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Autore: Helena Kanbara    21/08/2014    4 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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1.    DON’T YOU WORRY, CHILD

 
There was a time, I used to look into my father’s eyes.
In a happy home I was a queen, I had a golden throne.
I still remember how it all changed.
My father said: “Don’t you worry, don’t you worry, child. The Heaven’s got a plan for you.”


Ha lunghi capelli rosso fuoco e mi sorride. È alta, ma non troppo. Proprio come me. È bellissima, è mia madre. Non l’ho mai vista prima d’ora ma so che è lei, me lo sento. Non ho bisogno di chiederle niente, non ci riesco, anche se le domande sono moltissime. Mi limito a starmene di fronte a lei con un sorriso sulle labbra e il vento che mi scompiglia i capelli rossi. Non sono più dispersa nello spazio, no. L’Arca non è più casa mia. Sono sulla Terra. Siamo qui.
 

La porta in ferro pesante si aprì con un rumore fastidioso e forte che mi fece sobbalzare. Ancora sdraiata sulla brandina nella spoglia cella d’isolamento che mi avevano affibbiato, scattai a sedere con gli occhi sgranati. Poi volsi lo sguardo alla porta. Dalla soglia mi fissavano due guardie, vestite con gli abiti neri tipici della legislazione dell’Arca. Non era mai difficile riconoscerle.
“Prigioniera 312, in piedi”, ordinò una di loro, avanzando nella mia direzione.
Feci subito come richiesto, tenendo a freno la lingua per evitare di sciorinare una delle mie solite esclamazioni da scaricatrice di porto. Quelle due guardie avevano interrotto il mio sogno. Ero con mia madre, almeno per una volta nella mia vita, e quella fantasia m’era stata strappata via ancora. Sospirai, aspettando che continuassero a parlarmi e a spiegarmi cosa stesse succedendo, ma al contrario le guardie si limitarono a porsi di fronte a me, in assoluto silenzio.
“Dammi il tuo braccio destro”, fu l’ennesimo ordine che ricevetti, l’ennesimo ordine al quale ubbidii senza fare storie.
Quando tuo padre è parte integrante del Consiglio dell’Arca – del sistema che da quasi cento anni riesce a tenere in vita gli ultimi stralci dell’umanità – vieni cresciuta con la sola regola di rispondere sempre agli ordini di chi è più importante di te. Non c’è altro nella tua testa, solo il sottomettersi e quell’idea costante di provare a fare di tutto per salvare la razza umana. 
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Allungai il mio braccio destro nella direzione della guardia di colore di fronte a me. Mi mossi lentamente: stavo cercando di guadagnare tempo per capire in che situazione mi trovassi esattamente. Non potevo fare domande, non avrei ottenuto risposte. Dunque avrei conservato il mio silenzio, altra cosa che mio padre mi aveva insegnato fin da quando ero in fasce. Tuttavia, nulla m’impediva di provare a capire cosa diavolo stesse succedendo.
La guardia pescò da una valigetta aperta quello che aveva tutta l’aria di essere un bracciale e lo aprì a metà, sempre in religioso silenzio – anche lui era stato educato dal “sistema”. Fu con orrore che vidi i piccoli aghi collocati all’interno di esso.
“No!”, urlai, indietreggiando il più lontano possibile da quell’aggeggio infernale. “Non mi metterete quell’affare al polso!”.
Lo svantaggio di passare i propri giorni in una cella minuscola è che quando vuoi scappare, non puoi. Nemmeno tutta l’agilità del mondo – e ne avevo da vendere – mi avrebbe salvata quella volta. Letteralmente con le spalle al muro, cercai di regolarizzare il respiro e fulminai la seconda guardia, già intenta a caricare le sue armi. Non c’era bisogno di alterarsi così.
“Prigioniera 312, avanza verso di me”.
Ancora un altro ordine, ancora che rispondevo. Camminai nella direzione della guardia di colore con la stessa felicità di una patibolare e osservai la scena come se non mi riguardasse, totalmente dall’esterno. Quando il braccialetto mi fu appuntato al polso, il prurito fastidioso degli aghi che mi pungevano la pelle fece sì che dovessi mordermi il labbro inferiore per non strillare qualcosa di poco carino.
“Cosa sta succedendo?”, mi azzardai a chiedere, solo quando la guardia si allontanò da me e prese la via della porta.
Quella che era sempre stata in silenzio mise via le armi e prima di uscire, si voltò a guardarmi. Si trattava di un ragazzo estremamente giovane e mi resi conto di non averlo mai visto prima d’allora nell’“esercito”. Una recluta, dunque. Interessante.
