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Autore: Nidham    10/09/2014    1 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come a volermi contraddire, o come se fosse stato evocato dal mio stesso pensiero, sento di nuovo un groviglio indistinto di ringhiottii bassi e minacciosi, ma non riesco ancora ad individuarne l'origine. Sembrano tutt'intorno a me, eppure il giardino, per quanto ampio e disordinato, non è tanto immenso da poter nascondere una muta di cani inferociti, dovrei vedere le loro impronte o almeno scorgerli tra i cespugli; l'unico posto dove avrebbero potuto rifugiarsi e, forse, passare inosservati è il canile fatiscente che ancora non ho esplorato, mi chiedo, però, se sia più prudente lasciarli perdere e rifugiarsi in casa o andare a stuzzicare il vespaio, rischiando di scatenarmeli definitivamente contro: oltre questa porta massiccia e solida sarei al sicuro da qualsiasi cosa, ma non vorrei trovarmi un branco di randagi seduti in cerchio ad aspettarmi quando vorrò uscire, quindi mi avvio verso i resti contorti del recinto, attenta a non ferirmi col filo spinato arrugginito e a non subire attacchi alle spalle. Una persona meno paranoica riderebbe di tutte questi patetici tentennamenti, mentre una meno incosciente sarebbe già scappata a gambe levate, quindi probabilmente mi sto comportando nel miglior modo possibile: aurea mediocritas, giusto?

I latrati continuano ad accompagnarmi come una colonna sonora macabra tenuta al minimo del volume, ma non ci sono tracce fresche in questo disastro di legno tarlato e pietre umide tenute insieme solo dalla forza di volontà, dopo che malta si è completamente rovinata. Si intuisce l'antica presenza di almeno dodici gabbie in uno spazio tanto angusto che già la metà sarebbe stata eccessiva, ci sono i canali di scolo per l'acqua e gli altri rifiuti meno innocui, ormai coperti di erbaccia e fanghiglia marcescente, c'è qualche ciotola simile a quella del magazzino, ma, per fortuna, nessuna creatura vivente più grande di un moscone. Di quelli ce ne sono a profusione nonostante il freddo, probabilmente attirati dal cattivo odore o da qualche sacco di cibo più che scaduto rimasto sotto i rottami. Nel fango, ora inaridito dal gelo, ci sono segni di profonde unghiate, memoria di un raspare selvaggio e violento che, istintivamente, giurerei risalire all'epoca stessa del canile, ma che, con ogni logica, non avrebbe potuto resistere a anni di pioggia e intemperie. Non riesco ad immaginare nessuna bestia, anche randagia, desiderosa di rifugiarsi in un postaccio del genere, avendo tutto un giardino a disposizione, con vari rifugi meno angusti e lugubri, ma d'altra parte io non sono un cane e non ho neppure una pelliccia naturale per proteggermi dal freddo che, in questa zona, è ancora più intenso e mi penetra nella giacca come se venisse dalle mie stesse ossa. Morel non doveva essere un amante degli animali per aver costruito questo recinto nell'angolo più cupo e gelido del cortile, ma, secondo la storia, non era neppure un amante degli altri essere umani, quindi non mi meraviglio di una tale indifferente crudeltà.

La cosa importante è che ho visionato tutto il perimetro e sono ancora illesa, l'abbaiare è cessato e la sua fonte rimane ignota, probabilmente esterna al muro di cinta come quella del tramestio di poco fa. Posso entrare nella villa col cuore in pace, o almeno potrei farlo se lo squillo inaspettato del cellulare non mi facesse sobbalzare come una dodicenne durante un film dell'orrore.

È un messaggio e io ho dimenticato di inserire la vibrazione.

“Non sei alla casa vero?”

Nessuna firma, nessuna spiegazione, ma sono pochi ad avere questo nuovo numero e ancora meno a potersi preoccupar di una simile eventualità, anzi direi che sia uno solo; cerco nella borsa il post-it che mi aveva lasciato sul frigo e ho la conferma ai miei sospetti. Forse è un indovino o un telepate, di certo si conferma un rompiscatole e dovrei solo ignorarlo, però è anche carino a preoccuparsi per me, per quanto i suoi motivi siano insensati, e non riesco a convincermi a lasciarlo perdere. Il blu oltremare dei suoi occhi non c'entra niente con la mia decisione, è ovvio, piuttosto è stranamente piacevole avere un contatto con qualcosa di vivo al di là di queste mura, anche se si tratta di un fugace e impersonale sms; cominciavo a sentirmi un po' sola e la stanchezza mi rende malinconica.

