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Autore: FrancyBorsari99    02/09/2014    4 recensioni
Mi chiamo Harriett Danion.
Mi sono data io questo nome, dal momento che nessuno si è mai preso il disturbo di sceglierne uno per me.
Non ho veri e propri genitori, ma non sono orfana.
Sono nata con la consapevolezza delle mie origini, e non sono mai stata bambina.
In termini umani, avrei sedici o diciassette anni. In termini... Beh... Miei, ho tre anni, quindi sono piuttosto giovane, ma il vantaggio di sbucare dalla terra come da sabbie mobili al contrario è che sai già tutto quello che c'è da sapere.
Immagino vi stiate chiedendo quale orribile mostro possa nascere già sedicenne di tutto punto, senza genitori, senza un nome, senza un'infanzia come base per il futuro.
È complicato.
Io sono figlia dell'Odio.
Più precisamente, di quello di Gea.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Immaginatevi l'esplosione di una supernova, come quando Era venne liberata dalla prigione di mia madre. Immaginate una potenza dieci volte maggiore e richiudetela in un nucleo radioattivo, poi liberatelo sotto la terra, dove resti dormiente per quegli attimi in cui l'odio inneschi uno scoppio enorme. È così che sono nata io.

 

Il dolore incredibile, allucinante, ogni percezione acuta, il fruscio delle foglie, l'odore della terra, lo sciabordio d'acqua, qualcosa di morbido sotto di me, la consapevolezza di esserci, il corpo che preme per vivere, per muoversi, la sensazione della propria tangibilità, la bellezza del mondo, l'emozione della prima occhiata su ciò che mi circonda, il dolore ancora, che si espande nel corpo come un sisma, le ossa tremano, il cuore batte, pulsa sotto alle costole, perché sa di dover mantenere tutto in vita, e galoppa per la paura di quell'attimo, quella frazione di secondo in cui la paura mi assale mista alla tetra sorpresa di essere viva. È come se lo attendessi da sempre, eppure non mi aspettavo che accadesse adesso.

Ma io ci sono.

Qui.

E ora.

Io ci sono, esisto, vivo, respiro, guardo, osservo penso nonostante nella mia testa ci sia solo un'accozzaglia di turbinanti domande che trovano risposta da sole ma che continuano a volare e a scontrarsi, in esplosioni eteree dietro ai miei occhi, e vedo i lampi, vedo le nuvole, sento i tuoni che mi scuotono, me e la terra, sento il vento che sibila forte sulle mie orecchie, e la pioggia mi pizzica la faccia, ma è quel genere di contatto che mi provoca piacere, il piacere che mi rende presente e vera.

Ci sono, e sto per cominciare a scrivere la mia storia.

Ci sono, e capisco che è solo grazie all'odio che ci sono, e improvvisamente non voglio più esserci.

Ma se gli dei mi hanno voluta, allora non c'è modo di andarsene.

Muovo dei passi, incerti ma via via più sicuri e meno barcollanti, mi viene da pensare che gli dei non hanno ancora tutto questo potere su di me, sono grandi, e potenti, e sono ovunque, ma io sono pur sempre un Titano.

Il titano dell'odio e della terra.

 

La mia nascita è sempre stato un sogno piuttosto vivido e ricorrente, ma non mi ha mai fatto né caldo né freddo.

Quello dell'apocalisse, invece, mi lascia un tantino perplessa, ma meno ci penso meglio è, quindi evito di fare qualsiasi riferimento con quelle immagini di distruzione, o potrei impazzire.

Sono in questa stanza accogliente, al secondo piano della Casa Grande azzurra che troneggia sulle cabine dei semidei, quando mi sveglio completamente.

Ho le lenzuola strette fra le dita, le palpebre mi fanno male, eppure non ho avuto nessun incubo.

Cerco di ignorare l'ennesima stranezza e mi alzo, scostando con un calcio le coperte. Il sole non è ancora del tutto sorto, ma il panorama dell'alba sulla baia, con il disco rosso che compare laddove l'orizzonte si perde in un blu infinito ed uniforme, è uno spettacolo che mi infonde una certa calma.

