Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: Maty66    12/09/2014    9 recensioni
E’ passato un anno dai fatti di Berlino che hanno trascinato i nostri due eroi nell’incubo peggiore della loro vita.
Tutto sembra scorrere di nuovo nei binari della normalità.
Ma verità mai dimenticate e desideri mai sopiti di vendetta minacciano di nuovo un rapporto che sembrava inossidabile.
Orgoglio e paura, fiducia incondizionata e piccole ripicche, passioni violente e desideri di vendetta si alterneranno in questa storia, sino al finale drammatico che rischia di mettere la parola fine ad una amicizia profonda e capace, sino ad ora, di superare ogni ostacolo. Nella buona come nella cattiva sorte.
Questa FF è il seguito di "Incubo".
E’ consigliabile, ma non indispensabile, leggere la prima parte.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le parole che non ti ho detto
 
 
Semir scese dalla BMW respirando a pieni polmoni l’aria fredda della sera.
Cercò di non pensare agli eventi delle ultime settimane, cercò di non pensare che aveva perso tutto.
Il suo migliore amico, sua moglie, le sue figlie, il suo lavoro.
Nulla, non aveva più nulla.
A passi stanchi si avviò all’interno del grosso edificio e, come ogni sera negli ultimi due mesi, prese l’ascensore e poi percorse il lungo corridoio del quarto piano.
Ma quella sarebbe stata l’ultima sera che l’avrebbe fatto.
Ormai conosceva tutti gli occupanti delle stanze lungo il percorso; in quei  due mesi  li aveva conosciuti uno ad uno e qualcuno l’aveva visto andare via per sempre.
Il ragazzo  che aveva avuto l’incidente in moto, l’operaio caduto dall’impalcatura… ne aveva visti tanti.
“Ciao Semir” gli disse vedendolo Marie, la figlia del signor Burmann, che era qui da tanto, tanto tempo, ma lei non si stancava di venirlo a trovare ogni sera.
Semir la salutò con un cenno del capo ed entrò nella stanza in fondo a sinistra.
“Buonasera Semir” lo salutò Beate sorridendogli.
La voce della donna, alta e corpulenta, di solito era capace di donare a Semir un po’ di serenità, ma quella sera anche i suoi occhi erano tristi.
“Domani è un grande giorno” disse, mentre continuava a far fare gli esercizi di mobilizzazione al corpo disteso sul letto.
Come al solito Semir ci mise alcuni secondi prima di trovare il coraggio di guardare verso il letto, prima di guardare il corpo, ormai magro e scheletrico, di quello che era stato il suo migliore amico.
“Ciao Ben…” sussurrò accarezzandogli i capelli, come ogni sera negli ultimi due mesi.
“Faccio io” disse a Beate, mentre prendeva la gamba del giovane e la faceva piegare più e più volte come gli aveva insegnato l’infermiera.
Beate lo guardò triste, ma sorrise.
“Oggi sono venuti un sacco di amici a salutare il nostro Ben. Tutti i suoi amici della Polizia… e anche tua moglie” fece con  voce infantile mentre chiudeva la flebo e controllava il display della macchina per la respirazione.
A Semir dava sempre fastidio quando le infermiere si rivolgevano a Ben come se fosse un bambino piccolo, anche se capiva che in fondo era un segno di sensibilità ed affetto.
“Domani facciamo un bel viaggio lungo lungo… fino in America, giusto? Ora ti lascio con il tuo amico” continuò imperterrita con la medesima vocina Beate, sistemando tutti i fili ed i tubi che uscivano  dal letto, per poi uscire silenziosa.
Semir non rispose neppure stavolta, ma il cuore si chiuse in una vera e propria morsa di dolore.
 
