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Autore: Nidham    16/10/2014    1 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Cosa diavolo ci fai qui?” sta letteralmente ringhiando, ma non mi lascio impressionare, forte della mia forse assurda convinzione non mi farebbe del male neanche involontariamente.

“Non farmi perdere indizi” lo rimprovero, senza arretrare di un passo o mostrare alcun fremito di fronte alla sua furia, cosa che sembra irritarlo ancora di più.

“Quali indizi?”

“Ad esempio le impronte, che stai compromettendo facendone di nuove.”

“Scusa tanto, Sherlock” risponde sarcastico. “Sono certo che avrai un brillante futuro nella gendarmeria, ma adesso ce ne andiamo.”

Mi afferra per il polso e mi strattona con decisione, ma, per quanto la sua forza gli permetterebbe agilmente di trascinarmi fuori in pochi secondi, è talmente concentrato sull'essere irosamente gentile che perde ogni possibilità di vittoria.

“Non voglio andarmene. Tu, piuttosto, dovresti tornare a lavoro.”

“Non credo mi vogliano ancora, ho rotto il naso al mio capo.”

Lo dice come fosse una cosa banale, mentre io inizio a chiedermi se il mio istinto non si sia definitivamente lesionato, portandomi a sentirmi sicura con gente così violenta.

“Gli hai rotto il naso?” ripeto, in modo piuttosto stupido.

Annuisce, avendo almeno il buongusto di abbassare gli occhi in quello che voglio interpretare come un moto di leggero imbarazzo.

“Prima o poi finirai nei guai, potrebbero denunciarti.”

“E' già successo” sbuffa, abbandonando velocemente quella fugace traccia di vergogna. “Ma sono sempre stato rilasciato, senza nessuna accusa.”

Quando lo guardo con severità, arrossisce appena, ma sostiene il mio sguardo.

“Lo sapevi, comunque” bofonchia a mo' di scusa. “Te l'avevo raccontato l'altra volta.”

“Prima dell'incidente, intendi?”

“Sì.”

“Avresti dovuto ripetermelo adesso!”

“C'erano un sacco di cose più importanti di cui parlare.”

Vorrei continuare a rimproverarlo, per quanto io stessa non sia un modello di virtù, da quel che ho capito, ma la giustizia divina interviene a punire la mia sfacciataggine, costringendomi a chiudere la bocca per non mugolare, mentre sento tutti muscoli irrigidirsi e la spina dorsale scricchiolare sotto il peso di un macigno invisibile, provocandomi spasmi atroci in ogni angolo del corpo. Avverto un freddo intenso e fatico a non battere i denti in maniera patetica, resistendo all'impulso di fuggire per un guizzo involontario di paura immotivata.

Probabilmente sono sbiancata, perché Gabriel mi ha fissato con una strana consapevolezza e ha smesso di punzecchiarmi.

“Li cerchiamo quando starai meglio questi maledetti indizi. Insieme. D'accordo?”

“No.”

Alza gli occhi al cielo, esasperato.

“L'esplosione ha bruciato qualcosa anche in te, è sicuro: quel poco di buonsenso che ti rimaneva!”

“Ho scoperto di essere già stata in questo posto” ignoro l'offesa.

“Sì, tu e il matto. Sai che novità? Non c'era bisogno di arrivare fin qui per dedurlo.”

“Ho trovato un paio di oggetti strani.”

“Non li hai presi vero?”

“Sì, certo.”

“Tu” soffoca un insulto o un'imprecazione di qualche tipo, poi riprova a formulare il concetto. “Tu...”

“Io?”

Per qualche secondo sembra l'imitazione perfetta di un pesce, poi si arrende.

“Lascia perdere.”

Mi stringo nelle spalle, per una volta propensa a dargli ragione.

“Andiamo al piano di sopra? Ormai, chiunque ci sia, saprà di avere compagnia.”

“Che andiamo a fare di sopra? Usciamo da qui.”

“Sembri un disco rotto e quello che dici non ha senso” alzo una mano a frenare un'altra noiosa protesta. “Non voglio sprecare tempo, Gabriel: metti che la polizia risalga a questo posto e ne blocchi l'accesso o che, per sfortuna estrema, la villa venga venduta e non si possa più visitare. Questa potrebbe essere la mia unica occasione per capire qualcosa di questo postaccio.”

“C'è già un possibile acquirente.”

