Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Segui la storia  |       
Autore: arya_stranger    29/08/2014    9 recensioni
Quando ti svegli in un luogo assurdo e non ti ricordi più niente la paura ti attanaglia lo stomaco e le viscere. Però un piccolo ricordo affiora lentamente, un viso, quello di un ragazzo. E se poi scoprissi che sei morto e che l’unica soluzione per tornare in vita è superare una missione? E se la missione fosse quella di aiutare delle persone confuse a ritrovare il loro cammino? Accetteresti?
E se poi ti innamorassi? Cosa faresti?
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
(dal testo)
«Non sarei riuscito a descrivere a parole lo spettacolo delle stelle in una notte d’inizio agosto come quella. Forse perché non ce ne sono. Se non l’hai visto non potrai mai capire come è realmente. Sarebbe come spiegarlo ad un cieco. [...]
Da dove stavo, le stelle mi sembravano solo minuscoli puntini brillanti che luccicavano accanto alla luna; ma il realtà sono enormi masse di gas e nemmeno concentrandomi riuscivo ad immaginare la loro grandezza. Ci sono concetti, come l’infinito, che l’uomo non potrà mai capire per quanto si possa sforzare. [...]
Non siamo concepiti per comprendere queste cose. L’uomo è piccolo e non è altro che un acaro di polvere paragonato all'universo.»
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
[FANFICTION REVISIONATA IL 19/08/15]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'The Second Chance'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
 
 

20

L’ultimo bagliore del sole





 
 
«Sei pronto?» mi chiese Ed.
«No» scossi la testa, «come potrei?”
«Gerard» disse comprensivo, «lo so che è dura, ma ce la devi fare.»
Mi abbandonai sul divano e chiusi gli occhi. Era da tutta la mattina che un atroce dolore alla testa mi impediva persino di pensare razionalmente. Ed mi aveva detto che era normale poco prima di un salto nel tempo, ma questo non voleva dire che lo accettassi più volentieri.
Appena mi ero svegliato, avevo visto Frank accanto a me. Le labbra sue erano leggermente socchiuse.
Lo avevo baciato piano, e lui si era voltato bruscamente per continuare a dormire. Così l’avevo abbracciato e lo avevo coperto fino sopra alle spalle per non fargli prendere freddo.
«Hai dormite bene?» gli avevo chiesto.
Alla fine si era voltato verso di me, senza sciogliersi dall’abbraccio e mi aveva baciato.
«Benissimo» aveva sussurrato sorridendo.
Appena eravamo scesi per fare colazione, Ed aveva detto che io e lui saremmo dovuti andare via per il pomeriggio perché aveva saputo che una sua carissima amica aveva partorito e aveva piacere ad andare con me a vedere il bambino.
Avevo subito ringraziato Ed mentalmente perché mi aveva evitato di inventare una scusa a Frank, che in ogni caso non sarebbe risultata credibile.
E in quel momento mi trovavo seduto su quel divano, nel tentativo di trovare il coraggio e la forza di volontà per alzarmi e dire a Ed che finalmente ero pronto.
Non avevo nemmeno salutato Rachel, Jimmy, Victoria e Anthony. Avevo visto per l’ultima volta i primi due la Vigilia e gli altri per Natale. Ma quando li avevo salutati non l’avevo fatto con la consapevolezza che non li avrei più rivisti. Forse, però, alla fine era meglio così: avrei solo rischiato di mettermi a piangere mentre se ne andavano, e non mi sembrava per nulla il caso.
Tuttavia, quando era andato via Frank, non avevo pianto, il dolore e la tristezze erano troppo forti, non riuscivo nemmeno a far uscire una lacrima, e forse avrei voluto, mi sarei sfogato, e avrei buttato fuori tutte le emozioni negative che provavo, ma non c’era nulla da fare.
«Hai tempo solo un’altra ora» mi ripeté Ed per l’ennesima volta. Era da circa due ore che mi faceva il conto alla rovescia al termine del quale, volente o nolente, sarei tornato indietro nel tempo. L’alternativa era che mi decidessi ad andare di mia spontanea volontà, forse sarebbe stato meno traumatizzante.
«Ti devi solo concentrare» mi spiegò. «Concentrati e pensa intensamente e quello che devi fare. Tu devi tornare a poco prima che avvenga la tua morte e evitarla: tutto qui. Ma lo devi volere.»
