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Autore: Leoithne    10/09/2014    5 recensioni
Esistono storie che non avete mai sentito raccontare, perché mai uscite da labbra umane. Gli oggetti, i mobili, persino le pareti hanno tantissime cose da narrare. Dietro al loro apparente e freddo silenzio nascondono pensieri e ricordi, un muto libro di memorie, stralci di una meravigliosa vita vissuta. Soprattutto quelli del 221B di Baker Street.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Lasciate ogni speranza, o voi che v'apprestate a leggere questa fanfiction. Perché è una storia che riguarda i mobili. Non sto scherzando.
E' nata di notte, da una fruttifera collaborazione tra me e la fantastica Ida (che non ringrazierò mai abbastanza perché mi ha regalato 5 ore di risate soffocate e lacrime agli occhi), quasi per caso tra un delirio Johnlock e l'altro (sappiate che questa non è la cosa più assurda che abbiamo partorito). Ma non voglio tediarvi ulteriormente con futili dettagli, per cui vi auguro una buona lettura e spero che la consideriate per quello che è: una storia di mobili che, di storie, ne hanno da raccontare!

Si potrebbe pensare che l’appartamento 221B Baker Street si trovi nel silenzio più assoluto quando i suoi inquilini sono assenti. A dir la verità, all’orecchio poco allenato, la situazione appare proprio così: un insieme piuttosto disordinato di mobili che passano le giornate nella loro immobilità. Se qualcuno, però, prestasse una maggiore attenzione ai dettagli – che sono fondamentali in casi come questi - , si renderebbe conto dei vari scricchiolii che provengono da questo o quell’oggetto.

Per esempio il vecchio divano marrone, poiché anziano, ogni tanto rilascia un suono gutturale a lamentarsi delle sue molle un po’ arrugginite, della pelle non proprio più giovane ed elastica. Anche se vecchio, tuttavia, rimane comunque un bel divano comodo e, come tutti i divani, porta con sé tantissimi ricordi. Ogni oggetto ha con sé un bagaglio possibilmente immenso di memorie, belle o brutte che siano. E gli oggetti del 221B di Baker Street non fanno eccezione a questa regola.

Prendiamo, per esempio, la poltroncina rossa, un po’ usurata che si trova davanti al caminetto. Anche lei ha una marea di ricordi e alcuni li ha a cuore più degli altri.

Si ricordava benissimo, tanto per citarne uno, del giorno in cui il futuro coinquilino di Sherlock Holmes aveva fatto il suo ingresso nell’appartamento per la prima volta. Aveva pensato che fosse un avvenimento quantomeno insolito, dato che, il suo proprietario, che si fregiava del titolo di sociopatico, non aveva mai espresso un grande interesse per il genere umano. Anzi. E lei, nel suo tessuto decisamente ruvido e rovinato, aveva sempre ritenuto che non ci sarebbe mai stata una persona in grado di far cambiare idea a quell’uomo dai ricci neri e gli occhi di ghiaccio. Ma con John Watson aveva subito capito che sarebbe stato diverso.

Già dall’istante in cui l’uomo, un medico, si era adagiato sul suo morbido cuscino imbottito di gommapiuma, ne aveva sentito il calore che emanava e aveva provato un brivido. Generalmente, si sa, le poltroncine non rabbrividiscono, ma quel contatto, quel corpo caldo appoggiato al suo schienale, le dita che scorrevano sul bracciolo sinistro l’avevano proprio fatta rabbrividire. E Sherlock, per la prima volta, sembrava rabbrividire anch’esso di fronte a John Watson. Era come se quell’uomo fosse elettrico e l’aria, con lui, si fosse riempita di una nuova (e meravigliosa) elettricità.

Era un bel ricordo e, nelle giornate in cui l’appartamento rimaneva vuoto, le piaceva rifugiarsi in quei pensieri.

