E' nata di notte, da una fruttifera collaborazione tra me e la fantastica Ida (che non ringrazierò mai abbastanza perché mi ha regalato 5 ore di risate soffocate e lacrime agli occhi), quasi per caso tra un delirio Johnlock e l'altro (sappiate che questa non è la cosa più assurda che abbiamo partorito). Ma non voglio tediarvi ulteriormente con futili dettagli, per cui vi auguro una buona lettura e spero che la consideriate per quello che è: una storia di mobili che, di storie, ne hanno da raccontare!
Si
potrebbe pensare che l’appartamento
221B Baker Street si trovi nel silenzio più assoluto quando
i suoi inquilini
sono assenti. A dir la verità, all’orecchio poco
allenato, la situazione appare
proprio così: un insieme piuttosto disordinato di mobili che
passano le
giornate nella loro immobilità. Se qualcuno,
però, prestasse una maggiore
attenzione ai dettagli – che sono fondamentali in casi come
questi - , si
renderebbe conto dei vari scricchiolii che provengono da questo o
quell’oggetto.
Per
esempio il vecchio divano marrone,
poiché anziano, ogni tanto rilascia un suono gutturale a
lamentarsi delle sue
molle un po’ arrugginite, della pelle non proprio
più giovane ed elastica.
Anche se vecchio, tuttavia, rimane comunque un bel divano comodo e,
come tutti
i divani, porta con sé tantissimi ricordi. Ogni oggetto ha
con sé un bagaglio
possibilmente immenso di memorie, belle o brutte che siano. E gli
oggetti del
221B di Baker Street non fanno eccezione a questa regola.
Prendiamo,
per esempio, la poltroncina
rossa, un po’ usurata che si trova davanti al caminetto.
Anche lei ha una marea
di ricordi e alcuni li ha a cuore più degli altri.
Si
ricordava benissimo, tanto per citarne
uno, del giorno in cui il futuro coinquilino di Sherlock Holmes aveva
fatto il
suo ingresso nell’appartamento per la prima volta. Aveva
pensato che fosse un
avvenimento quantomeno insolito, dato che, il suo proprietario, che si
fregiava
del titolo di sociopatico, non aveva mai espresso un grande interesse
per il
genere umano. Anzi. E lei, nel suo tessuto decisamente ruvido e
rovinato, aveva
sempre ritenuto che non ci sarebbe mai stata una persona in grado di
far
cambiare idea a quell’uomo dai ricci neri e gli occhi di
ghiaccio. Ma con John
Watson aveva subito capito che sarebbe stato diverso.
Già
dall’istante in cui l’uomo, un
medico, si era adagiato sul suo morbido cuscino imbottito di
gommapiuma, ne
aveva sentito il calore che emanava e aveva provato un brivido.
Generalmente,
si sa, le poltroncine non rabbrividiscono, ma quel contatto, quel corpo
caldo
appoggiato al suo schienale, le dita che scorrevano sul bracciolo
sinistro l’avevano
proprio fatta rabbrividire. E Sherlock, per la prima volta, sembrava
rabbrividire anch’esso di fronte a John Watson. Era come se
quell’uomo fosse
elettrico e l’aria, con lui, si fosse riempita di una nuova
(e meravigliosa)
elettricità.
Era un
bel ricordo e, nelle giornate in
cui l’appartamento rimaneva vuoto, le piaceva rifugiarsi in
quei pensieri.
Il
secondo che le veniva in mente con
piacere era quello in cui John, dopo che Sherlock aveva risolto un
caso, si era
dilungato in una serie infinita di complimenti. “Brillante,
Sherlock,
incredibilmente brillante”, aveva detto. “Sei
geniale, Sherlock, stupefacente”,
aveva continuato. “Immensamente straordinario”,
aveva concluso. Lei, anche se
era solo una poltroncina (e, si sa, le poltroncine a volte sono un
po’ ottuse,
specialmente quelle vecchiotte come lei), aveva immediatamente sentito
l’incredibile
intensità dell’affetto che quell’uomo
seduto provava per quello con gli occhi
di ghiaccio. E aveva anche visto quegli stessi occhi di ghiaccio
illuminarsi
sempre di più ad ogni complimento che riceveva. Non era mai
successo prima e
lei lo sapeva bene, perché viveva in
quell’appartamento da troppo tempo e
Sherlock lo aveva praticamente visto crescere di fronte ai suoi occhi.