L’indomani Konrad Jager avrebbe preso il figlio, o meglio il corpo di suo figlio, e l’avrebbe trascinato negli Stati Uniti, sino a Dallas nell’assurda speranza di farlo recuperare da quello che ormai  tutti i medici avevano  definito come uno stato vegetativo permanente.
“Ben è morto Semir… è morto quella sera… ti devi rassegnare”
Le parole di Max Weiss risuonavano come campane a morto nella testa del piccolo turco.
E nonostante  cercasse in tutti i modi di trovare dentro di sé un motivo  per credere e continuare a sperare che non fosse vero, nella sua mente, nell’angolo remoto  che non voleva aprire, lui  sapeva che era vero.
Ben era morto. 
L’aveva capito sin dalla sera dell’incidente, quando l’aveva visto dopo che Max e gli altri medici avevano tentato l’impossibile operandolo d’ urgenza.
“Mi spiace, ma il cervello è rimasto per troppo tempo senza ossigeno, non potrà recuperare stavolta” gli aveva detto Max con un filo di voce.
E infatti non era stato come due anni prima, dopo i fatti di Berlino, quando i medici volevano spegnere  le macchine.
Lì appena aveva preso la mano di Ben nella sua aveva capito che il giovane era ancora con lui, mentre  quel giorno… quel giorno, come ora, Semir non  sentiva nulla quando gli stringeva la mano o lo accarezzava o aiutava le infermiere a non fargli diminuire troppo la massa muscolare. 
Ben non c’era più,  era morto, anche se il suo cuore batteva e la macchina lo faceva respirare.
 
 
“Semir… sei qui” disse Max entrando nella stanza con la cartellina medica in mano.
Il medico lo guardò con preoccupazione, sospirando.
Da due mesi Max Weiss faceva continuamente la spola fra Berlino e l’ospedale di Colonia, anche se non se ne spiegava bene neppure lui la ragione. Tanto non poteva fare nulla. 
“Come stai?” chiese sedendosi accanto al letto ed invitando Semir a fare lo stesso.
Il piccolo turco coprì le gambe di Ben con la coperta e si voltò di spalle, mettendosi a guardare fuori dalla finestra il traffico notturno.
“Cosa vuoi sentirmi dire, Max? Che sto male? Sì sto male…” disse poi duro.
“Semir… fare così non serve a nulla. Quello che è successo…” la frase morì sulle labbra di Max,
“Quello che è successo è solo colpa mia” sbottò Semir dopo molti secondi di silenzio.
Ecco finalmente l’aveva detto.
Dopo  mesi in cui si era trasformato in una persona che lui stesso non sapeva chi fosse, in cui aveva fatto cose prima per lui inconcepibili,  ora finalmente l’aveva detto.
Quello che era successo  era colpa sua.
Max si alzò dalla sedia e gli andò vicino.
“Non è così Semir e questo lo sai anche tu” disse calmo.
E a quel punto la diga emotiva dell’ispettore crollò.
“Non è colpa mia?? Io ho lasciato che succedesse… io non l’ho protetto. Non ho chiarito con lui, ho consentito che una incomprensione, dettata da motivi di orgoglio, degenerasse sino al punto di allontanarlo da me. Sai cosa ho fatto? Lo sai? Il giorno dell’incidente aveva chiesto di incontrarmi ed io non ci sono andato… non ci sono andato… l’ho lasciato solo. Lo volevo punire per quello che aveva fatto e così l’ho lasciato solo. Solo in mano a quei criminali”
La voce di Semir era disperata, ma gli occhi ancora asciutti.
Perché Semir non piangeva.
Non aveva mai pianto in quei mesi.
 
