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Autore: Helena Kanbara    22/09/2014    4 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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2.    I KNEW YOU WERE TROUBLE 

 
I think part of me knew the second I saw him that this would happen.
It’s not really anything he said, or anything he did. It was the feeling that came along with it.
And crazy thing is, I don’t know if I’m ever going to feel that way again.
But I don’t know if I should.
 
 
L’intera sala di controllo dell’Arca era ancora in fermento quando Abigail Griffin ci rimise piede per l’ennesima volta in quella giornata. Le condizioni dei Cento erano ancora un’incognita ma perlomeno tutti sapevano che la navicella fosse atterrata sulla terraferma e ciò era servito a calmare almeno un po’ gli animi. Le comunicazioni, tuttavia, erano ancora totalmente fuori uso e il nervosismo di Marcus Kane non faceva altro che aumentare a dismisura.
Abby gli riservò un’occhiata giusto un attimo prima che il Consigliere prendesse a parlare, e allora si fermò per ascoltarlo, proprio come tutte le persone presenti in quella stanza.
“Non sappiamo quali siano le condizioni della Terra ma, grazie ai bracciali di Abby,”, affermò, chiamandola in causa e donandole a sua volta un’occhiata. “sappiamo come i corpi dei Cento sono influenzati da queste condizioni”. 
“La domanda è: cosa sappiamo esattamente?”, chiese uno dei tanti uomini nascosti in fondo alla sala, ed Abigail si voltò a guardarlo prima di rispondere.
Avanzò nella direzione della grande schermata principale sulla quale se ne stavano tanti badge elettronici, uno per ciascuno dei cento delinquenti mandati in precedenza sulla Terra. Da lì era possibile tenerli tutti d’occhio, osservare i loro valori primari e tante altre cose del genere. Tutto grazie ai bracciali che lei stessa aveva ideato e costruito, seppur solo parzialmente. Prima ancora che Marcus si complimentasse con lei, Abby si sentì davvero fiera di se stessa.
“Abbiamo due morti”, disse poi, donando lo sguardo al pavimento in segno di dispiacere. “e una teoria”.
La Dottoressa Griffin si ritrovò addosso diversi sguardi confusi e trattenne un sorriso. Non ci stavano capendo niente ma dopo l’accurata spiegazione del suo allievo, tutto sarebbe stato chiaro. A proposito, cercò lo sguardo del Dottor Jackson e gli intimò di parlare con un cenno del capo.
“I Cento sono sulla Terra da soli sette minuti”, esordì lui, con un tono di voce autoritario e deciso. Credeva a quell’ipotesi almeno tanto quanto Abby. “e per ora crediamo che i due ragazzi di colore non siano morti per via di possibili radiazioni ma per problemi precedenti l’atterraggio”.
“I loro braccialetti hanno smesso di funzionare nello stesso momento in cui abbiamo perso contatti con la navicella”.
“Dunque mentre erano ancora in volo”.
Abby annuì e questo diede la spinta a Kane affinché continuasse a parlare.
“Possiamo escludere la presenza di radiazioni dal momento che non vedo nessun aumento drastico di morti?”.
Quella domanda la prese in contropiede. L’aria sulla Terra non era nociva? Davvero troppo presto per dirlo. Quando glielo spiegò, Kane non si perse d’animo.
“Cosa sono tutti questi aloni rossi attorno ai badge?”, domandò, tenendone d’occhio solo uno in particolare.
“Indicano un aumento del segnale vitale. O i ragazzi sono rimasti feriti in seguito all’atterraggio o sono felici di essere lì”.
A quel punto, al Consigliere non restò altro da fare che pregare affinché Brayden facesse parte della seconda schiera – quella dei felici. Abigail dal canto suo non ne aveva bisogno: Clarke era sana e salva, lei lo sapeva.
 
 
“Ti dispiace?”.
Wells Jaha sapeva farsi valere. Fu questa l’unica cosa alla quale pensai, inginocchiata sulla terra umida e con la schiena poggiata contro una delle pareti della navicella. Eravamo dispersi in mezzo al nulla, lontani dal luogo pieno di provviste da noi indicatoci dal Cancelliere, e il nervosismo iniziava a farsi sentire. Senza muovere un muscolo, continuai a godermi la scena, curiosa di sapere fin dove quei ragazzi si sarebbero spinti.