“Certo che sì” gli invio, ovviamente senza firma, prima di togliere la suoneria per non attirare troppe attenzioni dal vicinato.

Finalmente mi accingo a scoprire se la porta sia aperta o se sia in grado di forzarla, quando un cigolio, all'interno, mi fa nuovamente titubare. Vorrei urlare per la frustrazione, ma mi accontento di sporgermi per guardare oltre la finestra alla mia sinistra, con la persiana accostata.

C'è buio all'interno e un brandello di tessuto che una volta doveva essere una tenda limita la mia visuale. Ad intuito direi di star fissando una specie di ampia cucina, perché intravedo un grosso tavolo ribaltato e una madia con dei piatti abbandonati in disordine. Non ci sono movimenti e non riesco a penetrare oltre l'oscurità della stanza né lo sporco incrostato sul vetro. Magari ho sentito un topo che sbatteva su qualche sedia, comunque spero di non dover far rumore per entrare.

Almeno la maniglia gira senza difficoltà e riesco a richiudermi la porta alle spalle senza aver prodotto il minimo stridore. È fatta, sono dentro villa Morel.

L'esaltazione è tanta che dimentico completamente il mio malumore, anzi, sono talmente felice di essere qui che vorrei avere Gabriel con me per poterlo sbattere contro quel tavolo e scoprire se il suo sedere sia perfetto come lasciano intuire i jeans. Vorrei baciare le sue labbra imbronciate e mordergli la gola fino a farlo sanguinare, esplorando ogni centimetro della sua pelle e affondandoci le unghie.

Il bisogno di dare sfogo a questa fantasia è così intenso da risultare doloroso e mi concentro per impedire alle mie mani di salire ad accarezzare i seni in un tentativo inopportuno di trovare sollievo; devo essere rimasta single a lungo per provare una simile lussuria improvvisa e immotivata in un posto scuro, sudicio e cadente che è l'antitesi di quanto potrei immaginare romantico o eccitante, senza neanche avere un uomo accanto e immaginandomi con uno spiantato.

Spero sia un effetto residuo delle droghe, ma non so per quanto ancora potrò appigliarmi a questa scusa per giustificare tutte le mie stranezze.

Sarò ninfomane, oltre che venale e calcolatrice? Non ho approfittato di Gabriel quando ero nell'intimità della mia casa, sola e vulnerabile, questo verterebbe a mio favore, oppure potrebbe voler dire che mi eccito solo in posti stravaganti e in situazioni ancor più assurde.

Adesso mi sembra addirittura di sentire dei gemiti provenienti dal piano superiore, uniti a scricchiolii e tonfi difficilmente fraintendibili.

Sto davvero impazzendo e dovrei chiamare Jas perché mi porti al sicuro lontano da qui, magari in una clinica per malati di mente pericolosi.

Sento un gridolino femminile e mi tappo le orecchie, respirando piano per recuperare lucidità, ma, passata l'emozione irrazionale del momento, mi rendo conto che esiste un'altra spiegazione per questi rumori: potrei non essere sola, in questa villa, e potrei accingermi ad essere testimone involontaria del quarto d'ora di passione di un paio di adolescenti venuti a cercare un po' di intimità e avventura.

Magari ho annusato i loro ferormoni o qualsiasi altra cosa si dice venga secreta dal corpo per stimolare la libido e, in una condizione fisica non ottimale, non ho saputo contrastare l'istinto con la ragione.

È una spiegazione che mi soddisfa pienamente e la faccio subito mia. Prego solo che i fatti la confermino e mi appresto ad uscire in ricognizione, facendo attenzione a non spaventare la felice coppia.