“La ragione o il torto in questa storia non stanno da nessuna parte, Semir. Anche Ben ha avuto le sue responsabilità. Anche io, cosa credi? Credi che io non mi senta in colpa?  Avrei dovuto lasciare che accadesse quella sera, dovevo lasciarlo andare. Invece l’ho costretto a questa agonia infinita solo perché non volevo come medico che mi morisse un amico fra le braccia. Che Ben mi morisse fra le braccia…”
Max aveva le lacrime agli occhi.
“Tu non capisci. Toccava a me proteggerlo. A me… a me che sono…”
“Suo padre? Tu non sei suo padre Semir e anche se ti consideri tale,  Ben era un uomo adulto, un poliziotto, sapeva quello che faceva”
Semir si sedette sulla sedia guardando a terra e Max provò un moto di infinita pietà per lui.
“Semir… guarda  come ti sei ridotto… non mangi e dormi a sufficienza da mesi ormai… e poi… qualsiasi cosa tu possa fare o dire, non farà tornare indietro il tempo. Non lo farà alzare da quel letto. Ben non vorrebbe che tu…” gli disse piano.
Semir lo guardò negli occhi.
“Cosa non vorrebbe? Vedere che mi sono trasformato in un assassino? Perché è questo che sono diventato, giusto? Proprio come diceva Kalvus. Esattamente come aveva previsto” 
“Tu non sei un assassino Semir” disse sicuro Max.
“Invece sì. Vendetta, ecco  l’unica cosa che ho voluto. E alla fine non sono neppure riuscito a togliere di mezzo quel bastardo di Klones”
“Anche se lo avessi ucciso, Ben non sarebbe tornato da te. E questo lo sai. E tu, nonostante quello che credi non sei un assassino a sangue freddo”
Semir sospirò e si avvicinò di nuovo al letto di Ben.
“A che ora…” Chiese senza avere il coraggio di finire la frase.
“Alle sei. L’aereo è per le sei… andrà in aeroporto con un elicottero”
”Ma perché lo devono portare così lontano…” chiese sommessamente avvicinandosi al letto e carezzando i capelli scuri del ragazzo.
“Semir… ne abbiamo già parlato. E’ Konrad che decide, è il padre di Ben e nessuno può  impedirgli di inseguire una speranza per quanto assurda possa essere”
Semir lo guardò.
“A me non  l’hai lasciata quella speranza però…”
Max si limitò a fissarlo senza rispondere. Aveva già risposto tante volte a quella stessa identica domanda e Semir già conosceva la risposta che gli aveva ripetuto e ripetuto: “Quanto è grande la tua fede?”
“Non potrò neppure essere con lui quando succede… quando se ne andrà sarà di nuovo solo” balbettò.
“Semir, Ben se n’è già andato. E potrà sembrare retorico, ma in ogni caso lui lo sa che sarai sempre con lui. Dovunque sia e qualunque cosa succeda” provò a consolarlo.
“No, non lo sa. Sai cosa mi ha detto mentre stava morendo quella sera? Che mi voleva bene. Io l’ho abbandonato, l’ho tradito e lui mi ha detto che mi voleva bene. Sono state le sue ultime parole… ed io… io non ho avuto neppure  la forza di dirgli che anche io gli volevo bene… non sono riuscito a dirlo… e ora non potrò dirglielo mai più”
“Pensi davvero che ci fosse bisogno di dirlo?” chiese Max uscendo dalla stanza.
Semir si sedette di nuovo sulla sedia accanto al letto e prese la mano gelida di  Ben nella sua.
“Aiutami, ti prego aiutami…” lo supplicò.
Rimase per molte ore così senza dire più nulla, rispondendo solo a cenni alle infermiere che lo invitavano ad andare a dormire un po’.
 
Era quasi l’alba quando si alzò dalla sedia e guardò l’orologio.
Le quattro e quarantacinque.
Fra poco sarebbero venuti e l’avrebbero portato via per sempre.
Si chiese perché il distacco da quel corpo, da quello che ormai era solo un guscio vuoto, fosse per lui così doloroso, quasi a livello fisico e si diede da solo la risposta.
“Dopo non ti resterà più nulla, neppure la consolazione di venire qui ogni sera”
Aveva freddo e prese la giacca che con noncuranza aveva lasciato cadere sulla sedia al suo ingresso.
Indossandola la mano finì sulla tasca interna.
La busta… la lettera di Ben… da quanto era lì? Dal giorno del suo compleanno. Se ne era completamente scordato e comunque non aveva mai avuto il coraggio di leggerla.
Sospirando e quasi per infliggersi l’ultima punizione l’aprì.
Rigirò fra le mani il piccolo lettore mp3 che conteneva e poi aprì il foglio.
 
