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Autore: Dicembre    27/09/2008    2 recensioni
Inghilterra, 1347.
Di ritorno dalla battaglia di Crécy, un gruppo di sette mercenari è costretto a chiedere ospitalità ed aiuto a Lord Thurlow, noto per le sue abilità mediche. Qui si conoscono il Nero, capo dei mercenari, e Lord Aaron. Gravati da un passato che vorrebbero diverso, i due uomini s'avvicinano l'uno all'altro senza esserne consapevoli. Ne nasce un amore disperato che però non può sbocciare, nonostante Maria sia dalla loro parte. Un tradimento e una conseguente maledizione li poterà lontani, ma loro si ricorreranno nel tempo, fino ad approdare ai giorni nostri, dove però la maledizione non è ancora stata sconfitta. E' Lucifero infatti, a garantirne la validità, bramoso di avere nel suo regno l'anima di Aaron, un prescelto di Dio. Ma nulla avrebbe avuto inizio se non fosse esistita la gelosia di un mortale. E nulla avrebbe fine se la Madonna e Lucifero fossero davvero così diversi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Diciassette - Pioggia

 

 

La pioggia iniziò a scendere scrosciante a mezzogiorno. Sembrava annacquare il paesaggio al di là della finestra, era bello osservare le gocce che cadevano e s’infrangevano sul davanzale.

Tic Tic Tic… Monotone, languide e sfuggevoli.

Nero le guardava, incantato dal loro continuo cadere. Immobile.

Avrebbe voluto che la pioggia continuasse all’infinito, così da poter guardarla e non dover pensare ad altro, ad un tormento interiore a cui non voleva, né tentava, di dare un nome.

La sera prima, quella pelle sul suo viso aveva indicato strade che non avrebbe dovuto percorrere.

Anche l’istinto, suo più fedele alleato, lo ammoniva di non pensare.

La risposta sarebbe stata davvero a portata di mano, ma solo il pensiero veniva considerato peccato.

Un peccato che avrebbe attenuato anche quella splendida aura dorata che circondava la persona che cercava di allontanare dalla sua mente.

Temeva di dirne il nome, quasi questo fosse il logico passaggio alla consapevolezza.

La sua volontà di appannare la propria coscienza e d’impedire alla mente di capire era forte quanto l’ansia che stava provando. Un’insoddisfazione e una preoccupazione per cui non trovava rimedio.

In fondo, da qualche parte nel suo animo, sotto una coltre di morale, convinzione e rigore, percepiva un punta di felicità intensa. Uno sfolgorio.

Quel bagliore veniva alimentato dal ricordo della sua mano in quella di Aaron, dalle dita che non s’erano slacciate neanche quando lui aveva osato accarezzare con la guancia quella pelle così morbida…

Ma se si concentrava su quel pensiero e quella gioia, il senso di colpa si faceva troppo forte perché lui potesse domarlo.

E di nuovo l’angoscia prendeva il sopravvento.

Se avesse avuto modo di zittire la sua testa in quel momento, l’avrebbe fatto. La fatica che faceva nell’allontanare il pensiero di Aaron, con tutto quello che questo comportava, lo stava sfibrando. Avrebbe forse gridato, ma Nero non poteva gridare lì, dove sarebbe stato sentito. Si sedette e si massaggiò le tempie, nel tentativo di attutire il dolore.

Perché? Perché, si chiese, quel peso doveva gravare su di lui?

L’avrebbe definito un sentimento di colpa, ma in realtà era più forte, o forse un sentimento d’impotenza, ma era più profondo.

Di solito Nero era in grado di domare i suoi tormenti interiori e di custodirli, senza lasciare che prendessero il sopravvento, come invece facevano quella mattina.

Ma era a Dio che doveva rendere conto, lì davanti alla pioggia, e Dio è un giudice severo.

Il loro respiro, quella notte, era ciò che di più armonico Nero avesse mai sentito, ora gli era rimasto un affanno dissonante e solitario.

 

Nero sentì Chiaro chiamarlo, dall’altra parte della porta.

“Posso entrare?”

Conosceva troppo bene Chiaro per non sapere che questi sarebbe comunque entrato, indipendentemente dalla sua risposta.

Inspirò e cercò di calmarsi.