“Giù le mani da lui, è con noi”.
Con noi? Iniziavano già a formarsi team? Ed io non ero stata invitata in nessuno di questi, che peccato. Sospirando, distolsi lo sguardo dalla scena e lo riportai sul foglio di carta immacolato di fronte ai miei occhi. Non sapevo più cosa scrivere ma tenere la mia agenda tra le dita riusciva a rendermi tranquilla. E a farmi sentire meno sola. Era un’ottima compagnia.
“Siamo sulla Terra. Non ti basta, Jaha?”.
Prima di allora non ero mai stata in compagnia di Bellamy Blake, non ne avevo mai nemmeno sentito parlare ma mi era bastato ritrovarmi con lui sulla navicella per capire che fosse esattamente come quello che si mostrava. Pieno di sé, di difetti e innamorato del suono della sua voce. Non stava un attimo zitto ma l’uniforme da guardia gli donava. Bellamy VS Brayden: 1 – 1, palla al centro.
“Dobbiamo trovare il monte Weather se vogliamo sopravvivere. Tutte le provviste sono lì”.
“E una foresta di radiazioni ci separa dal posto”.
Aggrottai immediatamente le sopracciglia. Cosa significava ciò che Clarke Griffin aveva appena detto? Con la voce incapace di nascondere una punta di paura, le posi la domanda della quale speravo la risposta non fosse quella che credevo.
“Ci hanno fatti atterrare nel posto sbagliato?”, pigolai, ancora seduta a terra, poco prima che almeno una ventina di sguardi mi si abbattessero contro.
Per quello preferivo rimanere nell’ombra e starmene sempre da sola. Nessuno mi osservava, nessuno parlava di me. Soprattutto nessuno faceva commenti tipo: “È Brayden Kane, la figlia del Consigliere” o “Un’altra privilegiata”. Li odiavo tutti.
“Sì”, sancì Clarke dopo qualche minuto di smarrimento, probabilmente dovuto all’avermi rivista dopo esattamente un anno.
Non eravamo mai state particolarmente legate – era raro che stringessi rapporti con qualcuno – ma lei era sempre stata intorno a me e parte integrante della mia vita, un po’ come un satellite che ruota senza mai fermarsi attorno ad un pianeta. La stessa cosa valeva per Wells e per pochi altri privilegiati, come ci definiva gran parte dei Cento. In quel momento mi ritrovai a pensare che non avessero poi così tanto torto.
“Dobbiamo raggiungere il monte Weather prima di morire di fame. Andiamo, sono solo 30km! Dobbiamo partire subito se vogliamo arrivare lì prima che faccia buio. Chi è con me?”.
Fu solo a quel punto che mi misi in piedi, lasciando da parte agenda e penna poco prima di spolverarmi gli skinny jeans dai residui di terra umida. Mi tirai i capelli indietro e poi avanzai verso Clarke, parte di una delle due fazioni che si erano venute a creare. Da una parte, infatti, se ne stavano lei, Wells e i ragazzi che avevo sentito parlare in precedenza. Di fronte, i fratelli Blake. Erano il nemico? Non potei fare a meno di chiedermelo.
“Hai detto che il bosco è pieno di radiazioni. Come lo sai?”, chiesi, infossando entrambe le mani nelle tasche dei jeans.
Altri sguardi su di me, altri sforzi per ignorarli tutti. Clarke scosse la testa, facendo ondeggiare i riccioli biondi.
“Non lo so, lo presumo”, mi spiegò poi, facendo spallucce.
“E ammettiamo che le tue presunzioni siano vere: moriremo. Non possiamo andare”.
Clarke continuò a fissarmi con una ben evidente aria d’indifferenza, poi mosse un passo indietro e si voltò a guardare Wells. Fin da quando avessi memoria, non c’era stata una volta in cui non li avessi visti insieme. Quei due erano inseparabili: non migliori amici, fratelli. Avevano un rapporto di quelli da invidiare. E lui pendeva letteralmente dalle sue labbra.
