Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Sheep01    22/09/2014    4 recensioni
“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando. “Dico a te… ragazzina…”
Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.
La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti. Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale. [...]
La lama affondò in qualcosa di… rigido. I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero. E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.
“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?”
[Clintasha pre-SHIELD, pre-Avengers]
Genere: Azione, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 18

 

There's no logic here today
Do as you got to, go your own way
I said that's right
Time's short your life's your own
And in the end
We are just
Dust ‘n Bones

(Dust n’ Bones – Guns n’ Roses) 

 

Era almeno la decima testata che dava al vetro della finestra.

E ancora non se ne sentiva rinfrancato.

Forse gli ci sarebbe voluto più di un trauma cranico per sedare l’agitazione.

Si fermò così, la fronte spiaccicata alla superficie gelida, a guardare le gocce di pioggia che scivolavano gioiose, in rivoli scomposti. Mentre il suo respiro ne appannava il vetro.

Con un dito cominciò a scrivere qualcosa.

In pochi istanti, la scritta: SHIELD sucks, apparve in tutto il suo blasfemo splendore.

La porta ebbe la malaugurata idea di aprirsi in quel preciso istante, ad opera gloriosamente terminata.

“Barton.”

Clint si volse di scatto, coprendo l’abominio con  la schiena, solo per trovarsi a fronteggiare Coulson.

“Ehi… che succede?” simulare non gli era mai riuscito granché bene.

“Lo sai che succede.” Lo vide passarsi le dita sugli occhi, a massaggiarsi le palpebre, come se gli fosse finito addosso un peso fin troppo gravoso.

Clint si voltò appena per poter constatare che almeno la scritta era evaporata. Forse non si riferiva a quello.

“In realtà speravo che mi illuminassi tu. Sono rinchiuso qui da un’ora.”

“Un’ora e un quarto.”

“Ah vedi? Da qui non avrei saputo dirlo…” si era andato a sedere su una delle seggiole girevoli e aveva compiuto mezzo giro su se stesso, le mani ben piantate sui braccioli.

“Spero tu abbia avuto il tempo per ragionare su quello che hai fatto.”

Clint gli riservò un’occhiata improvvisamente ostile che però non durò a lungo.

“Certo. E rammaricarmi di non aver usato un paio di quelle tecniche che ho imparato in palestra il mese scorso.”

“Barton, sono serio…”

“Anche io.”

“Clint.”

Il fatto che lo avesse chiamato per nome lo aveva ammonito, definitivamente. Coulson non lo chiamava quasi mai per nome. E quando lo faceva era sempre per ragioni… poco piacevoli.

“Hai preso a pugni tre infermieri e un dottore.”

“Quattro contro uno, mica male, no?” a testimonianza del fatto, giusto un livido sullo zigomo.

L’occhiata di Coulson avrebbe raggelato un ghiacciolo, ma Clint stavolta non si lasciò intimorire.

“Le stavano facendo male. Che altro avrei dovuto fare?” si accalorò. Le immagini di Natalia ancora ben impresse nel cervello.

Quel: niente, niente, niente, ad aleggiare per la stanza, e gli infermieri che cercavano di tenerla ferma, mentre lei urlava e si dimenava e…

“Stavano solo facendo il loro lavoro.”

“Usare la forza bruta con una ragazzina legata ed indifesa? Gran bel lavoro.”

“Una ragazzina indifesa? Tutti i file che ci rimandano a lei la definiscono tutt’altro che una ragazzina… men che meno indifesa. E tu… dovresti saperlo. Meglio di chiunque altro.”

Clint non poté far altro che zittirsi. Su quello non poteva certo dargli torto.

Solo che…

“Proprio perché lo so, non sono riuscito ad agire… razionalmente.”

Sentì Coulson sospirare e raggiungere la finestra.

Clint si voltò a sbirciarlo, sperando non sospirasse tanto da far appannare il vetro.

Priorità.

“Fury ha deciso di sottoporla ad alcuni test.”

