Buongiorno a tutti voi, lettori e lettrici di questa piccola follia!
Oggi siamo alle prese con una nuova parte dell'arredamento, che, spero, incontri il vostro favore. Al solito, un ringraziamento specialissimo, sentitissimo e calorossissimo va alla dolcissima Ida che è stata l'ispiratrice di questa storia e continua a sostenermi leggendo tutti i capitoli in antemprima. E facendomi sciogliere con le sue bellissime recensioni (se non lo avete ancora fatto, andate a leggere immediatamente la sua "When Time and Flames Ignite", lettura più che consigliata!). Ma ciancio alle bande (o era "bando alle ciance"? ;) ) : spero che il nostro nuovo pezzo di mobilio vi piaccia! Enjoy your reading!
Si
potrebbe ritenere che, date le loro
caratteristiche esterne, alcuni oggetti si comportino sempre nella
stessa
maniera. Tanto per fare un esempio: un forno lo si considera un oggetto
caldo,
che ispira fiducia e affetto. Ci cucini le torte dentro al forno. Ci
fai i
biscotti. Tutte cose che scaldano il cuore di ogni essere umano. Poi,
però, ci
sono i frigoriferi. Ecco, i frigoriferi come si potrebbero descrivere?
Freddi,
ovviamente. Eppure spesso ci si dimentica che, sotto la loro fredda
superficie
d’acciaio inossidabile, batte il cuore caldo della serpentina.
La
prova inoppugnabile di questo calore
(ben superiore a quello del forno, secondo lui) proviene certamente dal
frigorifero installato nella cucina del 221B Baker Street.
Il
frigorifero, un elettrodomestico alto,
che incuteva quasi timore, era un elettrodomestico estremamente
sensibile e
sentimentale. All’apparenza non lo sembrava proprio e ci
voleva un po’ di tempo
perché ce ne si rendesse conto.
Innanzitutto,
come sempre ricordava, non
era facile essere il frigorifero di Sherlock Holmes. Tra tutte le
persone al
mondo che gli sarebbero mai potute capitare, gli era proprio toccato
quell’arrogante e presuntuoso di Sherlock. In
realtà non gl’importava più di
tanto dell’arroganza dell’uomo, c’era
solo una cosa che lo faceva impazzire. E
quello era il suo primo ricordo legato alla sua permanenza in Baker
Street.
Ricordava,
quasi con ribrezzo, di quando
Sherlock aveva aperto la sua anta la prima volta. Si era aspettato,
come tutti
i bravi frigoriferi, di ricevere la sua dose di cibo da conservare per
i giorni
a venire. Già si stava immaginando pomodori, insalata,
latte, uova, burro,
persino pesce o carne. Il pensiero gli aveva persino fatto venire
l’acquolina
al condensatore e aveva finito per gocciolare un pochettino sul ripiano
superiore. E, invece, Mister-Sherlock-Holmes gli aveva ficcato dentro
qualcosa
di maleodorante. Fischiettando.
Aveva
dovuto fare appello a tutte le sue
forze per trovare il coraggio di guardare cosa fosse. Un piede.
All’inizio non
ci aveva voluto credere. E come avrebbe potuto? Nessuno mette dei piedi
umani
nel frigorifero! Aveva pensato che, magari, fosse un errore, che avesse
calcolato male. Era un frigorifero giovane, poteva sbagliare. Purtroppo
non si
era sbagliato per niente. Il piede (orrore e disgusto!) era rimasto al
suo
interno per più di una settimana e lui, se non fosse stato
un elettrodomestico,
avrebbe voluto vomitare.
Certo,
i ricordi che aveva fortunatamente
cominciarono a cambiare quando, insieme a Sherlock Holmes, venne ad
abitare un
certo John. John fu la sua salvezza.
Il
primo ricordo che aveva di lui era
legato ad una sera. Da una settimana era completamente vuoto, a parte
un
barattolino di sottaceti nel suo ripiano più basso che stava
cominciando ad
emanare un tanfo indicibile. Al solito Sherlock si era dimenticato di
fare la
spesa. A volte si chiedeva come facesse a sopravvivere, dato che
l’aveva visto
mangiare sì e no tre volte. Quella sera, però, la
sua anta era stata aperta e
lui si era trovato di fronte una faccia nuova. E lo aveva riempito di
cose
deliziose. John Watson, nel giro di tre sacchetti della spesa, era
diventato il
suo nuovo eroe. Lo aveva salvato.
E
presto si rese conto che stava anche
salvando Sherlock.