Sospirai, una rabbia cieca mi stava salendo nel petto. «Tu credi che sia così facile lasciare tutto questo?»  gridai. «Lasciare le persona che ho conosciuto, a cui mi sono affezionato. Lasciare Frank! Tu lo sia che io lo amo, non ce la faccio.»
Ed si sedette accanto a me sul divano e io seppellii il mio viso fra le mani. «Puoi sempre scegliere di fare la Guida.»
«Non voglio fare quello che fai tu!» esclamai convinto. «Non voglio vedere la gente che soffre per tutta la vita.»
«Per più di tutta la vita» precisò Ed.
Lo guardai confuso. «In che senso?»
«Le Guide sono immortali» spiegò.
«Non me l’avevi mai detto.» Non ero molto stupito, da quando mi ero svegliato in quel luogo bianco, niente era in grado di stupirmi, eccetto Frank.
Ed alzò le spalle con noncuranza. «Vuoi che ti ripeta cosa accadrà fra poco?» chiese. E senza aspettare una risposta fece quello che aveva detto. «Sarai trasportato indietro, fino a poco prima la tua morte. Non so esattamente quanto prima, almeno un’ora o due, se non di più. Questo tempo ti servirà essenzialmente per ricordare come sei morto, se non lo sai già, e per riflettere su come evitare di morire. Non sempre le persone che hanno avuto una seconda possibilità lo capiscono, e ricadono nella trappola. Molto spesso sono sottoposti a delle prove, diciamo, e la loro morte è stata causata solo dai salti nel tempo. Sono più pericolosi di quanto immagini. La seconda possibilità viene anche concessa per far capire che le occasioni vanno colte, e anche un secondo in più o in meno ci può cambiare per sempre la vita.»
Sbuffai impaziente, mi aveva ripetuto quelle parole circa cinquanta volte, solo le ultime frasi cambiavano. Non che avessi ascoltato davvero tutte le volte la sua cantilena.
Andai in cucina e presi un bicchiere d’acqua. Lo bevvi in un unico sorso e poi mi sciacquai il viso. Tornai in salotto da Ed.
«Tu cosa farai dopo che sarò andato?» gli chiesi curioso.
Alzò le spalle di nuovo. «Mi sarò assegnato qualcun altro, se c’è un qualcun altro. Altrimenti tornerò alla mia casa finché non riceverò un altro incarico. Non sono molte le seconde occasioni che danno di questi tempi. Mi hanno raccontato che anni fa ero molti di più quelli che venivano portati nel luogo bianco per aiutare le persone e tornare a vivere. Penso per due motivi. Prima di tutto perché la gente moriva più spesso, e poi le persone da aiutare erano di più. Oggi sono tutti troppo superficiali per farsi dare una mano.»
Mi infilai le mani in tasca e presi un respiro. «Sono pronto» annunciai all’improvviso.
«Davvero?» fece Ed stupito. «Bene. Chiudi gli occhi.» Obbedii. «E pensa intensamente solo alla tua missione. Devi arrivare a poco prima la tua morte, questa è l’unica cosa che conta, okay?»
Mi concentrai più che potevo e feci quello che mi aveva detto Ed.
Strinsi gli occhi fino a quando mi fecero male. Non avevo il coraggio di aprirli, ma poi sentii una folata di vento freddo sulla nuca e spalancai gli occhi sconcertato.
Ero in uno stretto vicolo sporco, molto probabilmente della città in cui abitavo. Ero in piedi, con le mani in tasca, proprio come lo ero un secondo prima. Solamente non mi trovavo nella casa di Ed, quella che era diventata la mia, e in quel momento ero in un vicolo pieno di topi e di bidoni della spazzatura. Uscii da lì e mi affacciai per strada. Chissà quale era la via per arrivare a casa mia. Improvvisamente un percorso chiaro e definito mi si aprì nella mente. Inoltre, quando pensai alla parola casa mi si formò nella mente la chiara immagine di un edificio, poi di scale e di una porta che dava su un salotto. Sul divano erano seduti mio fratello, mia mamma e sulla poltrona mia nonna.
