Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Hermione Weasley    23/09/2014    4 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
-
“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

- Capitolo 4 -

 

 

6 ore dopo

nei pressi di Albuquerque, New Mexico

 

“Mi scusi, potrebbe prestarmi la cartina?” Un sorriso smagliante e la giusta, calcolata inclinazione del busto, furono sufficienti a dissipare il malumore dal volto dell'uomo a cui si era rivolta. La tavola calda era gremita di avventori intenti nelle rispettive colazioni, ma solo quel tipo sulla sessantina, la pelata lucidissima e un grosso naso aquilino, pareva provvisto di una mappa che potesse fare al caso suo.

“Certo,” non esitò ad offrirgliela, mentre il piccolo mento suino affondava nei sottostanti strati di grasso.

“Gliela riporto subito.” Natasha mantenne il contatto visivo finché non fu il momento di dargli le spalle per tornare al suo tavolo. Annaffiò l'ultimo boccone di uova strapazzate e bacon con un sorso di succo d'arancia, tenendo impegnati gli occhi nella ricerca di Puente Antiguo tra le varie località segnalate sulla cartina.

Ad occhio e croce dovevano esserci almeno un paio d'ore di viaggio in più ad attenderla, forse tre: dopo essersi reimmessa su strade più trafficate, mantenere i ritmi che aveva macinato nel deserto era diventato praticamente impossibile. Mentre studiava la mappa, strade, autostrade, fiumi e città si fecero improvvisamente confusi, la mente che divagava su altro...

Forse l'uomo che giaceva addormentato nel furgone aveva ragione: seguire le criptiche istruzioni recapitate per posta da un pazzo non era esattamente la scelta più saggia a sua disposizione. Ma Natasha, che aveva riflettuto fino alla nausea, era arrivata alla conclusione che non aveva niente di meglio da fare. Semplicemente. Per la prima volta da che aveva coscienza di se stessa, non c'era nessuno ad impartirle compiti da portare a termine nel minor tempo possibile. Certo, era stata costretta a qualche furtarello per permettersi di proseguire il viaggio, ma da quando il suo presunto assassino era entrato in scena, non ce n'era stato più alcun bisogno: quel tizio aveva qualcosa come cinquemila dollari in contanti nascosti tra le sue cose. Se ne era servita per pagarsi la colazione e fare benzina; nessuna spesa extra.

Oltre al denaro aveva scovato gli strumenti del suo mestiere: una Glock con silenziatore, diversi coltelli, un telefono cellulare prepagato e... arco e frecce. Solo quel bizzarro particolare aveva contribuito a richiamarle alla memoria confuse conversazioni con Ivan riguardo la concorrenza, i nemici. Di quei soggetti, non ne rammentava nessuno in particolare, ma anche la minima allusione ad un tizio che lavorava con un'arma tanto vistosa e primitiva, sarebbe stata difficile da dimenticare. Fumose reminiscenze a parte, continuava a non sapere come si chiamasse... ammesso che la cosa potesse esserle in qualche modo utile.

L'altro problema era che se lo sconosciuto l'aveva trovata, se quel pacco era riuscito a raggiungerla, allora significava che – virtualmente – tutti avrebbero potuto individuarla per regolare un conto in sospeso, vendicarsi di un qualche torto passato o, semplicemente, arrestarla. Una rapida scorsa delle testate giornalistiche le aveva rivelato che l'incendio dell'ospedale di San Paolo, in mancanza di indizi che puntassero verso l'azione dolosa, era stato liquidato come un tragico incidente. Ma, sebbene la pista più fresca che potesse ricondurre a lei fosse stata apparentemente neutralizzata, non significava che fosse al sicuro. Anzi.

In ogni caso, nel caos più totale che circondava attualmente la sua vita, la questione dei misteriosi pacchi postali era l'unica che le permettesse di concentrarsi su qualcosa di concreto, la sola che le desse uno scopo, seppur limitato nel tempo.

“Scusi.” Fermò la cameriera che le stava passando di fianco. “Potrebbe farmi un caffè da portar via?” La donna azzardò un sorriso poco convinto, lasciando cadere lo sguardo sulle striature rossastre che le circondavano ciascun polso. “Trucchetto di magia andato male,” fu la pronta giustificazione di Natasha, che le rivolse un'occhiata tanto innocente e placida da diradare ogni sospetto.