A tal proposito la telefonata di Gabriel risulta anche più inopportuna del suo precedente sms; nel silenzio della stanza in cui sono appena arrivata, una specie di triste e ridondante sala da pranzo, col soffitto a travi tanto alto da creare un fastidioso effetto eco, il rumore della vibrazione sembra assordante e mi costringe a guardarmi intorno preoccupata, certa di aver messo in allerta qualsiasi topo, scarafaggio o persona nel raggio di un chilometro. Potrei attaccargli in faccia e spegnere il cellulare, ma preferirei tenerlo acceso e pronto in caso di necessità, quindi non resta che una soluzione.

“Pronto” sussurro, sperando di apparirgli seccata nonostante la voce bassa.

“Sei impazzita?” urla tanto da vanificare il mio bisbiglio. “Mi sembrava fossimo d'accordo che tu lì non ci saresti andata.”

“Davvero?” mi chiedo cosa glielo abbia fatto supporre. “Ricordo che stavi sbraitando qualcosa sui pericoli del venire qui, ma poi ci siamo distratti a parlare del tuo lavoro e non abbiamo deciso niente.”

“Per l'inferno, Alex” si interrompe e sento una voce maschile sconosciuta, piuttosto arrabbiata, richiamarlo al lavoro. “Non mi interessa, scaricatelo tu il tuo dannato camion.”

Deduco non stia momentaneamente parlando con me.

“Vallo a raccontare al principale, vallo a dire anche a tua sorella se ti fa piacere!”

Sembra davvero arrabbiato, ma non voglio perda un altro lavoro per colpa mia, o, almeno, con un briciolo di colpa da parte mia, perché, se venisse nuovamente licenziato, dovrebbe accusare solo il suo brutto carattere.

“Gabriel” provo a farmi ascoltare, cercando di calmarlo. “Non dovresti rispondere così ai tuoi colleghi. Io sto bene e sono perfettamente al sicuro.”

“Tu sei alla villa” mi rimprovera con tono tanto duro da lasciarmi in bilico fra l'indignazione e l'inquietudine. “Arrivo subito.”

“Aspetta, che significa che arrivi subito? Sei a lavoro, sei anche arrivato tardi stamani e di certo non puoi mollare così i tuoi impegni.”

“Non mi interessa” ribatte, mentre lo sento armeggiare con non so quali attrezzi, probabilmente nel tentativo di riporli in fretta con una mano sola.

“Gabriel, non c'è bisogno tu corra qui, non sono neanche sola. Sta tranquillo.”

“Come non sei sola? Chi è venuto con te?”

“Nessuno, ma sento dei rumori nella villa, credo ci fosse già una coppietta qui dentro, o magari anche due.”

“Una coppia?” sembra perplesso, per niente più rilassato.

“Sì, sento rumori inequivocabili dal secondo piano.”

Un isterico improperio è l'unica risposta che ottengo prima che la comunicazione venga interrotta, lasciandomi con la sgradevole sensazione di non essere minimamente riuscita a dissuaderlo dal raggiungermi.

Non sono sicura se mi convenga tornare indietro per sbarrare la porta o per fermarla con qualcosa di resistente in modo che non si chiuda involontariamente alle mie spalle, magari bloccandosi e impedendomi di uscire. Nell'incertezza, opto per la nullafacenza.

Il soggiorno in cui mi trovo doveva essere davvero sontuoso, ai tempi di Morel, ma adesso, al di là del gusto personale, è un vero e proprio omaggio alla tristezza, con la carta da parati muffita e sfilacciata lungo le pareti, i divani coperti di macchie scure di variegate intonazioni tra uno strappo e l'altro, l'imponente tavolo da pranzo, un tempo di legno pregiato, ridotto a un misero banchetto per tarli e le sedie imbottite traballanti, incapaci di sostenere persino se stesse. Il tutto, ovviamente, è coperto da un impenetrabile strato di polvere grigiastra e ragnatele intricate, per fortuna prive di inquilini.

È strano, ma sembrerebbe che in questa stanza non metta piede nessuno da anni, il che farebbe supporre che Emile ed io non fossimo mai venuti a curiosare, nonostante la porta aperta, e che la coppia intenta a darsi da fare al piano di sopra sia passata dall'ingresso principale, sebbene più visibile dalla strada.