“Davvero? Come fai a saperlo? Chi è?”

“Lo stesso di cui ti ho parlato a proposito della medicina che ti avrebbero somministrato all'ospedale. L'ho scoperto mentre indagavo.”

“Motivo in più per sbrigarsi.”

“Sono convinto che, se ne diventasse il padrone, non avrebbe problemi a farti entrare in casa sua” lo dice con estremo disgusto. “Ti aveva messo gli occhi addosso.”

“Vuoi dirmi come si chiama adesso?” mi sento assurda a dover porre certe domande e piuttosto esasperata nel doverle ripetere.

“Xavier” sputa il suo nome con palese disprezzo. “Xavier De la roche.”

“Avevo accettato di incontrarlo, giusto?”

“Così pare. Anch'io vorrei incontrarlo: se lo avessi fra le mani troverei un buon modo per usare il mio pugno” mi osserva per un istante. “Sì, lo so. Sono un poco di buono e un criminale, ma lui è un vero bastardo. Vado avanti io.”

Si dirige a passo veloce verso la scalinata, cambiando idea e argomento così repentinamente da lasciarmi senza parole. E' dispotico e iperprotettivo, ma almeno, pur tra mille borbottii, sta andando proprio dove volevo, quindi non avrebbe comunque senso replicare.

“Vediamo se riusciamo a trovare altra vernice, quassù” suggerisco. “Magari Emile veniva anche qui a dipingere.”

“Che significa altra vernice?”

“Che ne ho trovato un barattolo nel capanno. Ci sono incise le iniziali di Morel e c'è anche una scritta: La bottega delle meraviglie.”

“E' il nome di quel negozio” si ferma a metà della salita, facendomi quasi sbattere sul suo fondo schiena. “Fammi vedere.”

Tiro fuori il barattolo dalla borsa, stando attenta a non aprirlo per sbaglio, ma me lo strappa dalle mani con impazienza, prendendo anche il fazzoletto di carta con il pezzo di catenina.

“Questo cosa diavolo...” non finisce la frase e allontana immediatamente da sé quell'oggetto, con aria disgustata. “Mio Dio, questo è sangue.”

“Non pensavo fossi così impressionabile” riprendo il fazzoletto. “E poi, come fai a esserne sicuro?”

“Non senti l'odore?”

“No, quest'aggeggio se ne stava in fondo ad uno scarico, nella fontana, immerso in un vero tripudio di sporcizia multiforme, come puoi riconoscere un odore tanto specifico?”

“Fidati, posso.”

“Ti fa paura il sangue?”

Non si degna di rispondermi.

“Credi a quello che ti pare” torna a osservare il barattolo di vernice, ignorandomi. “E' proprio il nome che ero riuscito a farmi rivelare da Emile.”

“Eppure questa roba avrà almeno cinquant'anni. Se il negozio è tanto vecchio, possibile che sia così introvabile come dici? Come sarebbe sopravvissuto alla concorrenza?”

“C'è anche un simbolo di occultismo.”

“Ah ecco, con un patto demoniaco.”

“Morel pare se ne occupasse.”

“Allora cosa sarebbe stata questa, la vernice con cui tracciava i simboli per i suoi rituali?”

Gabriel non azzarda conclusioni, limitandosi a fissarmi fino a farmi sentire leggermente a disagio.

“Di certo, se Emile avesse trovato questi barattoli e ne avesse intuito l'aspetto arcano, potrebbe esserne stato incuriosito e spinto a cercarne altri.”

“E' possibile.”

“Però, se è riuscito a trovare il negozio partendo da una semplice latta di tinta, perché noi, che siamo un po' meno pazzi di lui, non ci siamo riusciti?”

Ancora silenzio, anche se mi sembra di sentirlo urlare direttamente nella mia testa qualcosa del tipo: “se le mie spiegazioni non ti piacciono, evita di chiederle”.

Un leggero scricchiolio ci distrae, portandoci a osservare il ballatoio sopra di noi. Le porte sembrano ancora tutte chiuse, ma il rumore potrebbe rimbombare in maniera strana sotto questo soffitto così alto e magari i tizi che si stavano divertendo lassù hanno aperto una finestra per calarsi di sotto senza doverci incontrare, pur rischiando di rompersi l'osso del collo per l'eccessiva altezza del salto.