Il secondo che le veniva in mente con piacere era quello in cui John, dopo che Sherlock aveva risolto un caso, si era dilungato in una serie infinita di complimenti. “Brillante, Sherlock, incredibilmente brillante”, aveva detto. “Sei geniale, Sherlock, stupefacente”, aveva continuato. “Immensamente straordinario”, aveva concluso. Lei, anche se era solo una poltroncina (e, si sa, le poltroncine a volte sono un po’ ottuse, specialmente quelle vecchiotte come lei), aveva immediatamente sentito l’incredibile intensità dell’affetto che quell’uomo seduto provava per quello con gli occhi di ghiaccio. E aveva anche visto quegli stessi occhi di ghiaccio illuminarsi sempre di più ad ogni complimento che riceveva. Non era mai successo prima e lei lo sapeva bene, perché viveva in quell’appartamento da troppo tempo e Sherlock lo aveva praticamente visto crescere di fronte ai suoi occhi. Si era chiesta, allora, perché quei due non riuscissero a comprendere il livello dell’attrazione tra di loro. Li vedeva sfiorarsi tra una tazza di tè e l’altra, avvicinare le loro dita sulla tastiera quando Sherlock non lasciava in pace John mentre scriveva al computer, sorridersi quando questa o quella cosa gli sembrava divertente. Eppure la distanza rimaneva.

Per questo poteva ammettere, in tutta sincerità, che il ricordo che amava di più era quello di una sera d’inverno, quando fuori pioveva e l’acqua ticchettava sui vetri delle finestre. Sherlock aveva acceso il caminetto e lei gli era stata immensamente grata perché, ad una certa età, anche il suo legno cominciava ad avere i reumatismi. Il calore del fuoco fu più che benvenuto. Nonostante ciò , l’appartamento rimaneva piuttosto freddo dato che anch’esso, come lei, era decisamente datato. Per questo, forse, era avvenuto un miracolo: si erano seduti insieme, l’uno accanto all’altro sul suo cuscino rosso sbiadito.

La poltroncina si sentì schiacciare dal peso dei due corpi premuti su di lei, perché non erano proprio leggerissimi,  ma ne fu tanto felice, perché dopo tanti preamboli, dopo quelle serate in cui erano solo le dita a sfiorarsi leggermente, dopo le loro teste così vicine quando raramente guardavano la tv, finalmente avevano deciso di... sdraiarsi insieme per una maratona di Doctor Who in cui Sherlock criticò ogni scena. L'unica in cui tacque fu il finale della prima stagione, quando il Dottore prese Rose tra le sue braccia ed esclamò: “Credo che ti serva un dottore”, per poi baciarla.

L’unica cosa che le dispiacque fu che John era troppo assorbito dall’episodio per accorgersi dello sguardo che Sherlock gli lanciò, arrossendo leggermente alla luce aranciata del camino.

E lei stette immobile - e come poteva muoversi? Era fatta di legno e stoffa - sentendo le gambe di Sherlock allungarsi sui suoi braccioli e John emettere un leggero sbuffo, ma non di noia. Era altro. Lei lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene, perché li aveva osservati a lungo. Forse le poltroncine non erano intelligenti come, per esempio, le porte. Loro sapevano molto di più, trovandosi tra una stanza e l'altra, udivano i discorsi tra le varie stanze, vivevano un’esistenza in bilico. O i letti. I letti sapevano sempre tutto, si sa. Ma non era una poltroncina stupida, quello no. E le si strinse il cuore quando notò che Sherlock, che dopo quell’unica occhiata si era rimesso a guardare il programma tutto intento, non si accorse che il suo dottore non stava più pensando alla televisione.

Si emozionò a tal punto che, se avesse potuto, avrebbe mosso i suoi braccioli verso l'interno per costringere quei due a stare ancora più vicini. Essere un mobile, però, aveva i suoi innegabili svantaggi: si era immobili. Non potevi fare quello che volevi. Lei si sforzava, ce la metteva tutta, ma quel legno proprio non si muoveva. E allora aspettava, pazientemente, che quella danza di tocchi-non-tocchi finisse. Per il meglio.

Purtroppo non fu quello il giorno, ma sapeva benissimo, perché, lo ripetiamo, non era una poltroncina stupida, che prima o poi il contatto ci sarebbe stato. E quella, se qualcuno mai avesse voluto ascoltarla, sarebbe stata la storia più bella che lei avrebbe mai potuto narrare.

Dopotutto, pensava, essere la poltroncina di Sherlock Holmes non era così noioso come aveva sospettato all’inizio. Non da quando c’era John Watson.

  
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