Vide la manopola della porta girare.

Fermò il leggero tremore delle sue mani.

La porta si aprì leggermente

Guardò verso la porta, con occhi immobili.

Chiaro entrò nella stanza

“Scusami, volevo parlarti”
Nero sorrise “Non iniziare una frase scusandoti. Dimmi pure, non ero particolarmente indaffarato”.

“Io…” iniziò Chiaro “penso davvero di avere esagerato in questi giorni.” si strinse nella spalle “E’ che faccio fatica. Faccio fatica a starti dietro, a rincorrerti…”
Nero fece per interromperlo, ma Chiaro alzò la mano per fermarlo: “ti prego,” gli disse con voce rotta “fammi finire…”

Riprese sospirando “Lo sai che io ho lasciato casa per venire con te. Sei scomparso e io non ho fatto altro che cercarti, chiedere di te, seguire le tue tracce per ritrovarti solo molto tempo dopo. E non volevo andarmene di casa” disse tristemente “ma non ho avuto scelta.”
Nero lo guardò, ma come Chiaro aveva chiesto, lo lasciò continuare

“Non avevo scelta. Rimanere o andare avrebbero comunque comportato un’enorme sofferenza per me. Purtroppo si trattava di perdere qualcosa in entrambi i casi…” lasciò scivolare la frase non riuscendo a trattenere un sospiro. Con quelle parole nell’aria si portò vicino alla finestra e, anche lui, prese a guardare fuori.

“Purtroppo tu avevi preso una decisione che non sarebbe mai stata adeguata rispetto al mio modo d’essere. Ho scelto. Ho scelto di venire con te, ma la parte che ho perso mi manca. E mi chiedo perché a te non manchi. A volte mi sembra di capire…” si girò di scatto a guardare Nero poco dietro di lui “ma altre volte mi chiedo perché tu sia così ostinato… Così… insofferente nei confronti di quello che, comunque, rimane il posto dove sei cresciuto.”

“Hai ragione, Chiaro, sono ostinato” bisbigliò Nero e Chiaro rise, senza provare nessuna gioia.

“Ostinato e non torni. E allora so che quel periodo, il più bello della mia vita, non tornerà mai. Non lo riavrò più. E quindi mi viene da domandarmi: perché mi sta facendo questo?”

Lo fissò negli occhi

“Perché mi stai facendo questo?” gli chiese direttamente

“Saresti uno sciocco se davvero pensassi lo faccia a te, Chiaro. E so che non sei uno sciocco.”
”Ma allora perché non vieni con me? Per un po’, per qualche settimana, per qualche giorno… Perché non torni?”

Nero scosse la testa “Che senso avrebbe tornare per poco tempo? Dimmelo Chiaro, perché io non ne vedo alcuno”

“Avrebbe senso per me!” sbottò, ma poi si pentì di quello scatto d’ira e si calmò “Avrebbe senso per me” ripeté con più calma “per rivivere qualche giorno come quelli passati quando eravamo bambini”
”E sperare che quei tempi torneranno?”

Chiaro annuì,  e con voce rotta aggiunse “Io ci spero tutt’ora”

“Questo perché t’illudi che si possa tornare indietro Chiaro, ma non si può. Si può solo andare avanti. E quelli che sono dei ricordi non potranno mai essere rivissuti”

Chiaro sapeva benissimo l’esito di quella discussione, e sentì le lacrime arrivare pericolosamente agli occhi. Se li coprì con due dita ed impedì che cadessero.

“Sei un egoista…” Sussurrò con voce rotta “Io ti chiedo solo di fare qualcosa per me. Io ho lasciato alle mie spalle cosa avevo di più prezioso per venire con te…”

Nero si morse le labbra. “Ma non l’hai fatto per me. Lo so io e lo sai tu Chiaro”. Così avrebbe ferito terribilmente il compagno, ma ormai sapeva anche che era inutile cercare di edulcorare l’evidenza. Sperava che Chiaro, prima o poi, avrebbe capito e che smettesse di vivere nel passato.

Un lacrima ribelle uscì comunque dagli occhi di Chiaro, nonostante il suo tentativo di fermarla.