“Andiamo” gli sussurro, dopo aver provato inutilmente a spingerlo, mentre lo scricchiolio si fa più intenso e mi accorgo, con un po' di imbarazzo, che assomiglia più al rumore di molle cigolanti che allo stridio di una persiana arrugginita.

Possibile che fossero tanto impegnati da non averci sentiti?

Sul pavimento di marmo rossiccio, sporco e graffiato, noto lo stesso miscuglio di impronte del piano inferiore, ma nessuna è tanto recente come mi sarei aspettata, quasi i due piccioncini avessero volato per raggiungere una camera. D'altra parte quassù è dannatamente buio e non riesco a cogliere molti dettagli; l'unica luce che abbiamo è quella pallida e mesta che filtra dal portone e questo rende l'ambiente malinconico e opprimente, nonostante le ambizioni di sfarzo, intuibili da ogni dettaglio pacchiano che ci circonda: dalle pareti coperte con ampi pannelli di legno intarsiato, quasi ci trovassimo in un ristorante cinese, ai pesanti teli di seta ricamata drappeggiati ai lati delle porte, come al cinema; dai tre piccoli comodini con le zampe a cipolla, con sopra inquietanti abat jour di vetro nero, al paio di poltrone di velluto rosso, simili a troni medievali, circondate da cuscini talmente sporchi che non oso neanche chiedermi cosa possa nascondercisi in mezzo.

Su una di esse spicca un bustino di pizzo azzurro, di foggia sicuramente moderna, che potrebbe appartenere a una prostituta d'alto bordo per quanto è minimale e preziosamente sensuale. Sembra tanto costoso che nemmeno la polvere ha osato poggiarvisi. Suppongo sia della tizia che adesso sta lanciando gridolini inarticolati al di là della porta che ho davanti, ma mi chiedo dove abbia lanciato l'altra parte dei vestiti, sperando che ne avesse qualcuno addosso quando è arrivata qui.

“Ehi” mi decido a palesarci, perché non ho voglia di vedere porzioni di pelle sconosciuti. “Non siete soli.”

Gabriel si volta pronto a strozzarmi o a trascinarmi giù per lo scalone, ma io sento solo un banale: “Cielo!”, pronunciato con imbarazzata sorpresa da una voce flautata, prima che ogni altro rumore cessi, sprofondandoci in un silenzio quasi totale.

Rifletto se parlare ancora, per rassicurarli, ma il mio compagno mi fa cenno di tacere e, per una volta, decido di obbedirgli.

C'è qualcosa di diverso intorno a noi, adesso, una sensazione di disagio crescente che non è spiegabile con nessun mutamento fisico dell'ambiente. Sì, forse l'oscurità si è fatta appena più densa, per l'inasprirsi delle nubi temporalesche fuori dalla casa, e forse il freddo è divenuto più pungente, per un'impercettibile raffica di vento scivolata lungo le scale, ma non è questo a turbarmi e a farmi tacere: è la paura che avverto premere su di me, mischiata ad una rabbia cocente e incontenibile, scaturita all'improvviso dopo il mio avvertimento, a paralizzarmi sull'ultimo gradino, con la mano protesa a sfiorare la giacca di Gabriel, in un infantile ricerca di conforto.

È la sensazione incomprensibile di aver risvegliato qualcosa che avrebbe dovuto continuare a dormire, di aver innescato una bomba che non avremo modo di disattivare.

In poche parole, è una sensazione assurda, totalmente ingiustificata e persino ridicola, ma l'istinto continua a pregarmi con ogni linguaggio, conosciuto e sconosciuto, di tornare velocemente sui miei passi e richiudere la porta in faccia a qualsiasi cosa o persona si nasconda qui dentro.

Vorrei essere in grado di pensare, di scrollarmi da dosso questa fastidiosa sensazione di panico, ma Gabriel si avvicina di più al mio fianco, inondandomi col suo profumo, sensuale e vibrante come l'aria prima della tempesta, e anche se la paura si scioglie come neve sotto il sole d'agosto, la mia mente viene pervasa da un'emozione altrettanto irrazionale e che non mi aiuta in alcun modo a essere più lucida: il desiderio insopprimibile di stringermi a lui e far sparire con un gesto tutti i nostri vestiti.