“Subito.”

La seguì pigramente con gli occhi, sforzandosi di mantenere la facciata ad uso e consumo dei presenti. La vicinanza con una città come Albuquerque avrebbe sicuramente moltiplicato il pericolo di lasciarsi alle spalle tracce concrete, ma al momento non le importava più di tanto.

Non appena la cameriera fu di ritorno, pagò per colazione e caffè con un paio di banconote, con l'aggiunta di una lauta mancia che ebbe il potere di farla sciogliere in effusioni della più stucchevole cortesia. Restituì la cartina al suo legittimo proprietario, sperando di aver memorizzato il percorso (o comunque contando di poterne trovare un'altra più avanti, se ce ne fosse stato bisogno: la sua memoria non era esattamente affidabile) e infine uscì in strada, aspettando che la carreggiata fosse sgombra per poter raggiungere il furgone parcheggiato sul lato opposto...

… cosa che non le fu possibile.

Il motore del mezzo ritornò improvvisamente in vita, borbottando una mezza protesta prima di riguadagnare la corsia destra con una sgommata degna di un film d'azione. Natasha, caffè alla mano, osservò il furgone sfrecciarle davanti agli occhi; lo spostamento del vento a scompigliarle leggermente i capelli.

 

*

 

Vaffanculo ad Elizaveta Drakov. Vaffanculo ai due milioni di dollari e soprattutto vaffanculo a Natalie Rushman che era riuscita a rendergli la vita un inferno nel giro di appena ventiquattr'ore.

Ci aveva messo un secolo a liberarsi da quelle fascette stringicavo (più o meno tutta la notte) e ancora di più a rendersi conto che nessuno lo obbligava a portare avanti quella farsa. Poteva sempre tornare indietro, dire alla signora Drakov che non se ne faceva di niente, restituirle i soldi (che sicuramente avrebbe rivoluto) e al diavolo. Non potevano forzarlo a sopportare tutte quelle stronzate, né aveva mai chiesto a nessuno che tutti quei guai lo inseguissero: adesso ci si mettevano pure le assassine provette con la memoria corta e pazzi complottisti che inviavano misteriosi pacchetti in giro per il paese.

Riguardo quell'ultima questione, poi, si era ormai convinto si trattasse di una qualche complicata operazione di polizia atta a cogliere in fallo i più pericolosi criminali a contratto ancora a piede libero. Che altro potevano avere in comune lui e quella Natalie? Ammesso che un qualche collegamento ci fosse davvero: lui si dilettava di furti praticamente perfetti, recupero di informazioni, spionaggio di basso livello. Non aveva mai dato fuoco ad un ospedale, né ucciso un bambino e di certo non aveva intenzione di cominciare proprio adesso.

Più se ne persuadeva, più premeva sull'acceleratore, deciso ad allontanarsi da quella situazione del cazzo il più rapidamente possibile. Anzi, avrebbe richiamato immediatamente la signora Drakov e avrebbe messo fine a quell'incarico seduta stante: che se l'ammazzasse da sola Black Widow. Chi diavolo era lui per mettersi a vendicare torti subiti da terzi?

Mentre frugava nella sua sacca abbandonata sul sedile del passeggero, insieme a bottigliette di plastica e lattine vuote, Clint decise che non gli importava, che non lo riguardava e che ognuno doveva pensare per se stesso. Come potevano pretendere che assumesse su di sé il peso di certe azioni? Perché doveva essere lui a sporcarsi le mani? I lavoretti che accettava, li faceva per sé e per nessun altro. Per sentirsi meglio con se stesso, per convincersi di non essere stato risucchiato dal sistema, per mostrare al mondo (sotto le mentite spoglie di Hawkeye) che non era solo un meccanico in una squallida cittadina dell'Iowa, ma che sarebbe potuto essere molto di più. Che era di più, che li fotteva nel bel mezzo della notte, quando nessuno guardava, talmente abile e silenzioso da risultare praticamente introvabile.

“Che cazzo!” Sbraitò, incapace di trovare il cellulare. Eppure era sicuro di averlo lasciato là dentro, insieme ai suoi effetti personali. A meno che...