Ora che ci faccio caso, i rumori sono completamente cessati e intorno a me c'è solo un silenzio poco confortevole; probabilmente il casino prodotto dal cellulare ha spaventato i due pervertiti e adesso stanno aspettando di capire chi altro sia in casa con loro. Il guaio è che non so se sia prudente avvertirli che non ho cattive intenzioni, perché, invece di due adolescenti innocui, al secondo piano potrebbe esserci un energumeno meno pacifico di me, per niente contento della mia improvvisata, e non vorrei vederlo scendere in mutande e infuriato giù dalle scale.

Rimango in silenzio e mi convinco che i miei allegri compagni, chiunque siano, abbiano semplicemente finito di fare i loro comodi e si stiano riposando, oppure stiano mangiando, visto che avverto, all'improvviso, un forte odore di cibo, tra l'altro molto invitante.

L'aria si satura velocemente dell'effluvio aromatico di salvia, cipolla e timo, tanto intenso da impastarmi la bocca.

Fossi in strada e questo profumo provenisse da un ristorante, mi fermerei subito per il pranzo, ma è assurdo essersi portati del cibo da asporto così elaborato in questo tugurio, dove io ho paura di prendermi l'epatite anche solo respirando.

Certo, il mondo è bello perché è vario e per me è conveniente che siano distratti da un banchetto piuttosto che dalla sottoscritta, il guaio è che temo stiano cucinando qualcosa di espresso, su un fornellino da campo poco sicuro, perché al buon odore delle erbe si sta amalgamando una spiacevole puzza di bruciato, pungente e aspra, che mi fa temere che abbiano incendiato qualcosa di più del loro pranzetto.

Prima di poter verificare se ci sia anche del fumo e debba chiamare i pompieri, vengo letteralmente travolta da un mal di testa tanto intenso da farmi barcollare. Ho i brividi e i polmoni sembrano faticare a raccogliere ossigeno. Mi chino sulle ginocchia, perché non voglio svenire su questo pavimento dissestato, ma ottengo solo di farmi oscurare la vista, imprigionandomi in una fosca bolla nebulosa di incoscienza, dalla quale sono costretta ad ascoltare di nuovo le grida e i lamenti di voci confuse tutt'intorno a me, le richieste di aiuto, le preghiere impacciate, le imprecazioni violente, come nel mio incubo, o nel mio unico, terribile ricordo. Il calore si fa insopportabile e il dolore non vuole diminuire; so dove ho già sentito un fetore simile, prima d'ora: è il tanfo untuoso e nauseabondo della pelle riarsa, dei capelli inceneriti, delle membra ustionate. Questo è il miasma della morte a cui sono miracolosamente sfuggita e che continua a perseguitarmi ad ogni minimo accenno di debolezza, per punirmi di una colpa che non credo di aver commesso, anche se so di non meritare di vivere più di quanto lo meritassero gli altri, so che dovrei essere io e non loro a far parte di questo olezzo infernale, che non dovrei camminare ancora alla luce del sole, che non dovrei sopravvivere alla morte.

Il fumo è sempre più soffocante e una tosse aspra e convulsa mi scuote il petto, rimbombando sulle tempie.

Dovrei arrendermi al fuoco, al passato, al destino. È così inutile lottare, così controproducente. Dovrei solo lasciarmi trascinare via, sarebbe facile e indolore, ma proprio mentre sto per convincermene, mi rendo conto che non sarebbe da me: io odio darmi per vinta e odio perdere il controllo.

Forse quello che avverto è un odore concreto e attuale, forse qualcuno si è ustionato adesso, con qualche bravata imprudente, e io non posso starmene ferma in un angolo a compiangermi, ripiegandomi su me stessa come una larva senza spina dorsale; devo controllare che non ci sia nessuno in pericolo, prestare il primo soccorso, chiamare aiuto. Devo alzarmi da questo pavimento e scrollarmi di dosso tutte le fantasticherie insensate in cui mi stavo perdendo, anche perché, appena riesco a mettermi in piedi, sebbene traballante, non avverto più alcun odore, gradevole o sgradevole, e anche i miei disturbi svaniscono senza lasciare traccia. Sto dannatamente bene.

Mi appoggio al tavolo, cercando di toccarne meno superficie possibile, e respiro piano, a pieni polmoni, per calmare il respiro troppo affannoso. La casa è muta e inerte intorno a me: nessun rumore, nessun profumo, nessun fetore.