Riguardo
a questa teoria aveva un ricordo
meraviglioso. Il tutto era cominciato pochi giorni dopo che John si era
trasferito definitivamente al 221B. Sherlock era uscito per andare,
come suo
solito, da qualche parte con Scotland Yard e John si era messo a
preparare la
cena. Il frigorifero, che ormai conosceva bene il suo proprietario, si
era
messo a ridacchiare facendo rumorini sommessi con la ventola. John
stava
cucinando inutilmente. Sherlock non mangiava mai.
Quando
il detective era rientrato, John
lo aveva chiamato a tavola.
“Sherlock,
la cena è pronta!”
“Non
ho fame!”, aveva sentenziato
l’altro.
“Non
cominciare a fare i capricci. Sono
quattro giorni che vivo qui con te e ti avrò visto piluccare
un po’ di cibo
tre, anzi due volte. Quindi fammi il favore di venire qui e di
mangiare!”
“È
forse un ordine?”
“Perentorio.
Qui. Ora. Mangia.”
Il
frigorifero si era aspettato una
risposta piccata da parte del detective che, invece, docilmente, si era
seduto
a tavola e…aveva mangiato. John Watson era decisamente il
suo eroe, aveva
pensato.
Poi li
aveva osservati: mentre Sherlock
mandava giù un boccone, ogni tanto alzava lo sguardo verso
John e sembrava
perdersi nella contemplazione. Quando, però, John alzava lo
sguardo verso di
lui, Sherlock lo abbassava all’improvviso. E John faceva
esattamente lo stesso
movimento. Se il detective aveva gli occhi piantati sul tavolo, osava
osservarlo con un’intensità senza precedenti, ma,
non appena questo sollevava
la testa dal piatto, gli occhi di John si abbassavano di scatto.
Inizialmente,
il frigorifero si chiese
cosa potesse significare, perché era giovane e non ne capiva
molto di quelle
cose. Tuttavia, ammetteva, non senza un certo rossore alla lampadina,
che quel
gioco di sguardi-non-sguardi lo aveva fatto sobbalzare di gioia.
Alla
fine, sebbene un po’ in ritardo,
capì anche lui.
Anche
questo era un bel ricordo felice.
Era un ricordo un po’ stupido, se ci pensava bene. Ma a lui
piaceva particolarmente.
Si era scoperto un romanticone, grazie a quel ricordo. Era il ricordo
di quando
Sherlock aveva, per la prima volta, svuotato tutto il frigorifero da i
pezzi
umani che conteneva perché John glielo aveva chiesto. E poi
era andato a fare
la spesa, tornando con tutto ciò che più piaceva
al suo coinquilino.
“Là.”,
aveva detto tutto soddisfatto,
mettendo a posto l’ultimo panetto di burro “Spero
che John sia contento quando
torna.”
E John
lo era stato. Gli erano brillati
gli occhi e aveva ringraziato Sherlock con il più caldo dei
sorrisi. E a lui
(ebbene sì, era proprio un romanticone) si era quasi sciolta
una guarnizione.
Peccato che i due sembrassero incredibilmente testardi e non si
accorgessero di
quanta elettricità ci fosse tra di loro. C’è
più elettricità tra quei due, pensava
il frigorifero, che in tutti i miei
componenti elettrici. Eppure non si muovevano.
Ci
volle un ricordo brutto per farli
finalmente unire.
Il suo
peggior ricordo lo conservava
nella sua parte più interna, lacrimando copiose goccioline
di condensa ogni
qualvolta vi si soffermasse troppo.
Iniziava
con John che si trascinava verso
di lui a fatica, inciampando nei suoi stessi passi, lo sguardo fisso
nel vuoto.
Lo aveva aperto e ne aveva estratto una birra. John non beveva mai. In
rare
occasioni lo aveva visto mandar giù un goccio di vino o di
qualsiasi altro
liquore. Quella volta aveva preso la lattina, aveva appoggiato la sua
schiena
(morbida e calda grazie al maglioncino che indossava) contro la sua
superficie
fredda d’acciaio e si era lasciato scivolare sul pavimento.
Singhiozzava.
Il
frigorifero non capiva. Se avesse
potuto, gli avrebbe chiesto cosa stesse succedendo ma, come accade con
tutti
gli oggetti inanimati, la capacità di parola non era una
delle sue qualità
migliori. Certo, poteva tirar fuori un rumorino o due dalla ventola, ma
di
solito, invece di essere ascoltato, otteneva soltanto che arrivasse un
tecnico
con le mani sporche di grasso a toccarlo in posti…intimi. E
lui lo odiava.