“Il Consiglio ha deciso di mandare voi delinquenti sulla terraferma”.
Tutti voi”, puntualizzò la guardia di colore.
Il mio sguardo stupito si spostò dal ragazzo a lei, e mentre cercavo di trovare qualcosa d’intelligente da domandare, i due continuarono a spiegarsi. Avevano entrambi la stessa espressione lievemente soddisfatta sul viso: erano felici. Mandando sulla Terra i cento prigionieri dell’Arca – i delinquenti – loro avrebbero guadagnato ossigeno e vita, mentre noi saremmo andati in contro a morte certa. Ci stavano trattando come carne da macello.
La mossa successiva fu improvvisamente chiara ai miei occhi. Presi quel poco di coraggio che bastava ad agire e poi mi catapultai fuori dalla cella d’isolamento, evitando le guardie con non pochi problemi. Riuscii a guadagnare l’esterno e mi ritrovai nei corridoi affollati degli Spalti del Cielo – i cento venivano portati a forza fuori dalle loro celle, proprio come stava per succedere a me – ma una delle guardie mi afferrò i capelli e il dolore mi spinse ad urlare con tutto il fiato che avevo in gola.
“Lasciatela andare!”.
E poi quella voce, come un fulmine a ciel sereno. Non la sentivo da così tanto tempo che mi stupii di riuscire ancora a riconoscerla senza nemmeno vedere il viso del suo possessore. La guardia di colore ubbidì immediatamente e sciolse le dita dai miei capelli, lasciandomi libera di avanzare. Mio padre era lì. Ma dubitavo fosse per me.
“Papà”, lo salutai, con la voce flebile e gli occhi pieni di lacrime provocate dal dolore.
Fluttuai letteralmente nella sua direzione, ignorando i rumori e le persone attorno a me. Non c’era più niente.
“Cosa sta succedendo?”, chiesi di nuovo, nella speranza che mi rassicurasse, dicendo che andava tutto bene e che quelle due guardie avevano semplicemente deciso di giocarmi un brutto scherzo.
L’Arca di cattive decisioni ne aveva prese, ma quella di sacrificare cento adolescenti per la sopravvivenza del popolo era davvero troppo. Da barbari. E mi rifiutavo di crederci.
“Andrai sulla Terra, Brayden. È il tuo destino”.
“Il mio destino?”, pigolai, incredula, deviando la mano dell’uomo di fronte a me prima che giungesse a chiudersi su una delle mie guance. “Il mio destino? Morire prima della maggiore età e non perché sono stata giustiziata dal Consiglio? Dici sul serio?”.
“No. Essere la prima diciassettenne a toccare la terraferma dopo novantasette anni. Questo è il tuo destino, Brayden”.
“Già, la terraferma. Che è piena di radiazioni dopo l’attacco nucleare di quasi un secolo fa”, borbottai, indurendo il tono di voce e lo sguardo. Strinsi i pugni lungo i fianchi. “Moriremo tutti. Come hai potuto permetterlo? La sopravvivenza del gruppo è davvero più importante di quella della tua unica figlia?”.
La mia voce tremò terribilmente senza che potessi impedirmelo e mi maledii per quell’improvvisa debolezza. Ero ad un passo dal pianto e non ci voleva, non in quel momento e non di fronte a quella persona. Non meritava neanche una delle mie lacrime. Mi stava uccidendo con le sue stesse mani. Sangue del mio sangue.
“Brayden, tu vivrai. Proprio come il resto di noi. Io lo so”, osservò mio padre, aprendosi in un lieve sorriso. “Sei mia figlia, sei una dura. Ce la farai. Farai grandi cose”.
“Avrei preferito essere lanciata nello spazio”, sputai, avanzando quel tanto che bastava per parlargli ad un palmo dal viso. 
Poi indietreggiai e sfiorando il polso stretto nella morsa di quel fastidioso bracciale, voltai le spalle all’uomo che mi aveva cresciuta per ritornare dalle due guardie che mi erano venute a far visita. Si erano riprese dalla colluttazione e mi aspettavano sulla soglia della mia cella, pronte a scortarmi chissà dove. Avanzai nella loro direzione a testa bassa, poi con un cenno le invitai a muoversi. Ero fuori dalla gabbia ma mi sentivo ancora una prigioniera.
Mentre i due uomini mi scortavano, tenendomi intrappolata fra i loro corpi, non mi voltai mai nemmeno una volta a guardare mio padre. Poco importava che quella fosse l’ultima volta che lo vedevo: meglio così.
“Le regole sono cambiate, Brayden! E farai meglio ad abituartici!”, lo sentii però urlarmi dietro, mentre nuove lacrime arrivavano ad inumidirmi gli occhi.
La guardia di colore di fronte a me ridacchiò appena, poi scosse la testa e si voltò brevemente a cercare i miei occhi chiari.
“Faresti meglio a dare ascolto al Consigliere Kane, Prigioniera 312”.
Sì, Marcus Kane era mio padre.  