Clint adesso era scattato in piedi.

Test. Come quelli che le avevano fatto passare l’inferno alla Red Room?

“Fury è pazzo.”

“Attento a come parli Barton.”

“Ma che cazzo ha nella testa?”

“Barton…” l’uomo gli si era avvicinato con aria tutt’altro che ostile, “dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare. E quanto è rimasto danneggiato il suo cervello. Non sarà niente di invasivo.”

“Niente di invasivo, certo. Quanto un catetere infilato su per il…”

“Barton. E’ una procedura. La ragazza non sta bene, te ne sei reso conto anche tu. Nemmeno ti riconosce… eppure lo sappiamo entrambi quanto tempo avete passato assieme.”

Quella constatazione gli procurò una dolorosa contrazione allo stomaco.

Non si ricordava di lui. Non più. Non il minimo barlume di coscienza in quegli occhi così freddi, glaciali. Gli stessi occhi che le aveva visto quella sera del vicolo… cinque anni prima.

Cancellata.

“E’ per il suo bene. E per il… nostro.”

“Soprattutto per il vostro…” ribatté Clint, cercando di impedire a Coulson o chiunque altro di capire quanto gli risultasse dolorosa la faccenda. “Non hai visto che riflessi?” stemperò. O almeno ci provò.

Coulson, se non altro, sorrise.

“Lo so che è difficile, ma quello che ti chiedo, ora, è di lasciar fare a noi.”

“Perché, ho scelta?” Vide l’uomo scuotere la testa a conferma della sua tesi. “E allora vedete di fare un buon lavoro. Sono sempre stato convinto che lo SHIELD non le avrebbe fatto alcun male.”

“E non gliene farà.”

Clint si concesse un sospiro. Di tutte le persone che aveva conosciuto in tutta la sua vita, Coulson era l’unico a non avergli mai mentito. Questo... doveva pur voler dire qualcosa, no?

“Io però adesso che faccio?”

“Ah, il direttore Fury dice che hai ancora un sacco di lavoro d’archivio.”

“Ma se ho quasi finito?”

“L’archivio centrale.”

“Stai scherzando, vero?”

“Per niente.”

“Ma sai quanto è grosso l’archivio centrale?”

“Inizia a rimboccarti le maniche.”

“Fury è pazzo.”

“Barton.”

 

*

 

Si massaggiò i polsi mentre le toglievano le cinghie e gli elettrodi dalla testa.

Era la terza volta, quella settimana, che le propinavano quel trattamento. E un sacco di domande. Domande su tutto. Domande alle quali non aveva risposto o risposto elusivamente, tanto da guadagnarsi un cambio d’agente al giorno, per esaurimento.

Se ancora non avevano capito con chi avessero a che fare, non era un problema suo.

Non aveva intenzione di collaborare. Non fino a quando non le sarebbero venuti incontro con qualche mossa intelligente che le facesse pensare che poteva valerne la pena.

Per ora si erano limitati a dimostrare una scarsa credibilità… lo SHIELD l’aveva grandemente delusa.

Il fatto che però non l’avessero sottoposta a trattamenti invasivi, le accese il seppur minimo barlume di speranza: forse sarebbe riuscita a cavarsela e, a lungo andare, ad andarsene da lì. Appena fosse tornata in forze. Non appena in pieno possesso di tutte le sue capacità.

O forse anche prima.

La porta della saletta si aprì per rivelare l’arrivo di una donna.

L’unica presenza costante di quell’assurdo teatrino. L’agente Maria Hill. O così almeno diceva di chiamarsi.

“Signorina Romanova.”

Romanova. Continuava a insistere su quel nome. Su un nome che non le apparteneva o che, se anche ne fosse stata investita una volta, ora non significava più niente.

Non più di quel Nat con cui l’arciere si era incaponito di chiamarla.

L’arciere. Ogni tanto pensava ancora a lui.