Ieri pomeriggio Argo, il custode che per dettagli che non rivelo verrebbe minimizzato se soprannominato quattrocchi, mi ha accompagna a casa, dove la mia famiglia affidataria si stava chiedendo dove fossi, per prendere vestiti e cose che mi sarebbero servite durante la mia permanenza al campo.

Robbie ha aperto la porta appena due secondi dopo che il campanello ha fatto din-don, e quando ha visto che ero io e respiravo ancora, mi si è lanciata fra le braccia, affondando il faccino nei miei vestiti all'altezza dell'ombelico.

– Harrieeeeett! – ha pigolato, la voce attutita dal cotone che sigillava le labbra rosee.

Ricordate quando ho parlato del fatto che io non fossi capace di amare o farmi piacere gli esseri umani? Okay, se si tratta di quello scricciolo, posso fare un'eccezione.

Voglio dire, come si può non amare un'adorabile bambina di cinque anni, le iridi grandi e nere colme di spensieratezza ed ingenuità, i capelli crespi raccolti in una coda alta che oltre all'elastico arancione scoppiano in un voluminoso cespuglio, la pelle color cioccolata morbida come petali di rosa.

Gli occhioni da cerbiatto si sono alzati su di me e mi hanno supplicata di non andarmene più, ma non ho potuto cedere, non quella volta.

Ho preso da parte papà e gli ho parlato onestamente delle mie origini, gli ho raccontato tutto, ogni parola veritiera fino all'ultima lettera.

Mi ha creduto, mi ha abbracciata, mi ha baciata sulla fronte, mi ha detto che sarei mancata a tutti, poi mi ha aiutato a preparare le mie cose.

Mamma ha assistito in silenzio, ma anche lei è stata d'accordo e, dopo un paio di lacrime scese silenziosamente a creare dischetti scuri sulla moquette, ha preso da parte Robbie e le ha raccontato una qualche bugia. Robbie ha pianto, gridato, scalciato, urlato, ha sbattuto i piedini, ma alla fine ha ceduto. Hanno ceduto tutti tranne me qui. Ma io sono figlia dell'odio, ho una specie di vantaggio.

Mentre trascinavo giù un baule che avrebbe potuto contenere quella specie di pulcino almeno sei volte, ho incrociato Joseph sul pianerottolo della sua stanza. Ha la mia età -16-, e anche lui è stato adottato, ma da molto più tempo di me, quasi tredici anni.

Ha gli occhi azzurri, i capelli castano scuro, un'espressione morta in viso.

Non ha mai detto di volermi bene, e l'ho sempre considerato un fratello nonostante la mia difficoltà ad amare le persone perchè è stato quello che più di tutti ha saputo dimostrarmelo senza bisogno di parole.

Mi è saltato al collo e mi ha stretto, affogando un paio di lacrime nel cappuccio della mia felpa, poi si stacca e ha fatto cenno di aspettarmi.

Si è chiuso la porta dietro, ha trafficato per un po' con fili e cose pesanti, poi è tornato con una valigetta argentata lunga e bassa.

– Non te lo dimenticare. –

E improvvisamente l'ho sentito. È stato forte, e mi ha riempito, per la prima volta in vita mia, l'ho percepito per davvero, non è stato un semplice sprazzo di sentimentalismo fraterno, quello era amore.

Ho adagiato la valigietta accanto a me sul pavimento, l'ho abbraccio io.

Gli ho lasciato un bacio sulla guancia e gli ho promesso che lo avrei cercato un giorno o l'altro.

fatta la stessa cosa con Robbie, rendendo tutto più piccolo per lei, sono fuori, quell'ondata di amore per la mia famiglia rimasta bloccata all'interno dalla porta chiusa.

 

È tutto tornato a posto, dentro di me. Non sento più nulla. Cioè, tutte le solite emozioni sì, ma non un affetto di tale potenza.

Ho vuotato il baule, ma la valigetta è ancora intatta, sotto al letto disfatto.