Andiamo di male in peggio. Adesso mi tremano anche le gambe e non è per stanchezza o parkinson precoce, è pura e semplice lussuria, incontrollabile, incomprensibile e anche imbarazzante, soprattutto perché si rivela un istinto a senso unico quando lui risponde al mio sguardo invitante con un severo ed impersonale: “Va tutto bene?”

L'effetto è quello di una doccia fredda: sembra un maestro che rimprovera una bambina indisciplinata e non c'è niente di meglio di una sana indignazione per spegnere ogni ardore, il che in fondo è esattamente ciò che volevo, ma, ora come ora, mi rimane solo una fortissima voglia di prenderlo a pugni per la sua indifferenza.

Mi sembra palese che i miei inusitati appetiti non siano naturali, per cui dovrei ringraziarlo per non aver pensato di approfittare della mia mancanza di buon senso, ma è difficile essere logici quando il cervello alto ha smesso di funzionare.

Mi allontano di scatto, rischiando quasi di cadere per tutta la rampa di scale, e sto per dirgli di tornarsene da dov'è venuto, prima di notare la tensione delle sue spalle e la luce cupa in fondo ai suoi occhi, con le palpebre contratte a nascondere e arginare un'emozione più simile alla mia di quanto non sarebbe salutare ammettere.

“Hai un buon profumo” sussurra appena, come se gli fosse sfuggito tra i denti.

“Anche tu” mi trovo a confessare al di là del mio volere, prima di esplorare con la punta delle dita la linea forte e sensuale del suo collo, laddove il leggero velo di barba sfuma nella morbida ruvidezza della pelle. È un tocco fugace, lieve, compiuto in modo del tutto spontaneo, ma mi aspetto di vederlo ritrarsi o protestare e quasi spero che lo faccia, perché io, ormai, non so decidermi a lasciarlo andare, ma sembra che la mia insensata carezza abbaia spazzato via ogni determinazione da entrambi.

Deglutisce e alza lo sguardo su di me, bloccandomi il respiro senza neppure sfiorarmi, solo con l'intensità di quegli occhi diventati due pozze di tenebra in grado inghiottirmi.

Vorrei scuotere la testa, sbattere le palpebre, sottrarmi a questa malia, invece faccio un altro passo verso di lui e allargo la mano sul suo torace.

È incredibilmente caldo, probabilmente ha ancora la febbre, sento il battito violento del suo cuore attraverso i pettorali, troppo veloce perché la pelle possa contenerlo, e penso che dovrei lasciarlo stare, prendermi cura di lui, ma anche che non me ne importa nulla del suo conto in banca, né del suo stato di salute, né dell'assurdità del mio desiderio: voglio solo placare la tensione che mi attanaglia il petto perdendomi tra le sue braccia, senza domande, senza pensieri.

“Alex” prova a fermarmi e a fermarsi, mentre la sua mano si chiude sulla mia, per impedirmi di accarezzarlo e, al contempo, per tirarmi più vicino. “Alex”

E' una preghiera, una carezza, un ammonimento.

Ormai non c'è che qualche misero centimetro tra i nostri corpi e sarebbe talmente facile allungarmi a poggiare le labbra sulle sue, contratte in una linea confusa di bisogno e incomprensione, sarebbe facile aggrapparmi alle sue spalle e cingerlo in un abbraccio, assaggiando la sua pelle, esplorando la voluttuosa robustezza dei suoi pettorali, eppure, in qualche recondita regione dentro di me, so che non dovrei cedere a questo bisogno, che sarebbe sbagliato, soprattutto in questo posto.

È un pensiero assurdo, fastidioso nel vortice della lussuria, ma è lo stesso che intravedo nascosto nello sguardo rovente di Gabriel e che mi fa esitare per un attimo, giusto il tempo di riaccendere un briciolo di consapevolezza del mondo e di sentirmi osservata.

Mi volto di scatto, certa di trovarmi davanti i nostri due sconosciuti compagni di casa, ma il ballatoio è ancora deserto.

Almeno adesso sono in grado di pensare e di riconoscere la sciocchezza che volevo fare per ciò che sarebbe stata: follia pura.

“Grazie” borbotto in malo modo, guadagnandomi lo sguardo perplesso di Gabriel, già allontanatosi da me. “Per non aver approfittato del mio momento di incapacità mentale.”

“Qui non sarebbe stato sicuro” replica soltanto, con un tono neutro che sembra nascondere un briciolo di rimpianto piuttosto lusinghiero.