Appena finito di esplorare questo posto, dovrò correre da un medico, sperando di trovarne uno finalmente competente.

Ancora qualche respiro profondo e sono pronta per allontanarmi dal precario appoggio del tavolino, quando mi sento afferrare a piene mani per i glutei. Rimango di sasso solo per una frazione di secondo e mi volto, pronta a schiaffeggiare il porco molestatore, ma mi trovo a fissare la parete senza che ci sia neppure un granello di polvere smossa intorno a me.

Sono indubbiamente sola e non capisco proprio come possa essermi immaginata una simile assurdità: gli incubi da stress post traumatico non dovrebbero provocare allucinazioni su molestie sessuali. E poi, cosa anche più assurda, ero convinta di trovarmi davanti Gabriel, per quanto non lo immaginassi il tipo propenso a infastidire le ragazze, perché la palpata, al di là di una giusta e logica indignazione, aveva risvegliato anche quella sottile e fastidiosa eccitazione che avevo già provato entrando in casa.

Dovrò riconsiderare la lista delle cose da fare: esplorare la villa, vedere un dottore e cercarmi un ragazzo, magari neanche in quest'ordine. Intanto esco nell'ingresso, degno della casa padronale di un latifondista del Sud America, e mi fermo ad ammirare la scalinata curva di marmo bianco, con la balaustra in ferro battuto, pensando di vedere scendere Rossella O'Hara dal ballatoio, su cui si aprono varie porte di legno scuro, tutte completamente istoriate.

In questa zona, con mio grande sollievo, noto varie serie di impronte, maschili e femminili, alcune delle quali potrebbero anche essere mie. Almeno adesso so con certezza che qualcuno è stato qui di recente ed è salito anche ai piani superiori.

È uno spazio molto ampio, quasi privo di mobilio, impreziosito da pesanti tappeti dall'aspetto orientale, ormai completamente rosi dalla polvere, dai topi e dall'umidità. Cerco di indovinarne il disegno e penso sarebbero stati più appropriati per una camera da letto che per un ingresso, perché dai pochi, sbiaditi tratti che riesco a intravedere, sembra raffigurino scene erotiche piuttosto spinte con donne discinte in mezzo a fauni, demoni e altri mostri della mitologia.

O è una congiura verso il mio fragile autocontrollo, o Morel era un vizioso, oltre che un assassino.

Sono stranamente certa che questi oggetti appartenessero tutti all'arredo originale della casa, anche se non saprei spiegarne lucidamente il motivo: in quasi cento anni di certo i vari proprietari, se ce ne sono stati, avranno apportato modifiche all'architettura e all'arredamento, ma non riesco a convincermene.

In un angolo, quasi sotto lo scalone, c'è uno strano braciere, simile a quelli che si vedono nelle sale dei principi nei film medioevali, ma più sottile e elegante, di foggia araba, con tre lunghe zampe da rapace a sostegno della coppa superiore, piena di ghirigori e iscrizioni incomprensibili, dove, probabilmente, venivano bruciati incensi o legni profumati. Ancora adesso sembra emanare il ricordo di un aroma asprigno e sensuale, intonato con le rappresentazioni sui tappeti, quasi quest'ingresso anticipasse ai visitatori il pensiero preferito dal padrone di casa: il sesso, evidentemente.

Non c'è da meravigliarsi che qualche giovincello più intraprendente porti qui la fidanzata: tra l'atmosfera lugubre e sinistra e le frequenti allusioni erotiche, si troverà notevolmente avvantaggiato nelle avanches con parecchie ragazze che non siano troppo schifiltose.

Osservando meglio il piatto dell'incensiere, tra le varie scritte annerite o consunte, riesco a decifrare un nome che avevo già incontrato di recente: Fadwa, probabilmente la giusta interpretazione delle lettere che avevo notato sulla catenina.

Mi sento sfiorare il collo da un tocco morbido e leggero, come la carezza di una piuma o un bacio a fior di labbra, l'odore è più intenso vicino al braciere e mi scivola dolcemente sotto la pelle, riscaldandomi in maniera piacevole quanto innaturale, poi il portone d'ingresso si spalanca e ogni incanto si rompe, mentre osservo un Gabriel arruffato, irritato e inquieto avanzare ad ampie falcate verso di me.

  
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