“Non dirmelo, non dirmelo, non dir-” Gli bastò aprire lo sportellino sotto al cruscotto per accorgersi che la mazzetta di denaro prelevato al suo arrivo all'aeroporto di Phoenix era sparita. “MERDA!”

Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, tirando un brusco pugno al volante nel tentativo di scaricare la rabbia. Si era presa i soldi, la carta di credito, il telefono, le chiavi del furgone e che altro? La mia fottuta dignità, pensò lugubremente. Era la seconda volta che quella ragazzetta riusciva a fregarlo come un maledetto principiante.

Aspettò che la strada fosse sufficientemente sgombra prima di effettuare un'inversione ad U che lo immise di nuovo nella corsia di sinistra, nel senso di percorrenza opposto. Non solo non poteva fare a meno dell'unico mezzo di comunicazione che aveva per tenersi in contatto con la signora Drakov, ma neanche poteva permettersi di perderle cinquemila dollari, non quando era del tutto intenzionato a rifiutare l'incarico e per di più a lavoro cominciato. Era una professionista, cazzo, uno che ci sapeva fare, uno di cui i clienti potevano fidarsi ciecamente. Responsabile, discreto... e un sacco di altre stronzate che, in quel preciso istante, non gli si addicevano per niente. Quello, più di ogni altro dettaglio, lo stava facendo uscire di testa.

Gli ci vollero dieci minuti per intercettarla: stava camminando lungo il ciglio della statale, un bicchiere di caffè in una mano, lo zaino sulle spalle e indosso la canottiera I love Arizona che le aveva comprato al mini-market la sera precedente. Come cazzo gli era venuto in mente, ah? Cos'è che l'aveva spinto a comprarle una stupida maglietta per sostituire quella che si era strappata nella rissa al bar? Non erano affari suoi come se ne andava conciata in giro, giusto? E che importanza aveva se le faceva delle tette da urlo? Per quel che gli interessava poteva andarsene in giro nuda! Non sono affari miei, si ripeté, come per convincersi che lui non c'entrava proprio niente, che non doveva niente a nessuno, che ognuno doveva pensare a risolvere i propri casini in perfetta autonomia... e vaffanculo.

Ennesima inversione ad U per affiancarla, decelerando sensibilmente per far procedere il furgone a passo d'uomo.

“Ti sei presa qualcosa di mio,” esordì, ostile e nervoso per la fame e l'astinenza da caffè (o in alternativa di birra gelida).

“Anche tu.”

“Questo furgone non è tuo, se non te ne fossi accorta.”

“Neanche tuo, mi pare.”

“Adesso lo è.”

“Hai montato male la targa falsa,” l'accusò, ottenendo di farlo sporgere fuori dal finestrino, come se in quel modo avesse potuto controllare di persona.

“Non è vero.”

“E' vero. Usi la tecnica sbagliata.”

“Quindi sei un'esperta di targhe false.”

“Tra le altre cose, sì,” confermò, bevendo un sorso di caffè. Clint tentò di nascondere la sofferenza che quella visione gli procurava, ma non gli riusci granché bene. Se per le tette o per il caffè, quello non gli era ancora chiaro.

“Ridammi i miei soldi e ridammi il telefono e poi ti giuro che mi levo dalle palle.”

“Hai deciso che non mi vuoi uccidere?”

“Non ti ho mai voluta uccidere,” parve ripensarci, “anche se non sono mai stato tanto vicino a cambiare idea come adesso.”

“Non avevi voglia di uccidermi, ma eri disposto a farlo comunque.”

“Dobbiamo tutti fare cose che non ci va di fare.”

“E' tuo padre che ti obbliga a farlo?” Una sventagliata di clacson risucchiò le ultime parole della ragazza. Clint fece cenno agli autisti che lo seguivano di superarlo con un unico gesto nervoso (che gli valse almeno un paio di insulti: per sua fortuna della dignità di sua madre non gliene fregava proprio niente).

“Mio padre è morto e sepolto da un pezzo, grazie al cielo,” replicò seccamente, controllando che nessuno li stesse ancora seguendo.

“Allora chi ti ha detto di uccidermi?”