“Faremo questa fine comunque, Brayden”, disse poi Clarke, ritornando a guardarmi mentre faceva scivolare la lingua sulle consonanti nel mio nome. “Dobbiamo almeno provarci”.
Non aveva tutti i torti, lo capii subito. Non potei far altro che annuire.
“Sono con te”.
“Nessun altro si aggrega?”.
Neanche a dirlo, dalla folla si levò una moltitudine di: “No”. Delinquenti e anche codardi. Perfetto. A quanto pareva toccava a noi tre.
“Tocca a voi privilegiati”, confermò una voce in lontananza, e Bellamy Blake le diede subito ragione.
“Tocca a voi”, osservò, racchiudendo me, Clarke e Wells in un’occhiata divertita.
“No! Dobbiamo andare tutti”.
Wells Jaha non sapeva farsi valere. Oh Dio, poteva essere bravo con le parole ma alla fine non concludeva mai niente. Credo fosse il coraggio che gli mancava. Io me ne intendevo: il coraggio ce l’avevo nel nome.
“Guardate un po’! Il Cancelliere della Terra”, lo derise quello che ricordai subito come il capo di uno dei team formatisi, spintonando Wells con violenza.
“Credi che faccia ridere?”, gli domandò lui in risposta.
Capii subito che la situazione stesse per degenerare e ne ebbi la conferma nel momento in cui Wells fu trascinato a terra dallo sgambetto del suo avversario. Fu allora che decisi di intervenire, ignorante del fatto che il figlio del Cancelliere fosse già nuovamente in piedi – seppur a fatica – pronto a confrontarsi col ragazzo che aveva di fronte.
“Perché non la smetti di fare il cazzone?”, urlai proprio nella sua direzione, ponendomi tra i due affinché potessero evitare di saltarsi addosso come nient’altro che bestie feroci.
Lui di tutta risposta alzò le mani al cielo in segno di resa mentre ancora lo tenevo lontano da Wells con le mie mani puntate sul suo petto e poi mi sorrise appena, piegando lievemente le labbra all’insù in uno di quei mezzi sorrisini che col tempo avrei imparato ad odiare. Capelli medio-lunghi, occhi azzurri e faccia da culo. Avrei fatto meglio a stargli lontana.
“Calma, Ginger”, furono le prime parole che mi rivolse, e il solo sentire la sua voce fece sì che mi allontanassi dal suo corpo, come scottata. “Papino non ti ha insegnato le buone maniere? Non si mettono le mani addosso ad uno sconosciuto, a meno che lui non voglia”.
A quel punto nulla più mi fermò dall’agire. Bastava che nominassero mio padre per farmi perdere completamente la ragione? , mi dissi, mentre il mio pugno s’infrangeva contro il naso del ragazzo di fronte a me e avvertivo degli scricchiolii per niente piacevoli.
Era guerra aperta.
 
 
“Ehi”.
Con quel richiamo deciso, Clarke attirò nuovamente l’attenzione di tutti su di sé e si avvicinò a Finn tanto da afferrargli il polso destro. Lo strinse tra le dita senza violenza ed esaminò attentamente il braccialetto color argento al polso di Spacewalker. Io la imitai, curiosa.
“Hai cercato di toglierlo?”, la sentii domandargli, nell’attimo esatto in cui notai una lieve incrinatura nel materiale.
Istintivamente, nascosi il braccio destro dietro la schiena e mi tirai in piedi. A quanto pareva non ero stata l’unica a farsi venire in mente la felice idea di disfarsi di quell’aggeggio senza però riuscirci. La pelle martoriata e arrossata del mio polso ne era la ben evidente dimostrazione.
“Sì, e allora?”, mormorò Finn, liberandosi gentilmente dalla presa ferrea di Clarke.
“Questo braccialetto trasmette i tuoi segni vitali all’Arca. Toglilo e ti crederanno morto”.
Devo sbarazzarmene all’istante. Quale cosa migliore del far credere a mio padre che fossi deceduta? Quale vendetta più dolce?