In questa stanza c'è un armadio, una scrivania e un letto, ma è carina, e lo spazio per il contenuto dell'involucro rigido argentato c'è. Apro le linguette di plastica e scosto il coperchio.

Eccola, i tasti bianchi puliti con cura maniacale che riconduco immediatamente a Joseph, i tasti neri che cangiano aggressivi contro quel candore accecante, i bottoni allineati in un reticolo di pallini e scritte.

Appoggio la tastiera sul tavolo, trovo una presa di corrente (una presa di corrente in un campo greco? Che sia alimentata a magia...) e aspetto che le spie rosse e verdi si accendono.

Faccio scorrere le dita sulla superficie liscia, ma non riesco a suonare. Mi fa venire un po' di nostalgia.

La spengo ed esco.

Diamine, ho bisogno di distrarmi.

 

Mi avvio per la colazione, dove Chirone mi dice che posso sedermi al tavolo dodici insieme a un satiro ed il signor D.

il ragazzo-capra, che si presenta come Grover Underwood masticando una lattina di diet coke, si lancia in un'arguta conversazione con Dioniso sulla crescita misteriosa ed improvvisa delle fragole, e non posso fare a meno di sogghignare.

Dopo aver bruciato qualcosa in onore di Ermes, senza il quale non sarei mai finita in questo posto che mi piace sempre di più, faccio per tornare al mio posto, ma qualcosa mi tira un lembo della maglietta.

Mi volto ed incrocio gli occhi caleidoscopici di Piper.

– Ehi, come va? – mi sembra un po' strana tutta questa benevolenza dal momento che sono... bè, sono la figlia di quella che ha tentato di ammazzare lei e più o meno il resto del mondo, ma sorrido lo stesso.

– Non c'è male.

– Che te ne pare del campo?

– Mi sto abituando.

Silenzio per un attimo.

– Dopo se vuoi possiamo andare agli allenamenti, così ti fai qualche amico e cominci subito a maneggiare le armi.

Ci penso su un attimo.

– Non c'è problema.

Piper sta per ribattere, ma una ragazza dai capelli neri si mette in mezzo. Devo ammettere che è di una bellezza mozzafiato, ma questo non le da il diritto di travolgermi come un bulldozer per sedersi, rovesciandomi il succo d'arancia addosso, quando c'è all'incirca un intero padiglione in cui transitare.

– Ehi, fai attenzione! – dico, un po' barcollante. I miei piedi fanno immediatamente presa sulla terra.

Lei si volta e mi guarda stranita.

– Eri in mezzo!

– Potevi passare dietro.

Lei fa una faccia di finto rammarico, finché gli occhi non si spostano sulla macchia arancione.

– Non sarei così dispiaciuta per la maglietta, era davvero orribile.

Già provo l'impulso di farla affondare nelle sabbie mobili, ma mi trattengo. Non era così brutta in fondo, era solo una vecchia t-shirt dell'hard rock cafè...

– Sei ancora qui? Levati dai piedi!

– Andiamo, Drew, datti una calmata. – ribatte un altro figlio di Afrodite, alzando sconsolatamente gli occhi al cielo.

Vorrei ringraziarlo per il tentativo di farla tacere, ma mi vedo costretta a fare ancora i conti con lei.

– Smamma!

Inarco un sopracciglio. – Perchè me lo chiedi tu?

– No, perché te lo ordino io.

– Tu non sei il mio capo.

Faccio dietro front e me ne vado, tentando di dominare la rabbia.

– Sì, esatto, scappa pure! – sarà figlia della dea dell'amore, ma io non ci trovo proprio nulla di amorevole nelle sue parole. Piuttosto, è attaccabrighe come una figlia di Ares.

– E comprati una maglietta nuova, disagiata! – sento centinaia di occhi puntati su di me, i loro sguardi si incrociano attraverso il silenzio che è sceso sul padiglione.

Oh, no... la mano formicola forte, punge, pizzica, me la sfrego sui jeans ma non basta, e allora la assecondo, tanto finire nei guai è il mio passatempo preferito e comunque non sarebbe una novità.