“Ascolta...” sbuffò sonoramente: l'assurdità di tutte quelle domande non faceva proprio niente per migliorare il suo umore. “Perché non sali? Mi sento un idiota a parlarti così.” La donna e il furgone si fermarono nello stesso momento. La vide osservarlo attentamente, come nel disperato tentativo di prevedere la sua prossima mossa.

“Non sei molto convincente,” obiettò a mo' d'accusa.

“Me ne rendo conto. Ma al momento tutto quello che voglio fare è tornarmene a casa.” Stavolta, le parole dovettero uscirgli con l'enfasi giusta per persuadere Natalie ad aprire la portiera di destra e rubare il posto alle cianfrusaglie ammucchiate sul sedile del passeggero.

“Se provi ad uccidermi ti ammazzo,” la ragazza lo avvertì, il tono monocorde e un'espressione glaciale sul volto.

“Stabiliamo una tregua, ti va?”

“Non sei credibile.”

“Lo so. Ma non ti ho forse tirato fuori da quel bar quando avrei potuto lasciare che ti pestassero a sangue?”

“Perché l'hai fatto?”

“Perché sono uno stronzo, ecco perché.”

“Tu non sei un assassino.”

“No. Non lo sono.”

“Ma hai accettato di uccidermi.”

“Mi hanno offerto due milioni di dollari per farlo!” Sbottò, stritolando il volante tra le mani. “Lo sai quanti sono due milioni di dollari?”

“Sì che lo so.” L'urgenza con cui le parole le erano uscite di bocca non lo convinsero fino in fondo. Sembrava, piuttosto, che stesse ostentando una sicurezza che, nonostante tutto, non le apparteneva realmente.

“Fatto sta che adesso i pro sono molti meno dei contro,” gli venne inspiegabilmente da ridere, ricordando la complicata riflessione con cui aveva ceduto e accettato l'incarico tanto per cominciare.

Clint si concentrò sulla strada – in mancanza di un'idea migliore – seguendo le indicazioni per Albuquerque, mentre le sue parole cadevano nel silenzio. Le lanciò una rapida occhiata, vedendola immersa in quella che sembrava una complicata elucubrazione: le labbra rosse e carnose intrappolate tra i denti, gli occhi verdissimi e attenti, proiettati verso una meta lontana e invisibile, i capelli rossi raccolti in un'improvvisata coda di cavallo, il collo pallido macchiato di sudore e polvere, e quella scollatura che, dio santissimo... si costrinse a guardare altrove un attimo prima che la donna riprendesse a parlare.

“Facciamo così.” Inspirò a fondo, voltandosi infine verso di lui. “Mi accompagni a Puente Antiguo per scoprire chi ci ha mandato quella roba, prometti di non uccidermi finché non abbiamo finito e poi, quando abbiamo capito di che si tratta... puoi farmi fuori.”

“Che cosa?” Clint non riuscì a nascondere la perplessità, evidente nella propria voce.

“Sì, insomma, non sei curioso? Io non ti ho mai visto, tu non mi hai mai vista, ma no-”

“Sì che ci siamo già visti.”

“Ma non è quello che conta, no? Cos'abbiamo in comune io e te? Niente.”

“Non mi stavo riferendo a quello. Vuoi che ti uccida?”

Un velo di noia, apatia e disinteresse le calò sul volto: sembrava che una marea di panico, ansia e paura l'avesse investita per poi ritirarsi lentamente, lasciandosi alle spalle solo un vuoto fastidioso. Clint conosceva quell'espressione a memoria. L'aveva letta sul proprio viso per infinite mattine, anni e anni fa, prima che l'idea di Hawkeye arrivasse a salvarlo da quella palude priva di colori che era diventata la sua vita. Il tran tran quotidiano del presente, le ferite mai realmente cicatrizzate del passato e l'inesistente fiducia nel futuro, avevano fatto sì che il suo mondo si tingesse di sfumature di grigio, sempre più uguali le une alle altre...

Deglutì a vuoto, tremando appena al rimescolio che gli animò lo stomaco ancora vuoto in modo desolante.

“Non è che lo voglio,” lo corresse dopo una lunghissima pausa. “E' che non mi interessa.”