L’unico ad avere l’aria di conoscerla. E conoscerla veramente. Non come esperimento da laboratorio. Non come il nome in un database, ma di una conoscenza intima, profonda, personale. Tanto da scatenarle delle scariche emotive non richiesta in sua presenza, o anche solo… a sentirlo pronunciare il suo nome. Quello stupido, stupidissimo nome.

“Non ci sono grandi miglioramenti, a quanto mi dicono.” La sue parole, sempre con quel tono definitivo. Non ci sarebbero stati miglioramenti per un bel po’.

“L’agente Mills mi ha detto che ancora si rifiuta di collaborare.”

“L’agente Mills non è rimasto abbastanza a lungo per permettermi di farlo.” Una delle frasi più lunghe che avesse detto da giorni.

L’agente Hill non risultò particolarmente sorpresa. Sistemò la cartellina sulla scrivania e si avvicinò al lettino a cui era ancora legata, almeno per i piedi.

Aveva l’aria di chi aveva inteso l’allusione.

“Non amiamo i giochetti, qui.” Le rispose con aria severa.

Le ricordava tanto una sfinge. Di quelle alle quali non riesci ad estorcere mezza emozione.

In qualche angolo remoto della propria mente, però, doveva ammettere di ammirare l’agente Hill. Non sembrava molto più vecchia di lei, ma abbastanza preparata da meritarsi una posizione di spicco nell’organizzazione, per quanto le fosse dato di intuire. Il fatto che fosse una costante, le suggeriva che fosse responsabile del caso. O quantomeno un supervisore.

“Avevate paura che ve lo mangiassi, l’agente Mills?” le era uscito del tutto non preventivato, ma piuttosto efficace. Se lei si permetteva di parlarle con condiscendenza, allora le avrebbe dato qualcosa di concreto per cui farlo.

La donna si limitò a lanciarle uno sguardo di sufficienza.

“L’agente Mills è un professionista, come tutti, qui dentro.”

“Ah… davvero?” alluse di nuovo. “Mi era parso di intuire fosse piuttosto interessato a sbirciarmi sotto il camice, mentre mi legava le caviglie. Gran professionista.”

Il sopracciglio della donna era schizzato in alto senza poterselo impedire. Natuska registrò quel gesto.

“Ma dopotutto è solo un uomo, non è così?” la osservò muoversi per la stanza a recuperare delle scartoffie abbandonate. Fingeva di ignorarla, ma sapeva che la stava tenendo d’occhio. Forse perché aveva ancora in serbo delle domande per lei o dio solo sapeva cosa.

“Credete che mandare qui una donna mi sia d’intralcio?”

“Non crediamo nulla, signorina Romanova. Prima capirà che qui nessuno intende farle del male, prima riusciremo ad aprire un dialogo proficuo.”

“Chi vi dice che abbia intenzione di aprire un… dialogo?”

“Dovrebbe suggerirglielo il buonsenso.”

“Chi vi dice che ne abbia… di buonsenso?”

L’agente era tornata a fronteggiarla.

“Signorina Romanova che ci creda o meno la conosciamo. Meglio di quanto creda. E siamo perfettamente consapevoli delle sue capacità e al servizio di chi… fossero. Quello di cui vogliamo accertarci qui, in questa sede, sono le sue condizioni di salute. Se i test fisici e psicologici cui è stata sottoposta per tutti questi anni abbiano compromesso irreversibilmente le sua capacità cognitive.”

“Se sapete già tutto perché tutte quelle domande, allora?”

La donna parve esitare.

“Per approfondire il caso e arrivare a chiuderlo, definitivamente. Per questo ci auspichiamo una sua collaborazione.”
Natuska sbuffò una risata.

“Ed io cosa ci guadagno, da tutta questa storia?”

La Hill non l’aveva mai guardata così seriamente.

“Ha evitato persino il carcere, in virtù delle sue condizioni fisiche e psicologiche. Non le sembra di averci già guadagnato abbastanza?”

Abbastanza? Abbastanza cosa? Un lettino? Delle cinghie? Un ambiente ostile?