“No, come minimo saresti rimasto in cinta tu in un posto del genere.”

“Cosa?”

Gli indico la schifezza che ci circonda come spiegazione, poi sobbalzo sentendo un tonfo secco provenire dalla stanza davanti a noi e il rumore stridente di legno che si spacca.

“Vado avanti io” mi trattiene Gabriel, intuendo non so come le mie intenzioni.

“E se c'è una donna nuda?”

“Non mi scandalizzerò.”

Gli cedo il passo e mi trovo a fissare imprudentemente il suo sedere, ma riesco ad apprezzare lo spettacolo mantenendo la mia lucidità.

“Dovresti trovarti un lavoro.”

Mi guarda perplesso e mi accorgo di aver parlato a voce alta, così, per non mostrargli il mio imbarazzo, passo sotto al suo braccio e spalanco la porta.

Come immaginavo è una camera, con un grosso e pesante letto a baldacchino, ovviamente non originale dell'epoca in cui andavano di moda, un tavolo tondo con tre sedie, un paio di comodini e un armadio a due ante semiaperto. Diversamente da quanto immaginassi, non vedo nessuno all'interno, anche se il pavimento è coperto di impronte. Le coperte, trasudanti polvere e umidità, sono abbassate sul materasso ammuffito e tagliato in più punti, con lacerazioni troppo precise per supporre che siano opera del tempo o dell'usura, sembra piuttosto che qualcuno si sia divertito a seviziarlo con un coltello.

Una delle sedie è caduta a terra, nel centro della stanza, e il pavimento, lì vicino, è ravvivato da una fitta serie di piccole chiazze tondeggianti, rosso scuro, che arrivano fino al letto, dove, abituatami alla semioscurità, riescono a vedere schizzi sbiaditi dello stesso colore, come tracce di sangue o vernice ormai secca.

“Questa era la camera padronale” spiega Gabriel. “In quel letto Morel ha ucciso sua moglie.”

Mi sembra assurdo. Chi avrebbe potuto lasciare un simile obbrobrio in casa propria? Già il mobilio è pacchiano di per sé, in più se ci si aggiunge la storia dell'omicidio, la prima cosa che avrei fatto entrandone in possesso sarebbe stato bruciarlo.

“Nessuno che abbia provato ad abitare qui è mai riuscito a liberarsi di queste schifezze” mi spiega prima che protesti, facendomi venire ancora più voglia di ribattere. “So che ti sembra incredibile e incomprensibile, ma ogni oggetto che è in questa casa è appartenuto al suo primo proprietario.”

“Quindi quella roba sarebbe sangue?”

“Probabile.”

“E i tizi che erano qui dentro? Sono svaniti nel nulla?”

“Forse sono usciti dalla finestra” dice senza convinzione, guardando i vetri scheggiati, ma palesemente chiusi dall'interno da almeno un secolo, a giudicare dallo strato compatto di ragnatele sulla maniglia.

Mi avvicino al materasso, nauseata dalla puzza incredibile che sprigiona e che, solo pochi passi prima, non avevo avvertito: è come se ci fossero dentro uova marce e carne putrefatta. Eppure, nonostante abbia voglia solo di vomitare, mi appoggio alla spalliera e inarco il bacino verso Gabriel, mugolando impercettibilmente quando le sue mani mi cingono la vita e mi trascinano indietro, per poi allontanarsi subito da me.

“Che mi succede?” sussurro sconvolta, dando involontariamente fiato al mio pensiero. “Era così anche prima?”

Non risponde, anche se il suo guardo è perfettamente eloquente, poi sbatte le palpebre e scuote la testa.

“Così no, così non è naturale.”

“Ma c'era già quest'attrazione, anche se non alterata dalle droghe che mi hanno dato?”

Di nuovo silenzio.

“Se è così, devi assolutamente trovarti un lavoro” nell'incertezza, meglio guardare al lato pratico. “Non puoi assolutamente rimanere uno spiantato.”

Sospira sonoramente.

“Siamo stati a letto insieme?”

“No” sembra imbarazzato dalla domanda improvvisa.

“Perché?” chiedo curiosa, prima di rispondermi da sola. “Probabilmente perché sei uno spiantato.”

“Probabilmente” adesso è di nuovo irritato. “O forse mi ritieni troppo violento.”

Sembrerebbe una ragione molto più valida, ma non mi sembra veritiera.