“Io l’ho fatto anche per te… Non sai l’angoscia in cui m’hai gettato la mattina in cui ho visto che non eri più in camera tua e che il tuo cavallo non era più nella stalla!” di nuovo gridò, disperato, e di nuovo se ne pentì subito.

“Hai ragione, sono un viziato e un aristocratico”disse sconfitto “ma questo è quello che sono, Nero. Non posso cambiarmi. Posso fingere, ma non posso diventare un altro”.

Nero sgranò gli occhi e provò una fitta di dolore al pensiero di cosa quelle parole significavano per lui. Ma non ebbe tempo di rifletterci, perché Chiaro continuò “Io …” ma non riuscì a dare voce a quel sentimento di frustrazione che da troppo tempo albergavano nel suo animo. Non lì, non in quel momento.

“Io non so più che cosa fare” disse infine.

“Non c’è nulla da fare, Chiaro, non c’è soluzione. Mi dispiace, ma io non tornerò mai lì, a casa tua” Nero rispose gelido “E vorrei che tu capissi, vorrei che tu accettassi la situazione per quella che è… Vorrei tu la smettessi di angustiarti. Non è colpa tua Chiaro” cercò di addolcire i toni “non è colpa tua…”

Chiaro trattenne a stento un’altra lacrima ribelle: “Lo so” bisbigliò.

Nero ebbe l’istinto di mettergli una mano sulla spalla per consolarlo, ma si frenò. Chiaro avrebbe interpretato quel gesto in maniera sbagliata, l’avrebbe visto con speranza.

Qualcuno bussò alla porta.

Quando Lord Aaron entrò nella stanza, Chiaro ebbe un sussulto. Imbarazzato si asciugò le guance “Scusatemi, ma prendo congedo” disse frettolosamente “Mi sento poco bene…” e così fuggì dalla stanza senza guardare né Nero né Aaron che lo ascoltarono stupiti.

“Non fateci caso, qualche ora e si sentirà meglio”

“Vorrebbe che tornaste a casa vostra?”
Nero s’irrigidì, ma poi annuì “Purtroppo siamo troppo diversi…”

Scosse la testa leggermente: “Eravate venuto qui per dirmi qualcosa?”

“Sì” disse Aaron “Volevo solo comunicarvi che domani mia sorella e i miei cugini arriveranno al castello e…” esitò prima di proseguire, guardando Nero in quegli occhi troppo intensi per sostenerne lo sguardo. Essere lì, solo con lui gli faceva battere il cuore così forte da fargli perdere la sua capacità d’eloquio. La sua mente farfugliò e lui non fu in grado di proseguire. Arrossì.

Nero gli porse la mano e solo lo stupore per quel gesto diede il coraggio ad Aaron di sollevare il viso per capire cosa il suo cavaliere intendesse fare.

“Volevo vedervi anch’io” questi gli sussurrò

Aaron accarezzò il palmo del cavaliere delicatamente. Quasi avesse timore che l’altro lo ritraesse. Lambì i solchi del palmo e poi, d’improvviso, intrecciò le proprie dita con quelle di Nero. E le strinse.

Tenersi per mano non era peccato, vero?

Stringersi le dita e concedersi il conforto di quel contatto non era vietato, no?

Era così perfetto che non poteva esserlo. Rimasero in silenzio, stretti in quel doloroso contatto e lasciarono che il rumore della pioggia riempisse la stanza.

 

 

“Non ci posso credere Cencio, te ne sei andato a metà della visita e non sei più tornato!”

Gridò Luppolo spalancando la porta della propria stanza “Si può sapere dove diavolo sei stato?”

Ma il ragazzo non rispose, Luppolo lo vedeva con le spalle chine sulla scrivania e una candela accesa, ma immobile.

“Hai perso la lingua?”

Cencio farfugliò qualcosa. Spazientito Luppolo andò verso di lui e lo scosse. Quasi fosse privo di vita, Cencio si lasciò scuotere fino a che la testa non gli ricadde all’indietro e un sorriso ebete gli comparve sulle labbra

“Ti ho spaventato eh?” biascicò

“Sei ubriaco marcio”

Un pochino, sì

“Non parlare italiano, sai che faccio fatica a capirti! Se poi farfugli suoni a casaccio, non ho speranze”

“E’ buoniii..iiisima questa birra” sorrise di nuovo Cencio, che faticava a tenere la testa dritta sul collo

“Perché non sei tornato?”