“Avreste dovuto lasciarmi morire”, esalò allora, “nessun guadagno sarebbe stato migliore di quello.”

“L’agente Barton aveva dei buoni motivi per non farlo.”

L’agente Barton.

L’arciere.

Lo stesso arciere a cui avevano permesso di farle visita. Lo stesso uomo che aveva preso a pugni gli infermieri, prima che la sedassero, di nuovo.

“Non so chi sia…” si trovò a mormorare, mentre la testa si sforzava, disperatamente, di trovare anche un seppur minimo indizio che le suggerisse di averlo già conosciuto.

E non solo per il modo in cui la faceva sentire quando pronunciava il suo nome.

“Signorina Romanova…”

“Non mi chiamo… Romanova.” Fece ora, più incerta.

“Credo che per oggi sia sufficiente così… le consiglio di riposare, domani sarà un’altra lunga giornata.”

Ma Natuska non la stava più ascoltando. Quando la Hill si prodigò a legarle di nuovo i polsi, tenne i muscoli contratti e si preparò alla lunga nottata.

 

Alle undici e un quarto i corridoi erano deserti e tutto innaturalmente silenzioso. Solo la sagoma scura di una guardia o di un agente dietro la porta a vetri zigrinati a fare la ronda, di fronte alla stanza che stava occupando: a volte si rimetteva in piedi, per sgranchirsi le gambe, a volte sedeva.

Inspirò a fondo e prese a muovere lentamente le gambe sotto le lenzuola, per quanto le concedessero quelle maledette cinghie. A rianimarle dal torpore dei troppi giorni inattivi.

Fece lo stesso con i polsi, cominciando lentamente, pazientemente a farli roteare.

Non c’era fretta, l’aver tenuto contratti muscoli e nervi, al momento dell’aggancio adesso le aveva dato la possibilità di tenerli allentati, e non le fu difficile, dopo una serie di interminabili minuti, piegare abbastanza il polso da permetterle di sganciare le cinghie. Ne bastava una soltanto...

Represse un moto di trionfo quando il primo polso fu liberato.

Il resto fu tutto in discesa.

Si premurò di restare ben ferma sotto le lenzuola, prima di emettere un grido strozzato.

La porta si spalancò, come da copione, il secondo successivo.

“Che cazzo succede?”

L’agente Mills. Il professionista.

“Salve.” Lo accolse lasciva, prima di sedere rapida come una molla e scagliarglisi addosso, senza lasciargli nemmeno il tempo di mettere mano alla sua arma o di proferir verbo.

 

Lo trovò un’infermiera un paio di ore dopo. A terra, privo di sensi. Con addosso solo calzini e mutande.

 

*

Clint si era svegliato, accartocciato sul divano, di nuovo, nel bel mezzo della notte. Non una sconvolgente novità. Fra la vendita di un set di coltelli dalla lama affilatissima e quella di un attrezzo per sciogliere il grasso, aveva tirato tardi, ancora una volta.

Si era perso mezzo film in seconda serata.

Davano Ben Hur sul secondo canale. E nonostante la buona volontà di colmare, finalmente, quella mostruosa lacuna, non era comunque riuscito ad arrivare più in là del primo tempo.

Eppure era uno dei film preferiti di Coulson. Doveva scendere a patti, una volta per tutte, con il fatto che lui e Coulson avevano una concezione ben diversa di cultura… pop.

Quella del collega era troppo classica, troppo sofisticata. Ricolma di concetti complicati e dialoghi potenti. Quella di Clint invece si bilanciava fra il godimento assoluto di un inseguimento e una sana scazzottata, condita di dialoghi brillanti e meno verbosi.

Erano diversi. Ma questo non faceva di certo venir meno la sua stima per il collega. Al punto da spingerlo a guardarsi Ben Hur, quando sull’ABC davano le repliche di Twin Peaks.