Caro Semir
Mia nonna, vecchia e saggia signora, mi diceva sempre che i veri amici sono quelli che possono non  frequentarsi  per anni e quando poi si rivedono sono capaci di riprendere esattamente da dove  hanno lasciato.
Non sai quanto vorrei che fosse vero.
Vorrei chiamarti e chiederti se ti va una birra, se vogliamo andare alla partita o a vedere il nuovo modello della Mercedes.
Vorrei trovare con te la scusa da raccontare ad Andrea per lasciarti venire al pub la sera del venerdì, fingere di credere che lei si sia bevuta la storiella stupida che abbiamo inventato, mentre sappiamo benissimo  che  invece ha già capito tutto e  sorride bonaria.
Vorrei prenderti in giro per la tua finta gelosia delle bambine nei miei confronti.
Vorrei   ridere  con te mentre imitiamo la Kruger o prendiamo in giro Dieter per come guida o Harty per come parla.
Vorrei perfino sentire di nuovo le tue prediche  per il mio disordine o  per il fatto che sporco l’auto mentre mangio.
Vorrei di nuovo tutte queste piccole  cose stupide, perché sono queste cose che mi mancano davvero.
Ripensando ai mesi passati non so neppure spiegarmi bene cosa sia successo.
Perché abbiamo ceduto a Kalvus? Perché  gli abbiamo consentito di portarci via una cosa importante?
Mi spiace sai… non dovevo mentirti, ma per una volta, una volta sola, volevo essere io a proteggere te.
Anche a costo di non capire che così facendo potevo mettere in pericolo la nostra amicizia.
L’ho capito  solo ora, ora, quando pian piano mi sto rendendo conto che davvero potrei perderla questa amicizia.
Ho ceduto all’orgoglio e non ti ho chiesto scusa; ho cercato di sostituire la nostra amicizia con un altro sentimento, con una passione nuova e totalizzante, ma io e te sappiamo bene che qualsiasi amore, anche il più travolgente non sarà mai la condivisione che abbiamo sperimentato in questi cinque anni.
Quindi quello che dobbiamo chiederci è: siamo davvero  disposti a rinunciarci?
La mia risposta è no. Qualsiasi cosa io debba fare, io la farò.
In fondo siamo come marito e moglie: amici nella buona e nella cattiva sorte.
Perché in fondo al mio cuore una cosa mi è chiara: anche se non dovessi sentirtelo dire mai più, io so che tu mi vuoi bene, esattamente come io ne voglio a te. 
Potremo litigare, picchiarci, farci delle ripicche come in questi mesi, ma questo non cambierà mai.
Alla fine ci spero davvero: io non chiederò scusa a te e tu non ne chiederai a me, mai. Perché noi siamo veri amici e quindi, come diceva mia nonna, siamo capaci di riprendere esattamente da dove  ci siamo lasciati.
Tuo Ben
P.S.  Buon compleanno amico mio. Nel lettore mp3 c’è il mio regalo per te. E mi raccomando… ora che hai quarantanove anni cambia la foto sul tuo tesserino di riconoscimento.. son passati davvero  troppi annetti.  
 
Semir rimase imbambolato a guardare la lettera.
Poi indossò le cuffie e ascoltò la canzone che Ben aveva scritto per lui.
Mentre ascoltava quella canzone struggente sull’amicizia finalmente Semir pianse.
Pianse su quello che poteva essere se avesse letto quella lettera prima, su quello che poteva essere se fosse andato a quell’appuntamento.
Pianse su quello che poteva essere e non era stato.
E si chiese come avrebbe fatto ad andare avanti ora.
 
Si avvicinò  al letto e guardò ciò che vi era disteso.
Tutto quello che so l’ho  imparato da te.
Il verso della canzone continuava a suonare nella sua testa.
“Cosa ti ho insegnato? Cosa? Tu volevi proteggermi… e guarda cosa ho fatto. Dovunque tu sia cerca di trovare la forza di perdonarmi. Perché io non ci riuscirò mai” singhiozzò.
 