La bislacca caccia al tesoro recapitata per direttissima nella loro posta era l'unico ostacolo che la separava dall'imminente conclusione della sua esistenza, e la cosa non sembrava preoccuparla minimamente. Fu costretto mordersi la lingua per impedirsi di cominciare a sparare stronzate sul significato della vita e sul fatto che ne abbiamo solo una, e un'altra valanga di cazzate che il suo psicologo (leggi: il suo barista) gli aveva più volte propinato negli anni più bui. Di nuovo: quelli non erano affari suoi. Voleva morire? Bene, ottimo... dopotutto non hanno tutti il diritto di fare le proprie scelte?

“Quindi...,” si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse, ignorando il senso di colpa che stava tenacemente tentando di soffocare. Non è un mio problema. Non.è.un.mio.problema. “Puente Antiguo e poi Lafayette?” La ragazza annuì.

“Una settimana,” propose. “Una settimana di tempo. Se arriviamo alla fine, bene, sennò puoi fare quello che ti pare e ottenere la ricompensa.”

Qualcosa gli diceva che anche quell'ennesima offerta in apparenza succulenta e soprattutto semplice, si sarebbe rivelata più complicata del previsto. In ogni caso, decise di risolvere il problema quando e se si fosse posto.

“Affare fatto,” convenne infine, tendendole una mano affinché gliela stringesse per suggellare il patto.

“Affaro fatto,” gli fece eco e, dopo qualche istante di esitazione, ricambiò anche la stretta.

“Clint.”

“Clint cosa?”

“E' il mio nome.”

“Oh. Natasha... Natasha Romanoff.”

 

*

 

Puente Antiguo, New Mexico

 

“Dov'è la mia Glock?”

“L'ho presa io.”

Natasha non aspettò che Clint ribattesse per scendere dal furgone e guardarsi attorno: la cittadina di Puente Antiguo non era poi così ridente, in fondo. Un mucchio di case larghe e basse dipinte di diversi colori, compresse tra vari negozi, il tutto ricoperto da un spesso strato di polvere. La polvere e la luce abbacinante del sole erano state le costanti di quel breve soggiorno negli Stati Uniti: Natasha non poteva dirsi un'amante di nessuna delle due cose.

“E se mi servisse?”

“Hai il tuo arco.”

“Tante grazie, quello lo so, solo che...” sbuffò sonoramente. “Oh, al diavolo!”

“E' più utile se la tengo io,” ci tenne a sottolineare, avviandosi verso il portone rosso che avevano individuato come corrispondente all'indirizzo di Clint.

“Come sarebbe?”

“Io non ho paura di usarla.” Doveva averlo convinto perché non aggiunse nient'altro finché non ebbero raggiunto il numero 10.

“E adesso che facciamo?” Le domandò, il nervosismo palpabile nella sua voce.

“Suoniamo, no?”

“Ah, bè... giusto. Come ho fatto a non pensarci?”

“Ascoltami, se non ti va bene puoi anche andartene a fanculo.”

“Sta' calma, va bene?”

“Sei tu quello che non sta calmo!”

“Io sono calmissimo!” Puntualizzò, alzando a tal punto la voce da attirare l'attenzione di alcuni passanti. Una madre col figlio per mano affrettò il passo, allontanandosi il più rapidamente possibile dal punto in cui si trovavano.

“Certo, come no.” Natasha fece schioccare la lingua, decidendo di porre fine a quella ridicola conversazione. Salì i gradini che la separavano dal portone e suonò il campanello sotto cui campeggiava un'etichetta dall'aria nuova fiammante: Perkins-Bowman. Si accorse che il nome non corrispondeva a quello riportato sull'indirizzo, ma non ebbe il tempo di informarne Clint, che la porta si aprì di un misero spicchio, lasciando intravedere il volto avvizzito di una donna di circa ottant'anni. Indossava una vestaglia a fiori e un paio di ciabatte consumate. Natasha si sentì investire da un odore dolciastro: acqua di colonia e talco, forse.

“Buongiorno, signora,” neanche il suo sorriso più zuccheroso fu sufficiente a convincere la vecchia delle sue buone intenzioni. “Stiamo cercando Donald Blake.”

“Donald? Oh...,” parve confusa. “Don non abita più qui ormai un paio d'anni.”

“Sa dove possiamo trovarlo?”