Si stiracchiò per bene, il collo incriccato. Forse era davvero arrivato il momento di andare a dormire in un letto vero. Nonostante si fosse reso conto di aver bisogno di un rapido cambio di reti: se si muoveva troppo il cigolio diventava inquietante. E, per quanto lusinghiero, per le allusioni ai vicini, affatto conciliante… per il suo fresco riposo.

Il pomeriggio passato a sistemar archivi poi non era stato granché d’aiuto. Forse poteva usarla come scusa ufficiale per non essere riuscito ad arrivare alla fine della pellicola.

Coulson non gli avrebbe creduto mai. Non dopo quella volta che, dopo una missione di quattro giorni in Guatemala, era riuscito a vedersi l’intera trilogia di Indiana Jones per riprendersi dall’astinenza da tv.

Recuperò uno dei cuscini che erano miseramente crollati a terra e spense la tv, nel dondolio di un sedere che tutto aveva bisogno, fuorché di sciogliersi.

Si grattò una spalla, superò il corridoio, sbadigliò copiosamente nel riflesso dello specchio del bagno e si fermò di fronte al water per pisciare.

Nemmeno il tempo di lavarsi per bene le mani che i suoi sensi di falco entrarono in azione, uno dopo l’altro.

Fra lo zampillio dell’acqua e il riflesso di uno specchio sbeccato si trovò ad avvertire la canna di una pistola puntata esattamente fra le scapole.

Dannato Ben Hur! Se non si fosse fatto rincoglionire dal continuo ciarlare di sua maestà Charlton Heston avrebbe sedato immediatamente quell’intrusione.

Sospirò con aria teatrale.

“Seriamente?” domandò senza darsi nemmeno la pena di capire chi fosse. Una mossa rapida e gli afferrò il braccio che reggeva l’arma; strinse talmente forte che questo fu costretto a mollare la presa per evitare di vederselo spezzare.

Lo scaraventò contro il muro antistante con una forza tale che ne sentì il busco contraccolpo. Ma non prima di sentirsi falciare entrambe le gambe e finire a scivolare sul pavimento del bagno a un passo dallo spigolo della doccia.

“Merda!” le mani cercarono di artigliare le piastrelle scivolose per tirarsi su, ma un ginocchio, dritto sul petto e le mani ancora bagnate, gli impedirono qualsiasi mossa.

“Non voglio farti del male.” Sibilò una voce, dietro una divisa troppo larga dello… SHIELD?

“Chi cazzo, s-sei… ?”

“Non lo so. Dimmelo tu, visto che sembri saperlo meglio di me.” Una voce di donna.

Il berretto che le teneva nascosti i capelli cadde a terra, liberando una chioma fulva che gli piovve in faccia come uno schiaffo.

“Agente Barton.”

Si trovò a trattenere malamente il fiato quando riconobbe quel viso, ma soprattutto quegli occhi, che in quel momento, di glaciale, non avevano proprio un bel niente.

 

*

 

Non era sicura fosse normale. Non del tutto. Non sicura che dovesse trovare tanto familiare… essere seduta al bancone della cucina di un perfetto sconosciuto, con una tazza di caffè fumante fra le mani.

Addosso la divisa troppo grossa di quel bestione di Mills. Le maniche arrotolate più volte per impedire che le coprissero anche le mani.

Eppure sì, insomma... ci si trovava a suo agio. Nonostante gli sguardi continui e vagamente intimidatori che l’arciere continuava a mandarle.

Nonostante non conoscesse che il suo nome.

Nome che le aveva permesso di fare delle ricerche. E di trovare il suo appartamento a Brooklyn.  Un gioco da ragazzi.

“Ripetimi un po’ come hai fatto ad arrivare qui.”

“Sono scappata.”

“Questo… mi sembra evidente. Mi chiedo solo dove tu abbia trovato quella divisa.”

“La guardia che doveva tenermi sotto controllo.”

Lo sentì sbuffare una risata.

“Questo significa che c’è un agente dello SHIELD nudo, in giro?”

“Precisamente.”

“Chi?”

“Mills.”

La risata di Clint le risultò poco appropriata, ma vagamente… divertente.