Arretrai verso una zona lievemente più in ombra rispetto a quella nella quale ci trovavamo, guadagnandomi un’occhiata incuriosita da parte di Bellamy Blake, l’unico in disparte e l’unico ad avermi notata. Distolsi immediatamente lo sguardo dai suoi occhi scuri e lo portai tutt’intorno a me: a Wells inginocchiato sul terreno, a Finn e Clarke l’uno di fronte all’altra, a Jasper e Monty che avevano deciso – non di loro spontanea volontà – di unirsi a noi per la missione “recupero cibo”, e ad Octavia – l’ultima arrivata.
“Vuoi che i tuoi cari ti credano morto? Vuoi che vengano qui, tra due mesi? Perché non verranno se credono che stiamo morendo”.
La voce di Clarke mi riportò alla realtà e puntai lo sguardo sulla sua schiena rigida. Mi sentivo come se quelle domande fossero state poste direttamente a me e non a Finn, e seppur senza parlare, le donai delle risposte decise. Sì, volevo che i miei cari mi credessero morta. Volevo che mio padre lo credesse, giusto per fargli capire che mi avesse persa per sempre – e quella volta sul serio. No, non volevo che gli abitanti dell’Arca ci raggiungessero laggiù. Sentivo la Terra mia e la vedevo così meravigliosa da considerarla troppo per quella massa di gente ingrata.
Finn non parlò più ma scommisi tra me e me che le sue risposte fossero la copia esatta delle mie e non potei proprio fare a meno di trattenere un sorriso, tirando fuori il braccio che avevo tenuto nascosto per tutto quel tempo solo per poterlo coprire nuovamente – quella volta con la manica della mia giacca scura. Di sicuro qualcuno si sarebbe insospettito se avessi continuato a camminare con un braccio dietro la schiena, ma con quel metodo non potevo rischiare nulla. Peccato però che Bellamy Blake osservò tutta la scena e soprattutto il mio polso martoriato e il braccialetto mezzo distrutto, guadagnandosi ufficialmente il primo posto nella lista nera che avevo deciso di buttar giù.
Lo fulminai con lo sguardo e poi presi a muovermi il più lontano possibile da lui, raggiungendo i ragazzi che avrebbero partecipato insieme a me alla missione, felice di lasciarmelo indietro. Era indiscreto e mi avrebbe dato non pochi problemi: era senz’altro un bene che avesse deciso di restare al campo e non unirsi a noi per il recupero dei rifornimenti al monte Weather.
Mi sistemai una borsa con tutto l’occorrente in spalla, recuperai la mia agenda e la penna e mi preparai a partire insieme a tutti gli altri. Clarke controllò che fosse tutto a posto e quando fu sicura, fece un vago cenno di saluto nella direzione di Bellamy e poi ci squadrò tutti, uno per uno, alla ricerca di qualsiasi esitazione. Quando per lei fummo pronti, facemmo per avviarci ma una bruttissima voce fece sì che dovessimo fermarci immediatamente ed io non potei evitare di voltarmi a squadrarne il proprietario con occhi pieni d’astio.
“Non intenderete partire senza di me, spero”, osservò, con un vago senso di divertimento nella voce.
Mi bastò analizzarlo per pochi altri attimi e poi riportare lo sguardo su Bellamy, colpevole di aver attirato nuovamente la mia attenzione. Mi fu tutto subito chiaro. L’aveva mandato lì lui: quei due si erano coalizzati e si contendevano ufficialmente il primo posto nella mia lista nera.
John Murphy, però, sembrava essere il più papabile per la vittoria.
 
 
“D’accordo, Ginger. Sono curioso, lo ammetto. Perché ti trovi quaggiù insieme ai criminali?”.
Feci per arrestare improvvisamente la mia camminata, ma riuscii a desistere. Non dovevo mostrare emozioni, nemmeno un barlume di sorpresa o interesse. Non nei suoi confronti. Perciò continuai a marciare, tenendo gli occhi fissi sui cinque ragazzi di fronte a me. Eravamo gli unici rimasti indietro e in disparte e per quanto avessi provato a rimediare alla cosa, non c’era niente che potessi fare per scollarmi John Murphy di dosso. O per zittirlo un attimo.