Capii che avevo recuperato completamente la memoria della mia vita passata. Ricordi della mia scuola, di vecchi amici, gite, feste di compleanno che mi si accumularono in mente e mi dovetti appoggiare a un muro per non cadere. Le visioni che avevo avuto erano solo un assaggio della mia vita, che non si poteva definire esattamente felice, non avevo nemmeno un padre.
Presi a camminare senza una meta, per quelle strade che adesso mi erano terribilmente familiari. Mi sembrava quasi di camminare in un sogno, anzi, in un incubo.
Sentii il vento gelido che mi penetrava nelle ossa, non era molto freddo a dire la verità, ma io avevo addosso solo la felpa.
Sfilai le mani dalle tasche dei pantaloni e le infilai in quelle della felpa, che erano decisamente più calde e morbide.
Mi passò accanto un ragazzo che appena mi vide mi fece un cenno di saluto con la mano, non ricambiai e continuai a camminare.
Svoltai un angolo e la luce del sole mi colpì gli occhi. Era ancora giorno, e io ero morto solo al tramonto, avevo ancora tempo.
Cominciai a pensare a Frank. In quell’esatto momento si era già dimenticato tutto, non aveva il minimo ricordo di me, ero stato rimosso dalla sua mente per sempre.
Una lacrima mi scese sulla guancia e non l’asciugai, non ce n’era motivo.
Frank, Frank, Frank.
Era l’unico pensiero che riusciva ad attraversarmi in quel momento e calde lacrime cominciarono a scendermi più numerose sul viso. Volevo abbracciarlo, volevo baciarlo, non desideravo altro, ma non potevo.
Cominciai a respirare più affannosamente e l’aria che espellevo dalla bocca si condensava in piccole nuvolette. Mi era sempre piaciuto vedere il vapore che usciva a ogni respiro, spesso mi incantavo nel farlo. Mi rendevo conto che forse era una cosa stupida, ma mi piaceva.
Respirai più forte di proposito, e un’altra nuvola si condensò davanti ai miei occhi, creando volute fino a scomparire. Concentrandomi solo su quello riuscii a smettere di piangere.
Un pensiero mi attraversò come un treno in corsa. Ed aveva detto che nessuno di quelli a cui era stata data una seconda possibilità aveva in qualche modo incontrato di nuovo chi aveva aiutato, ma non pensavo ci fosse una legge che vietasse di rivedere una certa persona. Tuttavia nessuno l’aveva mai fatto e un motivo c’era, l’avevo capito.
Ero terrorizzato all’idea di vedere come era Frank, se il mio aiuto aveva davvero funzionato. Se era ancora amico di Rachel e Jimmy, se con suo padre andava tutto bene. Non avevo ben capito come funzionava la storia dei salti nel tempo, era abbastanza complicata come cosa, ma sapevo che del periodo che avevo passato con Frank, lui aveva dimenticato solo me, quindi queste persona facevano ancora necessariamente parte della sua vita.
Corsi alla stazione e quasi involontariamente controllai le partenze. C’era un treno dopo cinque minuti per andare da Frank, volevo solo vederlo un’ultima volta, poi, quello che sarebbe successo dopo, l’avrei deciso, o forse l’avrebbe deciso il destino.
Non comprai nemmeno un biglietto, che senso avrebbe avuto? Mi diressi al binario e quando il treno arrivò, salii sopra velocemente. Non sapevo esattamente quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare da Frank, ma non m’importava.
Mi sedetti vicino al finestrino e fissai fuori. Appena lasciata la stazione, una periferia degradata si stagliò davanti ai miei occhi.
Pensai che dopotutto avevo passato i tre mesi più belli della mia vita, e anche se dopo sarebbe successo il peggio, li avrei sempre portati con me, sempre, non avrei avuto il modo o la possibilità di dimenticare.
Il treno si fermò con uno stridio dopo circa un’ora e io scesi di corsa dal vagone, facendo quasi cadere una signora che mi intralciava il passaggio.
Quando eravamo andati dal padre di Frank, dalla stazione a casa sua in macchina ci avevamo impiegato circa cinque minuti. Io non avevo altra scelta se non quella di andare a piedi.
Cominciai a camminare, non conoscevo bene la strada. Per fortuna non era molto trafficata e c’erano dei cartelli.
Scalciai un sassolino e lo feci rotolare in mezzo alla strada. Alzai lo sguardo al cielo, il sole stava calando, ma mancava almeno un’ora e mezzo, se non di più, al tramonto.
