mi farebbe piacere sapere che ne pensate e sappiate che siete quasi alla fine, ancora due capitoletti! ;)
A presto e ricordate di donarmi l’8% del vostro tempo, mi fareste felice! XD
Alla prossima,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^

 
  
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