“Non capisco il vostro modo di pensare, sai?”, mi ritrovai a chiedergli dopo qualche attimo di silenzio pacifico, stringendo ulteriormente le dita sulle spalline del mio zaino pur di resistere all’impulso di voltarmi a guardarlo.
Non anche quella soddisfazione.
“Trovo la convinzione che vi spinge a crederci impunibili a causa dei nostri genitori davvero assurda. Mi dispiace ma vi sbagliate. Commettiamo errori anche noi privilegiati, facciamo cazzate come qualsiasi adolescente che si rispetti e ci puniscono per questo, ancor più duramente a causa del cognome che portiamo. Perché dovremmo essere l’esempio ma non ci riusciamo. Ed è una vergogna”.
Completai la mia arringa con un tono di voce sempre più lieve e dispiaciuto, rendendomi conto di quanto poco stessi riuscendo a tener fede ai miei obiettivi. Niente emozioni? Certo, come no. Repressi l’impulso di mordermi la lingua per tutto quello che mi ero lasciata sfuggire e sbattei violentemente le palpebre nell’inutile tentativo di asciugare gli occhi dalle lacrime che vi si erano andate a formare.
“Tuo padre pensa tu sia una vergogna?”, fu ciò che Murphy mi chiese subito dopo, vagamente sorpreso mentre ancora mi camminava alle spalle.
“Cosa ti fa credere che non stessi parlando in generale?”, ricambiai, rinunciando all’ennesimo dei miei propositi prima di voltarmi a guardarlo.
Lui di tutta risposta mi donò un’occhiata alla “Ma chi pensi di prendere in giro?” ed io evitai prontamente il suo sguardo, riprendendo a marciare come se non ci fosse un domani. Quegli occhi azzurri puntati su di me riuscivano a mettermi paurosamente in soggezione e non potevo permettermi di mostrarmi così debole davanti al nemico. Peccato però che proprio colui che avrei dovuto odiare si stesse mostrando l’unico in grado di capire e ascoltare.
“Mio padre mi ha cresciuta praticamente da solo e ha fatto davvero un ottimo lavoro. Mi ha riempito fin da subito la testa con tutte quelle cazzate nelle quali crede tanto e mi ha trasformato in una bellissima bambina ubbidiente che però ha scelto di venire meno ai suoi obblighi non appena compiuti i sedici anni. È per questo che mi hanno messa in isolamento”, spiegai, arrendevole.
“Quanti anni hai ora?”.
“Diciassette”. Decisa, non avevo certo bisogno di pensare a quella risposta. “Io e Octavia siamo le più piccole”.
“Hai passato trecentosessantacinque giorni in isolamento? Tu?”.
Ancora quel tono sorpreso, ancora che alzavo spazientita gli occhi al cielo e distoglievo lo sguardo dalla piccola Blake che avevo tenuto sotto controllo per quasi tutto il tempo senza nessun motivo in particolare. Volsi nuovamente il capo alle mie spalle e arrestai addirittura la mia camminata nell’attesa che Murphy mi raggiungesse.
“Te l’ho detto che non ci risparmiano solo per il cognome che portiamo”, gli feci presente quando mi fu accanto, rendendomi conto forse un po’ troppo tardi della piega che assunsero le mie labbra senza che riuscissi ad impedirmelo.
Stavo sorridendo. Gli stavo sorridendo.
Smisi immediatamente di farlo ed imprecai a bassa voce, guadagnandomi un’occhiata divertita – l’ennesima – da parte di Murphy. Feci per accelerare nuovamente il passo e scappargli, ma lui previde subito le mie intenzioni e stette ben attento a non restare più indietro. Onde evitare ulteriori imbarazzi e scampare all’odioso silenzio che si era venuto a creare tra di noi, mi schiarii la gola e ripresi a parlare.
“Tu quanto tempo hai passato in isolamento?”.
“Due mesi”, rispose subito, tranquillo e facendo spallucce mentre a me ritornava automaticamente la voglia di dargli contro.
Privilegiato”, soffiai infatti, voltandomi a guardarlo di scatto.