Perciò stette il più zitto che poté,
mentre John, tra un sorso di birra e
l’altro, piangeva.
“Non
è possibile…”, si lamentava
“Non può
essere vero…io…no. Non ci voglio credere.
Sherlock…come faccio io senza di te?
Come? Ti prego, fa’ che sia uno scherzo, uno stupido scherzo.
Perché è uno scherzo,
vero, Sherlock?”
Stava
supplicando John. Il frigorifero
sentiva chiaramente come stesse tremando. Piangeva e tremava. Era
successo
qualcosa di grave, qualcosa che gli sfuggiva.
“Non
puoi avermi lasciato così, Sherlock.
Non è da te. Ti prego, torna. Non
puoi…”, e qui la voce divenne un rantolo di
dolore “…essere morto. Non puoi.”
Il
frigorifero rabbrividì. Era abituato
ad essere freddo, ma la notizia della morte di Sherlock fece scendere
la sua
temperatura di un paio di gradi. Ci mise quasi tre mesi, e una decina
di
tecnici che non capivano il suo problema, per riprendersi dallo shock.
John non
si riprese.
Fortunatamente,
a volte, anche i miracoli
accadevano al 221B.
E il
brutto ricordo del frigorifero fu
felicemente sostituito dalla cosa più bella di cui mai fosse
stato testimone:
il ritorno di Sherlock. E, di conseguenza, il ritorno di Sherlock nella
vita di
John. E, questa volta, senza più tutti gli sguardi pieni di
significato che,
però, rimanevano soltanto sguardi.
Era
successo una sera d’inverno, se lo
ricordava alla perfezione. John era fuori e Sherlock passeggiava
nervosamente
avanti e indietro per la cucina, continuando a borbottare tra
sé e sé. Cosa
dicesse, il frigorifero, nonostante un ottimo udito, non riusciva
proprio a
capirlo. Poi Sherlock aveva fatto la cosa più assurda della
sua vita: si era
messo a cucinare!
Primo,
secondo e dessert erano
magicamente stati spadellati, sfornati, sistemati nei vari piatti.
Aveva
apparecchiato la tavola, acceso una candela e continuato a camminare
nervosamente.
Il
frigorifero aveva capito. Era tutto
incredibilmente ovvio. Il suo cuore di serpentina cominciò a
palpitare
dall’emozione e dovette metterci tutto se stesso
perché la ventola non partisse
per raffreddarlo. Rovinare la serata perfetta perché lui era
agitato non era
proprio l’ideale.
Quando
John rientrò e vide la tavola
apparecchiata, il frigorifero vide Sherlock arrossire come non mai.
“John…”,
disse con voce spezzata “…lo so
che non mi hai ancora perdonato per quello che ti ho fatto. Lo so che
non sono
la persona migliore al mondo, anzi…”
Ma
John lo interruppe. Il frigorifero, lo
ricordava benissimo, trattenne il liquido raffreddante per
l’emozione.
“Hai
cucinato…tutto…questo…per
me?”
Sherlock
annuì.
“Perché
sono un idiota.”, aggiunse il
moro “Un idiota di dimensioni colossali. Perché
c’è una cosa che ti devo dire
da due anni e non ne ho mai avuto il coraggio. E ti ho fatto soffrire.
E non
posso più permettere che succeda. Non posso permettere che
tu non lo sappia.
John io ti amo.”
John
corse verso di Sherlock, gettandogli
le braccia al collo e schioccandogli un bacio sulle labbra.
“Anch’io.”
E
quella fu la prima volta che il loro
sguardo non si staccò mai per tutta la sera. Mangiarono
senza mai distogliere
gli occhi. Occhi azzurri in occhi acquamarina. Cuore dell’uno
nel cuore
dell’altro.
Il
frigorifero, nonostante la sua buona
volontà, non riuscì a trattenere un sospiro di
sollievo. I due
ex-coinquilini-ora-molto-di-più si voltarono
contemporaneamente verso di lui.
“Non
dirmi che il frigorifero fa ancora i
capricci, John.”
“Sembra
di sì. Mi sa che domattina dovrò
richiamare il tecnico.”
Il
che, sapeva bene il frigorifero,
significava mani unte in posti che odiava. Ma mai come quella volta non
gliene
importò assolutamente nulla. Poteva arrivare anche un
esercito di tecnici. John
e Sherlock erano felici e questo era tutto ciò che contava.