Cominciai a intravedere le case che mi erano diventate molto familiari in quei mesi. La casetta blu con il giardino enorme, quella gialla con sempre almeno tre macchine parcheggiate davanti.
Continuai a camminare, sempre con le mani nelle tasche della felpa. Passai davanti alla casa dove avevo vissuto tutto quel tempo e abbassai subito lo sguardo con un groppo alla gola. Ancora cinque minuti e sarei arrivato a casa di Frank.
Furono i cinque minuti più lunghi della mia vita, e in quel tempo cercai di trattenere le lacrime.
Non avevo intenzione di parlargli, volevo solo vederlo, per l’ultima volta, anche da lontano, non importava avvicinarmi troppo, conoscevo ogni dettaglio del suo viso a memoria, ogni sua espressione.
La sua casa mi si stagliò davanti come un miraggio, per un momento pensai di stare sognando.
La macchina di Victoria non c’era, come sempre, le luci erano tutte spente, evidentemente nemmeno Frank era in casa. Una cosa mi colpì: Sam stava correndo in giardino. Mi avvicinai al piccolo cancelletto e Sam cominciò a scodinzolare dietro a questo. Provai a vedere se riuscivo a far passare la mano attraverso le sbarre, e fortunatamente ce la feci. Accarezzai la testa del piccolo cagnolino, e mi chiesi se lui si ricordasse di me. Non ero così convinto che per lui fosse come per tutte le persona, secondo me poteva riconoscermi, e le sue feste non facevano altro che confermarlo. E poi è risaputo che i cani hanno un sesto senso.
A malincuore dovetti salutarlo per andare a cercare Frank anche se non sapevo esattamente dove potevo trovarlo.
Decisi di cominciare dalla piazza della biblioteca.
Mi incamminai verso la destinazione prefissata e quando vi giunsi cominciai a guardarmi intorno. Feci un giro in biblioteca per vedere se non fosse per caso lì, a studiare, ma non c’era. Allora cominciai a girovagare per la piazza, entrando in qualche negozio o bar dove avrei potuto trovarlo.
Non era nel negozio di dischi e nemmeno al bar in cui una volta avevamo preso la cioccolata. Perlustrai tutta la piazzo ma non lo vidi.
Così decisi di incamminarmi verso il parco, o era lì, o non avevo idea di dove potesse essere.
Durante il breve tragitto sentii l’ansia che mi montava in petto, la paura stava salendo, e non c’era nemmeno un vero motivo.
Appena arrivai al parco notai che il sole era ancora in una parte del cielo che mi avrebbe concesso abbastanza tempo, così cominciai a camminare per il parco.
Ad un certo punto sentii qualcuno che parlava. Era una voce femminile, ma non riuscivo a capire se mi fosse familiare o no. Seguii il suono e dopo poco anche una voce maschile mi soggiunse alle orecchie: Frank. L’avevo trovato, e la ragazza era Rachel, sicuramente c’era anche Jimmy.
Mi avvicinai ancora e li vidi su una panchina che parlavano allegramente. Non riuscivo bene a capire il discorso, riconoscevo solo qualche parola. Mi nascosi dietro un albero, non volevo che mi vedessero.
Frank rideva, era felice, davvero tanto felice, ce l’avevo fatta e capii una cosa che non avrei mai voluto capire.
Gli ultimi sprazzi di tristezza che aveva avuto erano causa mia, io lo facevo soffrire. L’avevo aiutato, era vero, ma l’avevo anche fatto stare male. Lui non se lo meritava. Forse sarebbe stato meglio non averlo mai conosciuto.
La consapevolezza di ciò mi assalì e ricominciai a piangere silenziosamente, per non farmi sentire da loro tre.
Sentivo che il cuore mi sarebbe potuto scoppiare da un momento all’altro e in quel momento avevo solo voglia di farla finita.
Sarei dovuto essere felice per Frank, e da una parte lo ero, ma ero anche un fottuto egoista che non si faceva una ragione del fatto che fosse finita. Questa storia poteva essere semplificata con poco: era come se in un certo senso io e Frank ci fossimo lasciati, non stavamo più insieme. Se avessi affrontato questo fatto con quello spirito forse non avrei avuto una reazione così negativa. Ma non ci eravamo semplicemente lasciati, ero stato rimosso dalla sua mente nello stesso modo in cui si può gettare un vecchio oggetto.