“Spiritosa”.
Ci fu dell’altro silenzio e dell’altro imbarazzo. Distolsi i miei occhi verdi dai suoi e mi diedi della stupida per l’ennesima volta. Non dovevo dargli tutto quel potere né quella importanza, davvero. Era un ragazzo decisamente carino e si stava dimostrando meno fastidioso di quanto avessi creduto – decisamente non da primo posto nella mia lista nera – ma dovevo continuare a stargli alla larga e dare ascolto alle mie sensazioni. Tuttavia, fino a quel momento non sembravo star avendo successi.
“Perché sei venuto?”, domandai dopo qualche tempo, decidendo di dedicarmi a cose senz’altro più importanti.
“Per te”.
Alzai gli occhi al cielo. D’accordo, era carino e simpatico ma così non funzionava. Non con me, che non ero affatto una di quelle solite ragazzette tutte rossori e intelligenza sepolta chissà dove. Sapevo bene quando una cosa fosse detta con sincerità o solo per fare colpo, e quelle due paroline erano state utilizzate ovviamente per adempire al secondo obiettivo.
“Dico sul serio, Murphy”, mormorai, sempre evitando il suo sguardo e continuando a camminare con le dita strette attorno alle spalline rosse dello zaino.
“John”.
“Eh?”.
La confusione però fece sì che mi arrestassi ancora una volta e con le sopracciglia aggrottate, cercai il viso del mio compagno. Lo so, avrei potuto evitare di definirlo così ma come altro etichettarlo?
“John. Mi chiamo John”.
“Lo so”, sussurrai, riscossa improvvisamente dai miei continui e interni vaneggiamenti. “Io Brayden. Giusto in caso ti venisse voglia di chiamarmi Kane. Sappi che non gradirei”.
Ed era vero. Se solo avessi potuto, avrei cambiato cognome. Peccato però che da lì alla nascita di un municipio sulla Terra ne sarebbe dovuta passare, di acqua sotto i ponti.
“Preferisco chiamarti Ginger”, mi fece presente allora Murphy – no, non era il momento di chiamarlo John – sorridendo di sbieco.
Alzai nuovamente gli occhi al cielo. Poi, decisa, ritornai sull’argomento di importanza fondamentale.
“Perché sei venuto?”, domandai ancora, guadagnandomi un’occhiataccia seguita da una risposta.
Trattenni un sorriso.
“Me l’ha chiesto Bellamy. E sarebbe meraviglioso se la smettessi di fare la gnorri, perché ti trovo ancora più irritante del normale, sappilo”.
“Che cavaliere”, osservai, colpita.
“Sono sincero, perlomeno”.
“Questo è ancora tutto da vedere”. Poi tornai all’attacco, ancora non pienamente soddisfatta. “Perché sei venuto?”.
“Credevo di aver già risposto a questa domanda”.
Credevo mi avresti uccisa. Sì, mi rendevo conto di essere insopportabile, alle volte. Ma la tranquillità di Murphy tranquillizzò anche me, e prima di rispondergli mi limitai a fare spallucce.
“Non come volevo io”.
“Bellamy voleva tenervi d’occhio senza attirare attenzioni, ed eccomi qua”, fu la spiegazione che ricevetti, semplice e accurata abbastanza da soddisfarmi.
Le mie sensazioni erano giuste: Bellamy Blake era il nemico. Ed io dovevo solo scegliere se stare dalla sua parte o meno. Per allora, meglio non pensarci e continuare a punzecchiare Murphy. Non l’avrei mai ammesso ad alta voce ma la cosa riusciva a divertirmi più del lecito.
“Cos’è peggio: privilegiata o schiavo?”, gli domandai, voltandomi nuovamente a fronteggiarlo mentre lottavo contro me stessa per non scoppiare a ridergli in faccia.
“Non lavoro per Bellamy”, si giustificò prontamente lui, indurendo lo sguardo sulla mia figura. “Cioè, sì. Ma solo perché intendo ricavarci qualcosa. Non sono così stupido”.
Ripresi a camminare.
“Lo so”, annuii. “Ed è per questo che mi stupisco. Cosa potresti mai ottenere da Bellamy Blake? È in basso nella catena alimentare”.