“Mi sono perso” spiegò “Perso già” rise stolidamente “e sono venuto a cercarti, ma era tutto buuuio” e la sua testa ricadde all’indietro, e Luppolo gliel’afferrò

“Devi metterti a letto e dormire. Domani mattina ne riparliamo”
”Ma non torniamo a casa?”

“Piove troppo per viaggiare di notte”

“Ah ecco cos’era” borbottò confuso con un dito sollevato “La pioggia… E io che pensavo fossimo attaccati zac zac zac da mille frecce…” Tentò di alzarsi, ma la gamba non gli resse e cadde in avanti

“Cencio, ti metto a letto”
Lo trascinò fino al suo letto e lo appoggiò.
Cencio era così fiducioso che gli strinse le braccia con forza. Gli occhi confusi e liquidi guardavano il compagno in adorazione.

“Ehi Luppo…” bisbigliò Cencio “grazie” e cercò in qualche modo di sedersi sul letto. Poi scoppiò a ridere e Luppolo lo guardò stupito

“Mi sa che mi devi aiutare a togliere la casacca... C’è birra ovunque”
L’amico non capì subito, ma poi, toccando la maglia, si accorse che era zuppa.

“Ti sei versato la birra addosso? Sei davvero un moccioso!”

“Non chiamarmi così” fece finta di arrabbiarsi, ma poi rise di nuovo “Prova tu a bere dalla botte!” e così dicendo si lasciò cadere sul letto, completamente alla mercé di Luppolo

“Hai bevuto la botte intera?” Luppolo non poteva credere alle sue orecchie “saranno almeno due galloni!”

Cencio farfugliò sogghignando “Era così buona… Quel maialino arrosto che m’ha dato il cuoco, poi, m’ha fatto venire una sete…”

Luppolo roteò gli occhi e iniziò a slacciare la camicia di Cencio che sembrava continuare a cadere in uno stato di dormiveglia, per poi risvegliarsi di nuovo.

Sul petto aveva una lunga cicatrice, era stato colpito da un francese a Crècy. Luppolo gli aveva detto di essere prudente… Ma non era proprio nella natura di Cencio esserlo, e lo scozzese sorrise, accarezzando quel taglio e ricordandosi la paura che aveva provato quando l’aveva visto sanguinare copiosamente.

La pelle sotto le sue dita sembrava quella di un bambino, glabra e morbida.

Luppolo si morse le labbra e sfilò la casacca dell’amico.

“Ora dormi, vado a prenderti un po’ d’acqua, ti verrà sete”. Ma Cencio non lo fece allontanare.

Stai qui

“Non parlarmi in italiano” disse, fingendo di non aver capito. Aveva paura a rimanere lì, con quella pelle delicata sotto le dita e Cencio arreso alle sue mani.

“Rimani qui, c’è un temporale…”

“Non avrai certo paura di un po’ di pioggia, Cencio” ma la sua voce non risultò convincente.

Cenciò scoppiò a ridere di nuovo e faticosamente si ritirò su dal letto.

“Perché ti fai pregare?” farfugliò “Rimani qui, tanto il letto è grande e io …” ma poi ricadde a faccia in giù sul letto e Luppolo non capì come avesse concluso la frase.

“E tu cosa?”

Cencio girò la testa “Prometto che per un giorno intero farò quello che mi chiederai…davvero”.
”Certo, non dureresti cinque minuti”
”Davvero, credimi.” Ma rise di nuovo e non fu molto convincente. Poi cercò di mettersi a sedere mentre Luppolo cercò di fuggire. No, così davvero era troppo, in quella sera buia, con quell’odore di birra che riempiva la stanza e l’alito di Cencio, non poteva rimanergli a fianco.

Ma Cencio non è uno che ceda facilmente. Goffamente si trascinò sul letto e si buttò addosso a Luppolo.

“Preso” disse circondandogli la vita con le braccia.

Luppolo sbiancò e rimase immobile, incapace di fare un qualunque gesto. Anche Cencio rimase immobile per un po’, sembrò addormentato.

Luppolo cercò di liberarsi da quell’abbraccio, quando il ragazzo parlò di nuovo.