Si era
chiesta, allora, perché quei due non riuscissero a
comprendere il livello dell’attrazione
tra di loro. Li vedeva sfiorarsi tra una tazza di tè e
l’altra, avvicinare le
loro dita sulla tastiera quando Sherlock non lasciava in pace John
mentre
scriveva al computer, sorridersi quando questa o quella cosa gli
sembrava
divertente. Eppure la distanza rimaneva.
Per
questo poteva ammettere, in tutta
sincerità, che il ricordo che amava di più era
quello di una sera d’inverno,
quando fuori pioveva e l’acqua ticchettava sui vetri delle
finestre. Sherlock
aveva acceso il caminetto e lei gli era stata immensamente grata
perché, ad una
certa età, anche il suo legno cominciava ad avere i
reumatismi. Il calore del
fuoco fu più che benvenuto. Nonostante ciò ,
l’appartamento rimaneva piuttosto
freddo dato che anch’esso, come lei, era decisamente datato.
Per questo, forse,
era avvenuto un miracolo: si erano seduti insieme, l’uno
accanto all’altro sul
suo cuscino rosso sbiadito.
La
poltroncina si sentì schiacciare dal
peso dei due corpi premuti su di lei, perché non erano
proprio
leggerissimi, ma ne
fu tanto felice,
perché dopo tanti preamboli, dopo quelle serate in cui erano
solo le dita a
sfiorarsi leggermente, dopo le loro teste così vicine quando
raramente
guardavano la tv, finalmente avevano deciso di... sdraiarsi insieme per
una
maratona di Doctor Who in cui Sherlock criticò ogni scena.
L'unica in cui
tacque fu il finale della prima stagione, quando il Dottore prese Rose
tra le
sue braccia ed esclamò: “Credo che ti serva un
dottore”, per poi baciarla.
L’unica
cosa che le dispiacque fu che
John era troppo assorbito dall’episodio per accorgersi dello
sguardo che
Sherlock gli lanciò, arrossendo leggermente alla luce
aranciata del camino.
E lei
stette immobile - e come poteva
muoversi? Era fatta di legno e stoffa - sentendo le gambe di Sherlock
allungarsi sui suoi braccioli e John emettere un leggero sbuffo, ma non
di
noia. Era altro. Lei lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene,
perché li aveva
osservati a lungo. Forse le poltroncine non erano intelligenti come,
per
esempio, le porte. Loro sapevano molto di più, trovandosi
tra una stanza e
l'altra, udivano i discorsi tra le varie stanze, vivevano
un’esistenza in
bilico. O i letti. I letti sapevano sempre tutto, si sa. Ma non era una
poltroncina
stupida, quello no. E le si strinse il cuore quando notò che
Sherlock, che dopo
quell’unica occhiata si era rimesso a guardare il programma
tutto intento, non
si accorse che il suo dottore non stava più pensando alla
televisione.
Si
emozionò a tal punto che, se avesse
potuto, avrebbe mosso i suoi braccioli verso l'interno per costringere
quei due
a stare ancora più vicini. Essere un mobile,
però, aveva i suoi innegabili
svantaggi: si era immobili. Non potevi fare quello che volevi. Lei si
sforzava,
ce la metteva tutta, ma quel legno proprio non si muoveva. E allora
aspettava,
pazientemente, che quella danza di tocchi-non-tocchi finisse. Per il
meglio.
Purtroppo
non fu quello il giorno, ma
sapeva benissimo, perché, lo ripetiamo, non era una
poltroncina stupida, che prima
o poi il contatto ci sarebbe stato. E quella, se qualcuno mai avesse
voluto
ascoltarla, sarebbe stata la storia più bella che lei
avrebbe mai potuto
narrare.
Dopotutto, pensava, essere la poltroncina di Sherlock Holmes non era così noioso come aveva sospettato all’inizio. Non da quando c’era John Watson.