Murphy ridacchiò, raggiungendomi ancora una volta con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni scuri.
“Forse sull’Arca, ma non quaggiù. Qui è tutto capovolto e mi sorprende che tu ancora non l’abbia capito”.
La Bocca della Verità. Non potei fare a meno di dargli ragione, seppur solo nella mia mente. Non avrei mai rischiato di soddisfarlo così tanto, ma ad ogni modo distolsi lo sguardo dal suo viso e lo puntai tutt’intorno a me, improvvisamente pensierosa.
“«Gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi»”, mormorai dopo qualche attimo, citando un famoso estratto dal Vangelo di Matteo che avevo avuto modo di leggere durante il mio anno di isolamento.
Fu forse con un po’ di ritardo che mi resi conto di essere intrappolata senza nessuna via di fuga tra il tronco di un albero e il corpo di Murphy. Il bastardo aveva deciso di approfittare senza remore della mia distrazione e in quel momento se ne stava di fronte a me con un sorrisino da perfetto stronzo in viso. Mi ritrovai per una delle poche volte in tutta la mia vita incapace di parlare e temetti che avrebbe fatto qualcosa che non volevo – o che al contrario volevo così tanto da preferire non ammetterlo: su quel punto ero ancora piuttosto indecisa e combattuta – ma per mio immediato sollievo si limitò semplicemente a darmi un leggero buffetto sul naso.
“Lo vedi che sei intelligente quando vuoi?”, mormorò, mentre io di conseguenza socchiudevo gli occhi e trattenevo a malapena l’impulso di ridere.
Quel gesto era stato di una… dolcezza unica. Dannazione.
“Sono intelligente sempre”, trovai chissà dove la forza di replicare, più per sgusciare via da quell’imbarazzante situazione che per la voglia di parlare.
Credetti che Murphy avrebbe aggiunto qualcos’altro ma quando fece per aprir bocca il tono di voce spazientito di Clarke attirò la nostra attenzione e mi ritrovai a sobbalzare senza riuscire ad impedirmelo.
“Ragazzi, tenete il passo, per favore!”, ci ammonì, mentre io pregavo fossero tutti lontani abbastanza da non riuscire a vederci in quella fraintendibile posizione dalla quale mi liberai in tutta velocità.
Fu solo allora che mi resi conto di quanto sarebbe stato facile farlo anche in precedenza e mi diedi della stupida, scuotendo piano la testa mentre riprendevo a camminare stando ben attenta a dove mettevo i piedi. Avrei potuto benissimo farmi lontana da Murphy ma avevo preferito non farlo. Era incredibile ma era la verità.
Quando ebbi camminato abbastanza da rendermi conto di essere sola, arrestai improvvisamente i miei passi e mi voltai alle mie spalle.
“Andiamo?”, chiesi proprio a Murphy, ancora fermo dietro di me, fingendo tranquillità.
Lui semplicemente annuì, poco prima di raggiungermi nuovamente.
“Andiamo”.


 
 
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Ringraziamenti
A Taylor Swift, per
 I knew you were trouble che è TUTTO e fa da titolo/canzone citata in questo capitolo.
A Axelle__, per la sua meravigliosa recensione.
A chi ha messo questa storia tra le sue seguite.


Note
Quando Brayden dice:
il coraggio ce l’avevo nel nome, lo intende sul serio. Difatti il significato del nome Brayden deriva dall'inglese brave: coraggiosa.
Potete trovarmi su fb, 
Helena Kanbara.
Spero che questo capitolo vi piaccia. Insomma, Ginger e Muffin (sì, ormai lo chiamo Muffin. Grazie, Migliore Amica. ♡) si sono già odiati/amati e a me piacerebbe proprio moltissimo sapere cosa ne pensate su questi due. Per ora posso dirvi solo che siamo appena appena all'inizio.

Grazie come al solito a chi leggerà, recensirà (?), seguirà, preferirà, ricorderà, schiferà e chi più ne ha più ne metta.
Aggiornerò tra un mese, e non sto scherzando. Bai.
   
 
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