Apro il palmo di scatto, una zolla di terra fangosa emerge dal suolo ruotando su sé sessa, ormai oggetto dello stupore sbigottito del pubblico. Alzo il bracci e quella lo segue, poi faccio un movimento rapido e preciso, e resta visibile soltanto una macchia scura che attraversa l'aria prima di investire Drew in piena faccia.

Il colpo la fa ribaltare all'indietro tra le risate isteriche dei ragazzi.

Chirone mi fissa all'inizio deluso, ma non può fare a meno di sorridere allo spettacolo della figlia di Afrodite ridotta a una pozzanghera ambulante.

Faccio per uscire dal padiglione, ma mi volto un secondo. Resterei qui a godermi la scena, ma il buonumore mi ha fatto venir voglia d suonare qualcosa.

Cinque minuti e sono al centro dell'omega capeggiata dalla Casa Grande, i miei piedi sono gi unici che fanno rumore sollevando la polvere del selciato, finché un pesante rumore di cardini e una porta che si apre di botto mi fa voltare verso la casa nove.

Ne esce di corsa un ragazzo sui diciassette o diciotto anni, anche se non è particolarmente alto, i capelli ricci tirati indietro da un paio di occhialoni da saldatore e un viso da folletto padrone della classica espressione da monello.

Sta per attraversare lo spiazzo, la cintura degli attrezzi che tintinna in vita, quando mi vede e si blocca improvvisamente.

Sembra pietrificato sul posto, un'espressione incredula in viso, che lentamente muta in una rabbia feroce e un martello enorme gli compare fra le mani.

Si avventa su di me urlando, rotea il manico dell'attrezzo e lo fa calare sulla mia testa, ma la terra mi assorbisce in un lampo e riemergo a pochi passi dietro di lui.

All'improvviso, le sue mani esplodono in fiamme enormi e prorompenti, che mi avvolgono cancellando parte del mondo intorno a me.

A quel punto faccio l'unica cosa che mi è possibile. Scompaio sotto la crosta terrestre, mi muovo silenziosa come un'ombra e gli compaio alle spalle. Dalle mie mani scaturiscono altre sfere di terra che si stringono intorno alle dita, smorzando le fiamme e trascinandolo in basso.

Noto che sono accorse alcune persone, tra cui Piper e Perseus Jackson, che mi fissano straniti, terrorizzati, arrabbiati.

– Leo, che sta succedendo? – grida la ragazza, accasciandosi di fianco a lui.

Lentamente, quando vedo che si è calmato, libero le sue mani, la terra scivola via, ammucchiandosi ai suoi piedi.

La rabbia gli saetta negli occhi, mi fissa per un secondo, poi si avventa nuovamente su di me.

– Tu dovresti essere morta!! è quello che meriti, maledetta, hai ammazzato mia madre! – urla, furioso.

All'improvviso comprendo.

Gli afferro i polsi, che mi scuotono le spalle, e lo scosto delicatamente.

– Leo Valdez, lei è morta. È morta davvero. Io non sono Gea. –

dico, pacata.

La sua espressione si rilassa,respira un po' affannosamente, ma è già meglio di prima.

– davvero?

– sì.

Lui si passa una mano fra i capelli.

– Cavoli. Sono mortificato, mi dispiace. – fa, distogliendo lo sguardo.

– Mi sembrava strano di non aver ancora cominciato con un'idiozia, stamattina. Mi sono anche provato la febbre! – tenta di sdrammatizzare, sorridente.

Lo assecondo, mi dispiace che mi abbia scambiata per mamma, ma non lo posso biasimare.

– No, non sono Gea, sono sua figlia, anche se date le circostanza avrei preferito di no.

Sbarra gli occhi, incredulo. Emette un piccolo sbuffo dalla bocca, le dita che giocherellano distrattamente con un bottone della camicia.

– Ah... ecco, io non intendevo esattamen.... – alzo una mano, e questo basta a zittirlo.

– Hai perfettamente ragione. Se ne avessi avuto la possibilità, l'avrei ammazzata io.

Decisamente, non sono più dell'umore per un pezzo di Einaudi.

  
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