“Lavora al negozio qua di fianco. Quello che vende...” si bloccò, voltandosi verso un punto non meglio definito alle proprie spalle. “Cos'è che vende quel negozio, Herb?”

“Articoli di elettronica!” L'incerta voce di quello che Natasha intuì essere il marito della donna, la raggiunse fin sui gradini d'ingresso.

“Quello che vende articoli di elettronica,” riconfermò la donna, faticando a trattenere un'espressione disgustata.

“La ringrazio. Buona giornata.” Mantenne il sorriso finché la porta non si fu richiusa, murando di nuovo la donna e quel nauseabondo odore tra le quattro mura della sua casa.

Scoccò una rapida occhiata in direzione di Clint, immobile a qualche metro di distanza, quasi a ribadire che non aveva proprio niente a che fare con lei. Senza aggiungere nient'altro o attendere un commento, imboccò il marciapiede in direzione del negozio di elettronica all'angolo.

Le bastò specchiarsi in una delle ampie vetrine dietro cui era messa in mostra una disordinata catasta di oggetti, per capire cos'è che aveva schifato la donna. Linee scure le solcavano il viso in prossimità di quei punti in cui la polvere si era depositata e il sudore asciugato. I capelli intrecciati in un nodo spettinato, le occhiaie profonde sotto gli occhi cerchiati. Il bianco della canottiera I love Arizona ormai annerito in più punti. Tracce di sangue rappreso e contusioni ancora più o meno evidenti a completare il quadretto. Non era sicura di essersi mai vista in condizioni peggiori di quelle (viaggiare col finestrino aperto era stata una pessima idea).

“Cos'è, sei interessata a comprare un microonde?” La voce di Clint la obbligò a mettere a fuoco ciò che giaceva oltre il vetro.

“No, se ti vorrò cuocere mi servirà un forno più grande.”

“Potresti avere un futuro da cabarettista, lo sai?”

Natasha lo mandò tacitamente a fanculo prima di entrare nel negozio. L'aria condizionata l'investì insieme alle occhiate dei pochi presenti. Fece schioccare le labbra, fingendo una certa indifferenza... prima di ricordarsi che, ridotta in quelle condizioni, più che una cliente qualunque assomigliava ad una selvaggia o una barbona, potenzialmente una ladra. Il fatto che Clint, poi, non le sembrasse messo poi così male, la fece innervosire: sì, la sua t-shirt bianca era ormai sudicia e sporca, le stesse linee di polvere e sudore si erano fossilizzate anche sul suo viso e sulle sue braccia scoperte... ma più che un criminale sembrava un operaio di qualche tipo, un muratore o magari un camionista. L'espressione corrucciata che gli piegava le labbra, poi, e quei suoi stupidi bicipiti costantemente esposti, non facevano proprio niente per mitigare quella fastidiosa sensazione che le prendeva lo stomaco tutte le volte che rimaneva a guardarlo un po' troppo a lungo.

Scacciò quei pensieri come un insetto molesto, dirigendosi a passo spedito verso l'unica cassa aperta.

“Sto cercando Donald Blake. Mi hanno detto che lavora qua.”

Il commesso rialzò lo sguardo da un complicato schema di parole crociate, trattenendo a stento una reazione sorpresa nel ritrovarsela davanti.

“Don, certo...” tossicchiò, come per richiamarsi all'ordine, posando lo sguardo sulle sue tette e almeno su quelle non parve avere niente da ridire. Strano. “Don!” Chiamò, senza distogliere l'attenzione dal suo decolleté. “DON! Ah... eccoti lì.”

Un uomo grande e grosso fece capolino oltre la corsia degli elettrodomestici: era alto, piazzato, spalle ampie, braccia e pettorali in evidenza, i capelli biondissimi e lunghi raccolti in una bassa coda disordinata. Indossava la divisa arancione della catena di cui faceva parte il negozio e aveva uno scatolone in mano: l'avevano interrotto mentre stava disponendo degli articoli sugli espositori semi-vuoti.

“Ovviamente è un fottuto lottatore di wrestling,” borbottò Clint. “E' tutto tuo, Tasha.”

“Natasha.”

