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Autore: mormic    22/10/2014    4 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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CAPITOLO 12
 
Ho mandato a memoria in fretta il messaggio che Plutarch vuole far avere a Tigris.
Sono tornata a casa a cambiarmi.
Ho guardato la valigia e l’ho lasciata lì, senza avere il tempo di fare ciò che Haymitch mi ha chiesto.
Ora sono di nuovo davanti al negozio e aspetto, nella penombra del crepuscolo, che Tigris finisca di chiudere la porta con la dozzina di lucchetti e catene che ha portato fuori sferragliando come una ferramenta.
Alla faccia dell’alta tecnologia.
Contro ogni mio senso di rigore ho anche acceso una sigaretta.
Qualcosa che a Capitol City è praticamente un tabù, una cosa proibita, un atto di ribellione, qualcosa di cui vergognarsi.
Ma Tigris aveva questo pacchetto mezzo aperto sul bancone e non ho saputo resistere. Non fumavo una sigaretta da almeno dodici anni.
Lei tiene la sua tra le labbra feline, mentre con entrambe le mani armeggia per avvolgere la catena attorno alle enormi maniglie tubolari del suo negozio, e il fumo si avviluppa salendole lungo il viso, facendola sembrare una canna fumaria.
La sola immagine mi rivolta lo stomaco. Adesso puzzeremo di tabacco bruciato per tutta la sera.
Schifata, faccio un ulteriore tiro dalla mia e la getto a terra, schiacciandola con il plateau delle mie scarpe rosa.
Il vicolo è buio, per fortuna, e con il negozio completamente spento, è impossibile che ci vedano dalla strada. In più, a quest’ora, quasi nessuno è in giro.
Non vorranno perdersi il riepilogo serale di questa giornata di giochi. Figuriamoci.
Tigris mi guarda, i suoi occhi scintillano nell’oscurità, come fossero veramente occhi felini. Assottiglia lo sguardo e le sue pupille si riducono a due fessure, come percependo più luminosità.
“Tranquilla, bocconcino. Non ci vedrà nessuno. Abito qui sopra” mi dice, capendo perfettamente i miei pensieri.
Sono nervosa.
Si vede così tanto?
Che ne so io se Capitol non ha un sistema di telecamere a circuito chiuso distribuito in ogni angolo della città?
“Qui sopra? – domando curiosa – ma dove…”
“Si sale da qui. Vecchi sistemi” dice brevemente.
Non avevo notato, fino a quell’istante, la scala ritraibile chiusa un metro e mezzo sopra la porta del negozio. Una scala di emergenza. Un sistema di fuga ereditato dai tempi passati, ma in disuso da secoli.
“Non sapevo che esistessero ancora cose del genere” ammetto in un soffio di voce.
“Siamo in centro. Alcuni edifici sono davvero vecchi” spiega alzando le spalle, liquidando la questione.
“Mi costerà parecchia fatica arrampicarmi lì su con queste” mi lamento, alzando un piede e mostrando i tacchi vertiginosi.
“Toglile. Di sicuro non te le rubo” e scoppia in quella sua strana risata che somiglia al soffio di un gatto. Poi estrae da non so dove, un tubolare metallico con un gancio, afferra l’ultimo gradino della scala e la apre, ma fa cenno di andare avanti.
Solo quando sollevo la testa mi accorgo che quello è l’edificio più basso del circondario.
Sembra fuori posto.
Eppure è perfetto lì dov’è.
Un ultimo baluardo di quello che fu.
Chissà perché mi viene da sorridere.
Dopo una sigaretta illegale, una scala antincendio, una prossima conversazione complottistica e il fatto che sia diventata una specie di messaggero della resistenza rivoluzionaria, togliermi le scarpe e salire a piedi nudi mi sembra davvero poca cosa.
Però sporcherò i miei meravigliosi collant di filo di seta.
Che peccato.
 
“Insomma, cos’è che devi dirmi?” domanda Tigris.
La domanda arriva diretta, senza preamboli, accompagnata da un lungo sguardo indagatore che mi penetra fino alle ossa.
Mi sento nuda di fronte a quegli occhi gialli.
Faccio mente locale e ripasso velocemente tutti i punti importanti.
In realtà mi accorgo che faccio fatica a parlare.
Il cibo che ho di fronte non mi aiuta.
Accanto al mio bicchiere, pieno di vino rosso, il tegame della fonduta emana un forte odore di olio bollente e fuma come fosse la sigaretta che ho spento qualche ora fa. Ciò che non sopporto è la vista della carne cruda, separata in tanti piccoli bocconcini su un piatto bianco dal bordo ricamato in morbidi intrecci. Sopporto ancor di meno il pensiero di infilzare i tocchi ancora rossi di sangue per gettarli nell’olio bollente. Per non parlare del brivido che mi sale lungo il collo ogni volta che il mio sguardo cade accidentalmente sulla tartare al coltello che ho nel piatto. Tutto quello che c’è sul tavolo al momento mi ricorda il festino iniziale dei giochi. Ho come l’impressione di mangiare la gamba mancante di Peeta.
Deglutisco a fatica e cerco la voce per cominciare.
Incredibile che ora mi manchi.
“C’è una ribellione in atto – inizio d’effetto – tutti i tributi saranno fuori in poco più di ventiquattro ore” dico in un solo respiro.
Per un attimo non ottengo nessuna sua reazione, poi Tigris sposta il peso in avanti, poggia i gomiti sul tavolo e la testa sulle mani incrociate. E mi fissa.