Stavo male, psicologicamente e fisicamente. Non riuscivo a reggermi in piedi e mi faceva male lo stomaco.
Li guardai per un ultima volta e mi voltai.
Il parco non era molto grande e decisi di andarmene da lì, avrebbero potuto vedermi, e non volevo. Intravidi un piccolo viottolo che scendeva e lo imboccai, volevo stare da solo, per sempre. La piccola strada era quasi immersa nel bosco, era sterrata, forse mi piacevano le strade sterrate perché erano come me: spoglie.
Continuai a camminare, ma forse erano i piedi che mi mandavano avanti, non ero io che decidevo questo. Sentii il gorgoglio dell’acque, forse c’era un ruscello. Decisi di seguire il rumore, era abbastanza piacevole, ma in un certo senso mi metteva uno strano senso d’inquietudine, sembrava quasi un orologio che stava segnando i minuti mancanti alla mia fine. Perché quella era davvero la fine. Avevo perso Frank, per sempre.
Inciampai su un ramo che sporgeva dal terreno, ma non caddi, riuscii ad aggrapparmi ad un albero e riacquistai l’equilibrio.
Sentii il canto degli uccelli e mi fermai un attimo a pensare.
Non volevo più stare con la mia famiglia. Non vivevo con loro da molto tempo e mi sentivo come se non fossero più davvero la mia famiglia. Per troppo il mio punto di riferimento era stato Ed, era stato un po’ come un padre, insomma, litigavamo, mi sfogavo con lui, aveva sempre un consiglio pronto. Dopotutto anche Victoria era stata importante, nonostante fosse una mamma distratta e poco attenta alla famiglia, era una brava donna. Con Anthony avevo passato davvero poco tempo, ma speravo che sarebbe potuto essere un padre per Frank. Poi c’era stato Ray, non riuscivo ancora a perdonarmi per la sua morte, mi sentivo terribilmente colpevole, ero stato io la causa di tutto, potevano dirmi quello che volevano, ma la colpa rimaneva la mia. Era stato davvero un buon amico, era sempre disposto a fare due chiacchiere con me e si era lasciato aiutare e, come ho sempre pensato, non è una cosa anche fanno in molti.
Rachel e Jimmy mi avevano fatto capire che gli amici non ti giudicano mai, ti accettano per quello che sei, altrimenti non sono tali. Avevamo passato molto tempo insieme e avevo scoperto molti lati di loro. Jimmy, nonostante sembrasse molto introverso, si apriva con chi si sentiva al sicuro e ti faceva sempre sentire e casa ovunque tu fossi. Rachel, invece, era una ragazza gentilissima, sempre disponibile, sensibile, sapeva sempre come farmi ridere anche se ero triste. Non mi sarei mai scordato quella volta in cui, dopo che avevo litigato con Frank, mi aveva regalato tantissimo tempo. Si era presa cura di me, mi aveva parlato e mi aveva fatto comprendere la verità: Frank mi avrebbe amato incondizionatamente, e il fatto che avessimo litigato non significava nulla. Tutti litigano.
Infine c’era lui: Frank. Non sapevo cosa pensare. Avevo fatto talmente tanti pensieri su di lui che in quel momento sembrarono esaurirsi. Solo due parole mi si stagliarono nella mente, ed erano rivolte a lui: ti amo.
Lui mi aveva amato, e io lo amavo, e questo non sarebbe mai cambiato.
Mi riscossi dai miei pensieri quando intravvidi un ponte malandato: il ponte.
Lo raggiunsi e passai una mano sul legno vecchio. Scavalcai il parapetto e mi sedetti con le gambe ciondoloni verso il vuoto. C’era solo acqua. Dondolai le gambe come fanno i bambini mentre giocano, ma quello non ero un gioco, era la cruda e vera realtà.
Mi voltai, c’era in tramonto, era bellissimo. Le tonalità dell’arancio e dell’azzurro si confondevano creando giochi di colore fra le foglie e sull’acqua.
Guardai di sotto e poi di nuovo il sole, mancava poco e sarebbe scomparso dietro l’orizzonte. Pensai che non c’era cosa più bella di quello spettacolo. Un senso di pace e tranquillità mi attraversò, e pensai che forse tutti si sentono così poco prima di morire.
