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Autore: Dubh    05/09/2014    2 recensioni
Rose si trasferisce in un paesino, a parer suo desolato, con i genitori; e parliamoci chiaro, abbandonare la sua grande metropoli e frequentare il suo ultimo anno di liceo in un posto in cui non conosce nessuno, non è facile. Ma sembra capirlo solo lei e la sua insegnate di latino, Carol.
Alla ricerca di amici-senza avere i risultati sperati- inizia ad avvicinarsi ad un ragazzo che divide con lei il banco scolastico, Richard. Bello da mozzare il fiato, misterioso e tremendamente scontroso.
Però a legarli c'è qualcosa, un filo sottile che lega il presente e il passato, un qualcosa che possa anche influenzare il futuro. Una lettera destinata a loro, con una foto. Una foto che ritrae i due molto piccoli insieme.
Dal capitolo:
-Non capisci nulla. Perchè sei insignificante. Tu esisti non vivi.- Rose inebetita al suono di quelle parole, si lascia prendere da un moto di rabbia e scarica tutta la sua frustazione:
-Ti sbagli. Non sai nemmeno di quello di cui stai parlando, Richard. Questo- allarga le braccia e indica le mura attorno a lei-è un puzzle, un puzzle molto più grande e oscuro di quanto tu possa credere.-
Genere: Erotico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Salve a tutti! Ringrazio chi segue, recensisce, preferisce e ricorda la storia!
Senza di voi non andrei avanti con la stessa tenacia che ho ora.
Vi lascio al capitolo, buona lettura :D

 
Primo giorno di scuola...
Scesa dalla macchina del padre, Rose raggiunge il portone scolastico, varcandolo per la prima volta. I suoi pensieri sono ingarbugliati fra loro: non sa su che cosa preoccuparsi di più.
-Signorina? Lei è Rose Stephan?-
Annuisce, facendo cadere le braccia lungo il fianco.
-La sua sezione è la F, infondo a sinistra, non si può sbagliare. È un piacere averla qui! È da molto che non arriva gente nuova…-.
Rose annuisce sorridendo e guarda per l’ultima volta la donna dai capelli corti e ramati, accennando ad avvicinarsi all’aula.
Aprendo la porta di un resistente legno, d’inverno fa entrare meno freddo, osserva, a primo impatto, la donna seduta su un sediolina nera; molto diversa da quella che aveva la sua insegnante precedente.
La donna ha i capelli biondi raccolti in uno chignon perfetto, e con un cenno della mano esile, e tempestata di anelli, la invita a sedersi in seconda fila, in un banco vuoto.
Nonostante abbia pensato per tutto il tempo che questo paesino sarebbe stato molto più umile della precedente casa, ora si rammarica a constatare di aver fatto l’ennesimo sbaglio di valutazione.
Ciò che piccolo non è più umile di ciò che è più grande.
Si mette accanto al muro, poco più dietro di lei c’è la finestra, e lo osserva; è di un azzurro perfetto, le pennellate sono uniformi senza pecche; mentre quello della sua camera è tutto il contrario, è lacerato, poco curato.
Si domanda se dietro a tutta questa perfezione ci sia in realtà finzione; succede lo stesso con la gente, più è perfetta, più è improbabile che sia vera.
Essere autentici, veri, non è altro che essere come il muro della sua camera: usato, logoro dal tempo.
Chi vive è vero.
-Rose, giusto?- la donna la sorprende con la testa altrove. Rose è spaventata; ha intercettato tutti i suoi pensieri? Sa cosa pensa di queste mura?
-Sì…- titubante esce il portacolori nero; l’ha voluto apposta, le ricorda la sua precedente vacanza.
-Da dove si è trasferita?- La professoressa si alza dalla propria sedia, e si incammina verso la lavagna, guarda tutti gli studenti con fare altezzoso e severo, intimando silenzio.
-Texas- La voce di Rose sembra risuonare come un’eco, l’eco di un posto troppo silenzioso e impaurito.
-Grande cambio! La aiuterò ad integrarsi, semmai avrà problemi. Purtroppo siamo dispari, ma le prometto che a rotazione ogni suo compagno prenderà il suo posto-
-Nessun problema-
-Io sono la professoressa di matematica, Isabelle Detroit- L’insegnante fa un cenno con la mano, come a voler cancellare dei ricordi legati al proprio nome; poi la posa dentro un vasetto nero, e la ritira fuori con un gesso bianco in mano.
-La ringrazio per il caloroso benvenuto…- Rose si volta e mette a fuoco qualche volto, ma non ci fa molto caso; preferisce concentrarsi sulla lezione che è appena iniziata.
 
 
Richard è appostato nell’ultimo banco, dove può tranquillamente tenere sotto controllo la situazione; come già era stato accennato, c’è una nuova arrivata, ma non ci fa molto caso. Il suo obiettivo è un altro.
Tornato a casa apre piano la porta, si è dimenticato di chiuderla a chiave; in questo periodo gli capita spesso. Ha la testa altrove.
-Mamma, sono tornato!-
Una donna sui trentacinque anni fa capolino dalla cucina, il suo occhio sinistro è gonfio e arrossato.
-Oh… Ricky!-
Si avvicina piano al figlio e lo stringe forte, lasciando cadere via il suo dolore, come l’acqua che scivola su tutto.
Emily sa che le persone che ritieni importanti ti distruggono con la stessa facilità di come si piega un pezzetto di carta; il suo Richard è la sua unica felicità, l’unico che non la faccia sentire un pezzo di carta piegato.
-Mamma…- abbassa la voce, e poi riprende -possiamo andarcene, quando vuoi-.
Emily si passa una mano sui capelli e scuote la testa, lascia il figlio e ritorna in cucina, come se quelle parole non fossero mai state dette.
 