“Che importa? Tanto tra poco sarai morta.” Lo vide irrigidirsi per la battuta infelice. “Nel senso che... è lui che è pericoloso, non i-”

“Lascia stare,” lo liquidò lei, più imbarazzata dal suo tentativo di migliorare le cose che dalla frecciatina crudele che le aveva inavvertitamente scagliato contro. Avvicinò rapidamente l'uomo che rispondeva al nome di Donald Blake, ostentando una familiarità tutta artificiosa.

“Signor Blake, giusto?”

“Sono io.” Aveva una voce profonda, ma spenta. “A chi interessa?”

“Il mio nome è Natalie Rushman.” Realizzò di non avere la più pallida idea di cos'avrebbe dovuto dire. “Abbiamo...” si voltò verso Clint, ricevendo in cambio un'occhiataccia. “Ho,” si corresse, “ho ricevuto il suo indirizzo insieme a-”

“Qualcuno vi ha recapitato la mia posta per sbaglio?”

“No. Qualcuno mi ha inviato il suo indirizzo insieme a una cartina e una chiave. Mi chiedevo se l-”

“E' solo un scherzo di Pete... un bravo ragazzo, ma un po' suonato. Non è il primo che fa in città.”

“Non sono del posto.”

“Deve aver scelto il suo indirizzo a caso, allora. Ha fatto un sacco di strada per niente,” scrollò le spalle e riprese a spostare le confezioni dei caricabatterie dallo scatolone all'espositore, senza mostrare il benché minimo interesse per quell'assurda conversazione.

“Le dico di no,” stabilì, la soglia della sopportazione pericolosamente bassa.

“Senta, non so dove voglia andare a parare, ma sto lavorando.”

“Se solo mi potesse dare cinque minuti...”

“Non posso.”

“A che ora stacca?”

L'uomo dibatté con se stesso se rispondere o meno. “Alle sette e mezzo,” concesse infine, una maschera di annoiata esasperazione.

“Che ne dice di una birra, allora?” Donald Blake bloccò per un attimo le sue manovre, concedendole una lunga, penetrante occhiata. Più che il commesso di un negozio di elettronica, sembrava una di quelle statue greche che ricordava di aver visto ad Atene o Parigi (o forse l'aveva sognato?): svettava su tutto il resto con una sorta di nobile contegno che mal si adattava all'atmosfera circostante. “Birra e cena. Offro io,” offerta al rialzo.

“Non so se...”

“Ha qualche impegno?”

Natasha lo vide rabbuiarsi ulteriormente, abbassare lo sguardo, improvvisamente in difficoltà.

“No. No, nessun impegno.”

“Sette e trenta qua fuori, allora.”

Donald scrollò le spalle, riprendendo a lavorare senza una parola di più: decise di prenderlo come un sì, tornando indietro per superare Clint e uscire dal negozio.

“Gli hai offerto una cena che io dovrò pagare,” si lamentò.

“Ti farò guadagnare due milioni di dollari, il minimo che puoi fare e smetterla di comportarti come uno stronzo,” mise le cose in chiaro, guardandolo malissimo.

“E adesso?”

“Cerchiamo un albergo... ho bisogno di farmi una doccia.”

“Finalmente te ne sei resa conto.”

Natasha lasciò che un sano e discretissimo cazzotto nello stomaco parlasse per lei.


__________________________________________

Note:
Mi rendo conto di aver barato almeno un po': il terzo membro della squadra è arrivato, ma toccherà aspettare il prossimo capitolo per sapere qualcosa in più sul suo conto. Per chi non lo sapesse, Donald Blake è l'alias "umano" di Thor nei fumetti (ma una citazione c'è anche nel primo film che lo riguarda, con Jane che gli presta una t-shirt che riporta un'etichetta col nome del suo ex, un certo Donald Blake appunto).
Per quanto riguarda Clint e Natasha i rapporti sono in fase di tregua, ma lei è ancora in crisi esistenziale, e pure Clint ha una bella gatta da pelare con la questione della signora Drakov. Riusciranno a convincere Don a seguirli? Lo scopriremo... nella prossima puntata :P
Tanti ringraziamenti alla sclerosocia, come sempre, e a tutti quelli che hanno letto, commentato e sbirciato <3 mi fa sempre piacere sapere che ne pensate! :D
Alla prossima!
S.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Hermione Weasley