Un formicolio alla schiena mi spinse a guardare un ultima volta il sole. Alla fine tramontò e vidi il suo ultimo bagliore. Era quello il segnale, lo sapevo, feci per lasciarmi andare, quando sentii una mano che mi teneva.
«Cosa stai facendo?» ansimava, aveva corso.
Vi voltai di scatto e quasi pesi l’equilibrio. Mi stabilizzai e tornai al sicuro, in piedi sul ponte.
Davanti a me c’era Frank. Era come l’ultima volta che l’avevo visto. Bellissimo, con i capelli scuri spettinati sulla fronte, la pelle chiara. Pensai che sarei potuto vivere per sempre solo guardandolo.
Non riuscii a rispondere, ero incantato. Mi guardò con aria interrogativa.
«Io...» cominciai.
Lui mi sorrise e fece un gesto di noncuranza con la mano. «Non mi devi spiegazioni» disse. «Ma non penso che buttarsi da un ponte sia la soluzione migliore »
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Ti ho visto al parco» spiegò, «mi sembravi distrutto e sei corso verso qua, e ho pensavo che avessi bisogno di una mano.»
Non riuscii a trattenere una lacrima e questa mi scese per il viso. Ma non era una lacrima di tristezza, era una lacrima di gioia. Frank era lì con me, e anche se non sapeva nemmeno il mio nome, non mi importava, gliel’avrei detto.
Lui se ne accorse e mi posò una mano sulla spalla. «Ehi» fece comprensivo, «non ti devi preoccupare, è tutto okay.»
Mi asciugai la lacrima e gli sorrisi. Non riuscii a trattenermi e lo abbracciai. Per un momento rimase immobile, poi ricambiò l’abbraccio. Ripresi a piangere e a singhiozzare, non trattenni nemmeno una lacrima, non avrebbe avuto senso, lui era lì con me e con lui potevo esprimere tutto quello che provavo.
Mi sfogai, e quando ebbi finito sciolsi l’abbraccio e notai che era un po’ impacciato.
«È tutto okay adesso?» mi domandò premuroso.
Io annuii tirando su col naso. Gli sorrisi di nuovo per dargli la conferma che quello che avevo detto era vero.
«Vuoi che ti accompagni a casa?» propose. «Altrimenti io e un paio amici andiamo a mangiare una pizza, magari ti va di venire con noi.»
Sorrisi per l’ennesima volta. «Grazie, ma preferisco rimanere un po’ da solo.»
«Solo se mi prometti che non tenterai di buttarti giù da un palazzo» disse con leggerezza.
«Lo prometto» dissi ridendo.
«Allora posso andare?» chiese conferma. «Sei sicuro?»
«Davvero» annuii, «sto molto meglio. Grazie mille.»
«Bene» sorrise. «Allora io vado.»
«Mi dispiace per la pizza» mi rammaricai. «Sarà per un'altra volta.»
«Certo» affermò, «io abito in questa città, se anche tu sei di qui ci vedremo sicuramente in giro.»
Annuii e lo salutai con una mano. Poi lui si girò e fece la strada all’indietro.
Che cosa avevo fatto? L’avevo appena mandato via, aveva sprecato un’occasione. Le lacrime stavano per riempirmi di nuovo gli occhi, quando sentii il rumore di foglie calpestate. Qualcuno stava arrivando.
Si stava facendo sempre più buio, ma riconobbi subito la figura che mi stava venendo incontro.
Frank si fermò a pochi passi da me, era tornato indietro.
Mi guardò con gli occhi sbarrati. «Gee…» mormorò con le lacrime agli occhi.
Mi saltò addosso e mi abbracciò, scoppiando a piangere. «Ti amo.»
La prima volta l’ultimo raggio del sole, prima che questo calasse del tutto, era stato la causa della mia morte, ma era stato anche il motivo per cui avevo incontrato Frank e me ne ero innamorato.
La seconda volta mi aveva quasi ucciso, come la prima, ma mi aveva anche salvato vita, Frank mi aveva salvato la vita. Promisi a me stesso che il giorno dopo avrei guardato il tramonto con Frank, e avrei ringraziato quell’ultimo bellissimo bagliore del sole.

 



Fine

 
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: arya_stranger