Rose pensa che la gente non può capirla semplicemente perché lei non comprende la gente. È tutto una formula scientifica: azione, reazione.
 Ecco la vita racchiusa in due semplici parole: azione, reazione.
Non riesce però a chiarire un suo dubbio su questa formula: se ad ogni azione c’è una reazione, esse dovrebbero solo essere le conseguenze delle prime; allora perché molta gente che semina odio nel mondo non ha le conseguenze, le reazioni, appropriate?
Se ciò è così, dove sarebbe la giustizia divina e non?
Rose riesce a trovare solo una risposta in merito: la giustizia divina, e non divina, non esiste; questo però comporterebbe ad adempiere una “giustizia da fare con le proprie mani”, riflette non d’accordo; ciò sarebbe ingiusto, nessuno può farsi giustizia da solo, verrebbe fuori solo il caos.
Ci deve però, pur essere una soluzione; ogni formula scientifica ne possiede una.
E la vita è una formula.
O forse no?
Il filo dei pensieri di Rose viene interrotto dalla madre, che annuncia canticchiando che il pranzo è pronto; Natasha cerca sempre di essere presente, di cucinare, di lavare, di ascoltare la figlia, questo perché si sente in colpa di aver perso la crescita della propria figlia, in quei famosi primi cinque anni.
Non l’ha vista mentre muoveva i suoi primi passi e non ha sentito la sua prima parola che, con rammarico, non è stata “mamma”.
Ora la famiglia Stephan si trova riunita attorno al tavolo con le posate davanti, il tovagliolo a destra e i piatti messi in pila al centro del tavolo, in attesa della prima parola, di continuare un discorso, aprirne di nuovi, tutto pur di far scomparire quell’aria gelida che li ha congelati lì sul posto, come a volte capita; non sempre sono solari e pieni di amore come vogliono dimostrare e dicono a tutti, anche loro, nel profondo, hanno segreti e pensieri nascosti che minano spesso quella serenità che pensano di aver appreso, dopo tanta ambizione.
-Rose… com’è andato il tuo primo giorno di scuola?- la madre con la propria voce riempie la sala, facendo allontanare un po’ quel gelo che aveva preso il sopravvento.
A quella domanda Rose scuote la testa incerta; non è stato un pessimo giorno, nessuno le ha puntato un dito contro o cose simili, è stata semplicemente ignorata.
Sebbene nel profondo si era aspettata qualcosa di più caloroso non si lamentava, nella parte più remota di sé le faceva piacere, se nessuno notava Rose, Rose, di conseguenza, non doveva legarsi a nessuno, svelare dei suoi piccoli segreti, tralasciando quelli più oscuri, e sarebbe finalmente stata solo con se stessa.
-Bene, mi piacciono i miei compagni- una mezza verità fa capolino dalla sua bocca leggermente socchiusa.
Appoggia fluidamente lo sguardo sul padre, che non ha aperto bocca, sembra assente, chiuso nei meandri di un nuovo posto inesplorato dove Rose non avrebbe mai avuto un posto, nonostante lei  facesse di tutto per ottenerlo.
 
Richard non fa altro che rigirarsi sul letto, il sonno non sembra voler contribuire, mentre sente i singhiozzi isolati della madre, nella camera accanto. Vorrebbe così tanto cambiare le cose, tirarla fuori di lì, riempire una valigia e scappare insieme, ma lei non prende nemmeno in considerazione quest’ipotesi, che invece a Richard sembra molto concreta e reale.
Degli scarponi, solo Mark li porta al mondo ormai, fanno singhiozzare anche il pavimento, non solo la madre; il suono di quel sbattere frenetico riporta a galla dei ricordi lontani, quando la sua fine era già destinata, e invece arrivò Emily a cambiarla.
Cosa può darle in cambio se non una vita migliore che lei stessa si rifiuta di avere?
-Mark, smettila, c’è Richard di là- Emily supplica, sperando che il suo piccolo Ricky stesse dormendo, magari sognando qualcosa di bello.
-Dorme.- Mark alza una mano, pronta a colpire il viso della donna, ma un rumore nella camera accanto lo fa fermare sorpreso.
Richard apre la porta e riporta l’attenzione dei due.
-Mamma, ho deciso ce ne andiamo-
Emily apre la bocca per replicare che va tutto bene, ma Mark la lascia andare e si avvicina a Richard, che è diventato più alto di lui sebbene sia meno piazzato.
-Cosa intendi fare, ah?- la minaccia suona nella stanza come un campanello di allarme per Emily, che conosce già quel tono.
-È tardi, andiamo a dormire- La donna fa un passo in avanti, pronta a staccarli, a proteggere il figlio.
-No, Emily… vediamo che ha da dire il bambino, come lo chiami tu- prende un lembo della maglietta di Richard, pronto a fargli vedere chi comanda in quelle quattro mura.
Richard si sente impotente, preso dalla paura che lo acceca; il coraggio di prima svanisce sostituito dalla vergogna di non riuscire a proteggere la madre e se stesso da un uomo che in realtà è sangue del suo sangue. Lui l’ha portato qui, in mezzo a loro. Non potrà mai perdonarselo; lui è un perdente.
Si abbandona alla paura e mormora:
-Io…-  Ridendo Mark lo lascia stare:
 –Vai a dormire, fratellino-.

 
  
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