 

Nella sala di controllo era scoppiato il caos e Callie se ne rese conto immediatamente non appena vi ci mise piede. Sinclair si muoveva nervoso da una postazione di comando all’altra, cercando di rimediare ad un errore che di certo non aveva commesso lui ma per il quale avrebbe pagato con la vita. Sull’Arca funzionava così: non solo veniva punito chi sbagliava, ma anche chi al contrario era innocente fino al midollo. Proprio come quei cento ragazzini che il Consiglio aveva tanto insistito per sacrificare, mascherando l’idea con quella che venissero mandati sulla Terra solo per misurarne la vivibilità. Lo sapevano tutti che non ce l’avrebbero fatta.
“Cosa sta succedendo qui?”, domandò in un sussurro, facendosi vicina a Marcus e Sinclair.
Il Consigliere la zittì con un cenno infastidito della mano mentre l’altro uomo aspettò di aver controllato questo e quell’altro marchingegno prima di risponderle. Callie attese in religioso silenzio, consapevole del fatto che sbraitare contro Kane o Sinclair non avrebbe risolto assolutamente nulla.
“Il sistema sta fallendo”, stabilì infine proprio Sinclair, con un tono di voce grave. “Interamente”.
Callie sondò il suo viso alla ricerca di una qualsiasi ombra di dubbio, e quando non ne trovò alcuna sospirò, portandosi una mano alla fronte. I Cento erano spacciati ancor prima di arrivare sulla Terra. E tra di loro c’era Brayden, niente di meno che la figlia di…
“Cos’altro sappiamo per certo?”.
Marcus parlò nel momento esatto in cui gli occhi scuri di Callie si posarono sulla sua figura.
“Quando abbiamo perso i contatti, la navicella era fuori rotta”.
“E cosa aspetti a ristabilirli?”, sbottò ancora, mentre Sinclair sgranava per un attimo gli occhi, sorpreso.
“Credi che se potessi non l’avrei già fatto?”, domandò poi, poco prima di riprendere a parlare. “Oltre alla telemetria dei bracciali non abbiamo nulla. Né audio né video né collegamenti computer”.
“Dovranno vedersela da soli”, furono le uniche parole che Callie pronunciò, poco prima di iniziare a pregare.

 

Alla fine non sono stata la prima diciassettenne a toccare la terraferma dopo novantasette anni. Octavia Blake mi ha preceduta. Mi dispiace, papà. L’ennesima delusione, eh?
Bellamy l’ha fatta uscire per prima dalla navicella, diceva che fosse giusto darle qualcosa per cui farsi ricordare che non fosse la sua vita nascosta sotto le assi del pavimento e tutti i gossip possibili ed immaginabili al riguardo. Da come se ne va in giro ancheggiando, però, oserei dire che qui sulla Terra – d’ora in poi – la ricorderanno per qualcosa di ancor più diverso.
La Terra è molto meglio di quanto mi aspettassi. A dire il vero è meravigliosa. Di gran lunga migliore della mia immaginazione, cosa che proprio non credevo possibile. E inoltre non sembra essere nociva. Al contrario, l’aria è pulita e profuma di libertà. Per la prima volta da un anno a questa parte non mi sento più una prigioniera dell’Arca. Sono convinta che ognuno dei Cento si senta esattamente come me.
Non so cosa farò quando l’inchiostro di questa penna sarà esaurito. Immagino dovrò pensare a trovare qualcuno con cui parlare e sfogarmi. Credo che evitando rischierei di impazzire. Ma per ora preferisco non pensarci. Le comunicazioni con l’Arca sono saltate più o meno a metà viaggio ma non mi sento affatto sola e abbandonata a me stessa: nessuno qui si sente così. Non mi manca nessuna delle persone che ho lasciato lassù nello spazio, forse solo Callie. È stata così cara ad esaudire il mio ultimo desiderio di portare con me un’agenda e una penna. Quella donna mi ha praticamente vista crescere e senza di lei magari mi sentirò un po’ vuota, ma ripeto che non è questo il momento adatto per pensarci.
Non sono più dispersa nello spazio, no. L’Arca non è più casa mia. Sono sulla Terra. Siamo qui.


 
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Ringraziamenti
Lory's Graphic per il meraviglioso banner.
A Amy Winehouse, per la bellissima 
Love is a losing game che dà il titolo a questa fanfiction che sì, avevo promesso di pubblicare più in là (ma lo sanno tutti che sono una persona cattiva, quindi here we are).
Agli Swedish House Mafia, perché 
Don't you worry, child fa da titolo/canzone citata in questo capitolo. Anche se io preferisco le cover di Avery e Beth.
A quella dolcettina rossa che è Leanne Lapp, la prestavolto di Brayden Kane.

Note

Helena Kanbara è il mio profilo fb e potete sentirvi liberi di aggiungermi se interessate a spoiler, informazioni varie o all'album dei prestavolto che (lo ggggiuro) pubblicherò presto.
Love is a losing game è inoltre il nome della playlist Spotify da me creata per raccogliere tutte le canzoni presenti nella colonna sonora di questa fanfiction.
Mi sembra evidente che la fanfiction sarà una John Murphy/Nuovo Personaggio (perché John Murphy è il mio personaggio preferito e i personaggi preferiti vanno sempre accoppiati con le mie OCs) e, credo si sia capito, Brayden è figlia di Marcus Kane (questo perché adoro anche Marcus Kane e volevo vederlo in veste di padre).
Okay, nient'altro. Grazie a chi leggerà, recensirà (vi pppprego, scrivetemi), seguirà, preferirà, ricorderà, schiferà e chi più ne ha più ne metta.
Aggiornerò non so quando. Bai.
   
 
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