 
Semir stette a guardare muto i preparativi delle infermiere per il trasporto, mentre Konrad Jager lo fissava quasi con odio. L’ostilità del vecchio era ormai palese e ormai non sarebbe mai venuta meno.
E come padre, Semir sentiva anche di capirlo in fondo.
Non riusciva a pensare ad altro che a quella frase scritta nella lettera: “anche se non dovessi sentirtelo dire mai più…”
Perché? Perchè non poteva dirglielo più? Anche se ora sapeva che Ben conosceva l’amore che gli portava, perché il mondo doveva essere così crudele? Perché non poteva almeno dirgli per l’ultima volta quanto bene gli voleva, quanto fosse stato importante nella sua vita?
“Ok siamo pronti” fecero i due infermieri mentre iniziavano a spingere il letto fuori della stanza.
“Un attimo… per favore un attimo solo…” sussurrò Semir con la voce rotta dal pianto.
Konrad lo guardò e stava per protestare, ma venne trascinato via da Julia.
“Vieni papà, aspettiamo tutti un secondo fuori” fece mentre lo conduceva nel corridoio.
Semir aveva solo pensieri incoerenti per la testa, il dolore, forte come un fuoco distruttivo, non lo faceva ragionare.
Si avvicinò al suo migliore amico e gli accarezzò i capelli.
Poi lo baciò sulla fronte.
“Un giorno ci rivedremo, sai, e ricominceremo esattamente da dove abbiamo lasciato” bisbigliò.
“Ben, oğlum seni seviyorum”(ti voglio bene figlio mio)  gli sussurrò in turco prima di uscire dalla stanza, senza voltarsi indietro.    
 
Stette a guardare l’elicottero che si alzava dal tetto dell’ospedale e si portava via un pezzo del suo cuore e della sua vita.
Nulla, non aveva più nulla, doveva ricominciare tutto daccapo. Ed era solo.
Cercò di reprimere le lacrime che tornavano prepotenti respirando a pieni polmoni l’aria del mattino.
Ormai  albeggiava.
Entrando in auto trovò sul cruscotto il cellulare che vi aveva dimenticato.
Guardò il display. C’era un messaggio di Aida.
“Come stai papà?”
Le sue figlie. 
L’unica cosa che gli rimaneva.
L’unica cosa da cui poteva ricominciare.
 
FINE
 
Piccolo back stage
 
Questa storia nasce da una piccola sfida fra me e ChiaraBJ.
Dopo aver letto “Incubo” lei un giorno mi disse che, secondo lei, in fondo non sarei mai stata capace di scrivere una storia che finiva con la morte di Ben.
E poiché io sono una che  non sopporta bene l’essere sfidata, la prima stesura della storia prevedeva la dipartita definitiva del nostro amato bennuccio.
Poi l’evoluzione e l’idea successiva hanno portato a questo, chiamiamolo, “compromesso” (anche se in realtà forse era meglio  la dipartita definitiva).
Per farla breve e prima che lo chiediate, sì, ci sarà la terza puntata e sarà a quattro mani, due mie e due di Chiara.
Vi promettiamo che ci sarà anche Ben, ma in una veste inaspettata, e soprattutto che non sarà una storia triste.
Ora i ringraziamenti.
Ai recensori, che mi fanno capire che anche se scrivo cretinate almeno divertono e distraggono qualcuno.
E quindi grazie a Sophie97, -chlo; MartiAntares, 144kagome(ecc.ecc) Tinta87, Furia76, Marcellina, Laura, Redbull, djalikiss, ChiaraC80 (spero tu abbia letto l’ultimo cap.). Spero di non aver dimenticato nessuno, se l'ho fatto chiedo umilmente perdono.  
Grazie a chi ha inserito la storia nelle preferite e/o ricordate-seguite e a chi mi ha inserito nella lista degli scrittori preferiti.
Grazie a chi ha letto e non ha fatto nulla di tutto quello sopra descritto.
Il ringraziamento alla mia beta... beh quello non posso scriverlo qui... è troppo lungo e personale, mi scorderei di sicuro qualche puntino.
Spero di non avervi deluso. I complimenti delle recensioni sono immeritati, ma piacevoli.
E quindi…. alla prossima.
                                                                               Maty
  
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