Si decise a prendere un sorso di caffè. E fece una smorfia. No, non le piaceva. Il sapore però le risultò anche quello, fin troppo familiare. Non tanto per la bevanda in sé, più per una questione di… marca. Una pessima marca, se glielo avessero chiesto.

Osservava l’uomo cercando di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che le consentisse di riportare alla memoria qualche dettaglio sul suo conto, ma fino a quel momento, a parte la sensazione di familiarità che di per sé l’aveva tranquillizzata, non riusciva a percepire altro.

“Lo sai che dovrei chiamare lo SHIELD? E riportarti indietro?”

Gli lanciò uno sguardo allusivo: non ci sarebbe riuscito a meno che lei non glielo avesse permesso. Chissà come, dal suo tono, intuì che lo sapesse perfettamente anche lui.

“Perché non sei scappata? Per davvero, voglio dire. Perché sei venuta… da me?”

La domanda le sembrò così superficiale che per qualche istante fu sul punto di non rispondergli nemmeno, ma poi cedette. Aveva bisogno di essere pratica. E rapida. Se fossero stati sulle sue tracce o lui avesse avuto intenzione di fare mosse azzardate, non avrebbe avuto molto tempo.

“Perché sei l’unica persona che sembra conoscermi. Per davvero.” Dovette aggiungere sul finale, per evitare un’altra ovvia puntualizzazione.

Lo vide sospirare e di nuovo rivolgerle quello sguardo triste, che nascondeva un tormento che non riusciva… a concepire. Non ancora, almeno.

“E' vero.” Le sue parole si sciolsero con i suoi dubbi. Le sembrarono sincere. Così come lo erano state il giorno in cui era venuto a trovarla in ospedale. Solo che allora non era pronta.

Adesso invece… aveva bisogno di sapere. Aveva lasciato macerare il dubbio tanto da ammorbarlo.

“Cinque anni fa. Hai detto che ci siamo incontrati cinque anni fa. Che cosa facevo in quel periodo?”

Clint si avvicinò appena, attirando a sé la sedia che le stava di fronte.

“Bè…” l’aspettativa crebbe per tutto il tempo in cui Barton si attardò a prendere posto. “Niente di più di quello che stai facendo adesso. Avevi perso la memoria, anche allora.”

Si accigliò considerando appropriata quella constatazione. Quante volte l’avevano cancellata? Potevano essere dieci, come cento. Non se ne sarebbe ricordata comunque.

“Solo che in più vomitavi.”

“Che cosa?” adesso era confusa.

“Sì, vomitavi. Parecchio spesso anche. I primi tempi.”

“Di che cosa stai parlando?”

“Del… niente.”

“Non hai risposto alla mia domanda.”

“Ti ho risposto. Avevi perso la memoria… e… SHIELD, FBI e gentaglia russa ti… stavano cercando. Te e un cazzo di floppy pieno di informazioni. Una cosa che devi avergli sottratto… prima che ti trovassi in quel vicolo.”

“Quale vicolo?”

“Il vicolo…” esitò, e poi spazientito: “oh, un vicolo! Dietro a un pub. Te ne stavi lì, con un coltello fra le mani e un ragazzetto morto ai piedi.” Sembrò accigliarsi.

“Vai avanti.”

“E non sembravi stare troppo bene. A malapena ricordavi il tuo nome.”

“Quale nome?” insistette incalzante.

“Natalia.”

“Perché mi chiami, Nat, allora?”

“Natalia era… troppo lungo”, stronfiò sbrigativamente. “Senti, sembra un interrogatorio, non -”

“E’ un interrogatorio.” puntualizzò seccamente. Non era niente altro che quello. Non poteva essere altro che quello.

“Ah”, in quell'unica sillaba avvertì, senza troppo sforzo, tutta la delusione. “Sentivi per caso la mancanza dei polizieschi?” stava ancora blaterando di stupidaggini senza senso.

“In che rapporti eravamo?” proseguì.