“Qualunque cosa, davvero” disse stringendosi di più.

Aveva i capelli scompigliati e sulle labbra il suo sorriso furbo di quando sa che sta facendo qualcosa che non dovrebbe. Ma gli occhi sono chiusi, appesantiti da troppo alcol e dalla confusione portata dalla birra.

Luppolo sospirò, passando le mani sulla schiena nuda del ragazzo prima e intrecciando le dita ai suoi capelli poi.

Quant’era bello!

Non poteva rimanere, doveva scappare, quella notte e i suoi suoni ovattati si stavano impadronendo della sua volontà, doveva scappare!

Ma la notte, si sa, cela gli uomini e ne svela i sogni. Neanche Luppolo riuscì ad opporsi alla sua legge.

“Allora baciami…” sussurrò d’improvviso, senza capire esattamente neanche lui che cosa avesse appena chiesto. Sentì la pelle del viso bruciare, ma ormai aveva compiuto il passo e non poteva più tornare indietro.

Cencio non sembrò reagire immediatamente, ma dopo un attimo si sollevò dalla sua posizione e guardò Luppolo con occhi confusi.

“Per favore, baciami” lui non riusciva a muoversi, non voleva altro che essere baciato. Ma Luppolo sapeva di aver chiesto troppo. In un istante si chiese se Cencio avesse capito, se il giorno dopo avrebbe ricordato, si chiese come fuggire, si chiese come zittire il suo respiro, si chiese come  rimangiarsi quello che aveva detto. Fu un istante però, perché subito dopo Cencio obbedì.

Luppolo fu colto di sorpresa: nonostante l’avesse chiesto, nonostante non volesse altro in quel momento, rimase immobile.

La prima cosa che riuscì a percepire fu il gusto amaro delle birra sulle sue labbra e il respiro caldo sulla sua pelle.

Ma rimase immobile.

Cencio gli prese le guance con le mani per attirarlo meglio a sé e per fargli inclinare leggermene la testa da un lato. Catturò di nuovo la bocca dell’amico succhiandogli il labbro superiore e poi passando la lingua  su quello inferiore con un movimento lento e seducente. Luppolo gemette: aveva le mani che gli tremavano e gli occhi ancora fissi  su quel bellissimo viso e i suoi capelli mossi.

E poi non rispose più di sé.

Afferrò Cencio alla nuca e premette le sue labbra di più, molto di più, e impose a Cencio di aprire la bocca. Approfondì il bacio e sentì Cencio gemere e stringersi a lui ancora di più.

Pensò di perdere il senno.

Lo strinse a sé, con le dita  piene dei suoi capelli e la mente piena di lui.

Non osava staccarsi,  quando tentava di baciargli il bordo delle labbra e la pelle della guancia, che era  – cielo! – così perfetta, qualcosa gli imponeva di tornare su quella bocca, in quella bocca e di non ascoltare altro che il respiro affannoso dell’altro.

E poi Cencio si fermò. Mollemente cadde su un lato, ancora fra le braccia di Luppolo, ed iniziò a russare.

Lo scozzese strinse le labbra, ancora affannato e guardò quella figura addormentata di fianco a lui. E forse l’amò ancora di più. Quello era tipico del suo Cencio: lasciarlo sconvolto ed ansimante, completamente in balia di una persona che, placidamente, russava e che non si sarebbe ricordata nulla il giorno dopo.

Non gli fece male quel bacio strappato e così barbaramente interrotto, ma Luppolo non seppe dire perché una lacrima, comunque, gli rigò il viso. Si sdraiò di fianco all’amico e lo strinse, ma prese sonno solo molte ore dopo, quando finalmente mise da parte i suoi pensieri e lasciò che quel respiro regolare vicino a lui lo facesse addormentare.

 

 

Stateira: Luppolo e Cencio si sono fatti letteralmente largo a gomitate! Quando stavo scrivendo Liberaci dal Male, si sono semplicemente imposti XD E alla fine ho ceduto, perchè anche a me piacciono molto. E dici bene, sono più concreti di Aaron e Nero che sono circondati da un'aura di intoccabilità e di estrema fragilità... E questo capitolo, in fondo, glielo dovevo proprio. Baci

  
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