“Comunque, possiamo andarcene da qui, non c'è nessuno” continua, arretrando verso la porta, mentre continua a tenere d'occhio ogni angolo della stanza, come si aspettasse l'attacco di un mostro gigante dal soffitto.

“E' impossibile, ho sentito dei rumori e delle voci” guardo sotto il letto, ma c'è troppo poco spazio per fornire un nascondiglio. “Sono nell'armadio!”

Forte della mia inattesa epifania, spalanco l'anta accostata e mi preparo ad essere travolta da un paio di corpi imbarazzati e pronti alla fuga, ma mi trovo davanti solo qualche ragno spaventato e un nugolo di tarme annidiate in vecchi capi di biancheria di lusso.

“Anche i vestiti sono quelli di Morel?” tossisco, provando a frugare tra l'intrico polveroso di sete, pizzi e merletti. “Questa roba è un po' indecente per risalire al primo Novecento.”

“Si dice che Morel fosse un vizioso, oltre a tutto il resto e che usasse la moglie come schiava di piacere” Gabriel si è avvicinato e ha tirato fuori una spessa cinghia di cuoio e delle logore manette di stoffa dal fondo dell'armadio. “Era anche un sadico. Le grida di Fadwa si udivano fino alle case circostanti, ma nessuno è mai intervenuto. Non lo farebbero adesso, figuriamoci in un'epoca in cui, tutto sommato, era normale considerare le donne oggetti da sfruttare.

“Fadwa?”

“Era la moglie araba di Morel. L'aveva comprata, così si dice, quando era ancora bambina e l'aveva istruita perché diventasse esattamente ciò che lui voleva.”

“Quindi la catenina apparteneva a lei? E era suo il nome inciso sull'incensiere.”

“Sicuramente. Morel voleva che fosse lasciva e impudica, ma non aveva tenuto conto che avrebbe potuto sfogare la sua passione anche con altri uomini. Fu la gelosia a spingerlo a ucciderla, almeno a quanto riportano i giornali dell'epoca.”

“Con un accetta. La stessa che avrei trovato nel capanno?”

“Può essere” mi guarda come se volesse strangolarmi. “Devi smetterla di infilarti in ogni dannato casino che incontri. E dobbiamo andarcene da qui. Vieni, ti porto a mangiare qualcosa.”

“Non ho fame, ma tu faresti meglio a andare a chiedere scusa al tuo principale.”

“Non ci penso neanche. Perché dovrei farlo? Per riavere quel lavoro?”

“tanto per cominciare perché non si prende a pugni la gente ad ogni divergenza di opinioni e poi, sì, anche per riavere uno stipendio a fine mese.”

“Non mi riprenderebbe, fidati. E comunque, non preoccuparti, ho un colloquio domani per un posto in banca.”

“In banca?” se fosse un fumetto, la nuvoletta avrebbe tutti gli angoli frastagliati e le parole sarebbero in grassetto. Mi sarei stupita meno se avesse detto di aver fatto domanda per un club di incontri di lotta clandestini.

“Sì, ho una laurea in Scienze economiche.”

A parte che non credevo neanche avesse finito la scuola superiore, mi rendo conto di averlo giudicato solo in base al suo atteggiamento trasgressivo e all'aspetto trasandato, in quanto, in effetti, sia il suo modo di parlare che la stessa inflessione del tono di voce rivelano un'ottima preparazione culturale; ad ogni modo, pensarlo chiuso in un cubicolo angusto con vecchiette rompiscatole che vogliono la propria pensione è totalmente innaturale.

“Perché vorresti lavorare in banca?”

“E' un lavoro come un altro... e gli altri li sto un po' esaurendo.”

Questo non mi stupisce e, in fondo, potrebbe essere un buon modo per racimolare uno stipendio almeno decente.

“Guardiamo le altre stanze?” gli sorrido, mentre provo a immaginarmelo con giacca e cravatta dietro alla scrivania da direttore.

Alza gli occhi al cielo.

“Guardiamo le altre stanze, tanto, ormai...”

 

 

Non aggiornavo da una vita, in parte per mancanza di tempo, in parte perché ho cercato di creare un capitolo un po' meno breve, per non appesantire la narrazione... spero di non aver appesantito il capitolo! Devo ancora finire l'opera di ristrutturazione dei brani precedenti ^_^ Un grazie a chi segue questa storia!!!

  
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