“… o magari delle maratone di fantascienza…”

“Che è successo dopo il vicolo?”

“… sai che ho ancora tutti i fumetti di Batman?”

“Mi stai ascoltando?”

“E quel cazzo di dvd di Titanic… che ho consumato.”

“Non stai rispondendo alle mie-”

“Titanic. Salti tu, salto io, ricordi?”

Salti tu... salto io.

Natuska avvertì immediatamente un formicolio alla base della nuca. Che andò a propagarsi per le scapole e avvampare in una spirale su per le spalle, per la gola, ad animarle il petto in uno strappo imprevisto.

“C-che hai detto?” si sentì pronunciare con una voce che non riconobbe come propria.

Lo vide scrutarla, con tutt’altra espressione ora.

“Salti tu… salto io.”

Salti tu, salto io.

 

Un precipizio.

L’impatto con l’acqua.

 

Scansò la sedia con una forza tale che fece barcollare la tazza ancora colma di caffè.

“C-che hai detto… ?” la voce le fremeva in modo incontrollato, la pelle ricoperta di brividi.

“Nat…”

Un vago tremore alle gambe.

“Non pronunciare il mio nome.”

“Nat.”

“Non pronunciare così il mio nome!”

Barton si era rimesso in piedi, e fece per raggiungerla ma lei fu più veloce e si allontanò con un gesto d’ammonimento.

“C-chi sei?”

“Clint. Solo… Clint.”

Quel suo sguardo triste, così triste.

E adesso che diavolo era quel pizzicore agli occhi?

Le Vedova Nera non era stata addestrata a piangere. Ivan non le aveva insegnato a piangere, semmai il contrario. Ivan le aveva insegnato a trattenere le emozioni. Tutte quante...

E adesso usciva questo tizio che con due parole era stato in grado di procurarle quello scompiglio del tutto irrazionale.

Natalia.

Aveva detto che all'epoca si chiamava Natalia.

Era quello che avrebbe dovuto conservare di quell'identità?

Natuska non era altro che l'involucro momentaneo, quello che si era guadagnato la libertà, quello che stava sperimentando la confusione.

Ma Natalia.

Cosa era stata... Natalia?

Natalia era stata dolore e lacrime? Era questo che le suggerivano gli occhi tristi dell'arciere.

Improvvisamente non fu più sicura di volerlo scoprire.

“Che cosa era Natalia?” mormorò seguendo più una riflessione che l'intenzione di iniziare un dialogo.

“Natalia non lo so.” lo sentì dire e fece scattare di nuovo lo sguardo su di lui. “Però Nat era mia amica.”

Amica.

“Io non ho mai avuto amici...”

“Questo solo perché non te lo ricordi.” le stava sorridendo adesso. Di quel sorriso assurdo, triste e sincero allo stesso tempo. “E in ogni caso io parlavo di Nat. Tu chi sei?”

Era una domanda a trabocchetto? Non aveva la lucidità giusta per... analizzarla.

“Non... lo so.” rispose allora, sincera, per una volta tanto.

Lo vide annuire, come a prenderne atto.

“Forse allora è arrivato il momento di deciderlo, non credi?”

Decidere... chi essere? Lei... che non aveva potuto farlo mai.

Avrebbe potuto restare Natuska per sempre. O tornare a vestire i panni di Natalia, fra le lacrime e il dolore, oppure...

Nemmeno si era accorta di star trattenendo il fiato.

 

Oppure.

 

---

 

Note:

Qualcosa si smuove nella coscienza della nostra Vedova Nera. Saranno stati gli occhi tristi di Clint, i suoi riferimenti al loro vissuto o altro? La storia si sta avviando alla conclusione. Ebbene sì, dopo questo, ancora due capitoli e sarà finita. Per come era partita, direi che sono soddisfatta di averla conclusa. E come si concluderà, lo saprete presto.
Per il resto… ringraziamenti conclusivi a tutti, alla socia/beta e… ci sentiamo per il prossimo capitolo!

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Sheep01