“E a me cosa dovrebbe importarmene?” domanda annoiata. Ma i suoi occhi tradiscono la forza della sua curiosità.
Tentenno, temendo di aver cominciato nel peggiore dei modi.
Oltretutto ho appena spifferato, come fosse un’informazione senza importanza, il fulcro del piano dei ribelli, quando ancora non ho avuto realmente modo di assicurarmi che Tigris sia la persona giusta.
“Va avanti” mi incita.
“I sistemi di difesa scatteranno all’istante. Qui a Capitol saremo tutti al sicuro – trattengo un sospiro di sollievo per essere riuscita a dire la piccola bugia che mi era stata ordinata: ho detto “saremo” e non ho fatto scappare, come temevo un “sarete” che mi avrebbe tradita subito – ma nei distretti è già cominciata la rivolta e prima o poi arriverà anche da noi” continuo.
Tigris mi interrompe subito.
“Cosa vuoi che gliene freghi, alla cittadinanza di Capitol?” mi domanda freddamente.
“All’inizio non gliene importerà nulla, ne sono sicura. Ma quando cominceranno a scarseggiare tutte le loro derrate provenienti dai distretti, credo proprio che la rivolta sarà la loro preoccupazione principale” dico convinta.
Tigris sembra accettare la risposta.
“Non hanno speranze di farcela. Che escano o no tra ventiquattro ore, tra quarantotto sarà tutto finito” minimizza.
“Credimi, non sarà così” le dico, allungando una mano sul tavolo e afferrandole il braccio.
Non so perché l’ho toccata. Ma sono assolutamente certa che non sarà così e forse le parole non sarebbero bastate per dare la giusta forza alla mia convinzione.
Tigris guarda la mia mano sul suo braccio e io la ritraggo imbarazzata.
“Non possono nulla contro la potenza di Snow. Ha armi, l’appoggio incondizionato di tre distretti, il potere decisionale sulla logistica degli altri nove e affama il popolo a tal punto che nessuno avrà la forza di alzare un dito. Usciranno da quell’arena per finire direttamente nelle celle presidenziali. Fidati” mi spiega.
È fredda.
Non un velo di quell’ardore ribelle che ho visto oggi pomeriggio.
Rassegnata.
“I distretti si sono già sollevati. L’ho visto durante il tour della vittoria. Il meccanismo è già in atto. E poi Plutarch saprà sicuramente come muoversi” dico.
“Plutarch?” domanda Tigris sbalordita.
Forse non avrei dovuto nominarlo adesso.
Avrei dovuto aspettare.
Maledizione. Io non so portare avanti questa conversazione.
“Sì, Plutarch” confermo cercando di non vacillare.
“Maledetto stratega. Devo ringraziare anche lui se sono finita a vendere panni sporchi” borbotta riempiendosi di nuovo il bicchiere di vino e scolandolo alla goccia in poco meno di un secondo.
“Avrà avuto i suoi buoni motivi” mi lascio scappare.
Appena mi rendo conto di ciò che ho detto mi tappo la bocca e sgrano gli occhi, ma Tigris sorride.
“Ovvio. Ora capisco anche quali” ammette non spegnendo quello strano sorriso obliquo dalle labbra sottili.
“Ti stava tenendo buona e lontana” dico.
Mi domando da dove mi vengano certi pensieri. Di solito l’intelligenza la spengo di proposito la mattina appena mi sveglio, ma tutti questi movimenti illegali, questi sotterfugi, questi toni complottistici, non fanno che tenerla accesa e vigile.
“Mi ha resa lontana, inaccessibile e dimenticata. Solo così sarei potuta tornargli utile” dice.
Poi afferra un bastoncino di legno, infilza un boccone dal piatto bianco e lo immerge nell’olio bollente.
Per qualche secondo rimaniamo in silenzio ad ascoltare la carne sfrigolare.
Ho come l’impressione che Tigris abbia capito prima che io potessi spiegare.
“Hanno il sostegno del 13” le dico di getto.
Tigris sgrana gli occhi e quasi si strozza con la carne.
“Ne sei sicura?” domanda deglutendo in fretta.
“È li che porteranno i tributi”.
Tigris si alza e comincia a camminare avanti ed indietro dall’altro lato del tavolo.
Ora è improvvisamente eccitata.
Invece a me è aumentato il nervosismo.
Sono tutte cose che Plutarch mi aveva chiesto di rivelarle. Eppure non mi sento sicura. La paranoia che qualcuno stia ascoltando mi sta divorando.
“Questo cambia ogni cosa. Sapevo che c’era dell’altro. Se il tredici è ancora in piedi questa è la rivoluzione” dice rapidamente.
Il ronzio che sento sotto le sue parole sembrano fusa di gatto.
“Così parrebbe” ammetto stancamente.
“Cosa devo fare?” domanda attenta.
“Diventare un contatto sicuro. Mantenere la tua vita così com’è. E aspettare. Quando sarà il momento, Plutarch troverà il modo di contattarti. Ma deve essere sicuro di avere la tua disponibilità” le spiego.
È fatta. Ho detto tutto quello che dovevo.
“Puoi dirgli di averla tutta. Non vedo l’ora di vedere quel bastardo di Snow con il culo per terra”.
“Bene. Il mio lavoro è fatto. Torno a casa. Grazie per la cena” le dico con cortesia, alzandomi e tendendole la mano.
Lei la afferra e la stringe forte.
“Ma non hai toccato cibo…” mi fa notare.
Non voglio offenderla. Odio la carne cruda.
“Credimi. Dopo gli ultimi due giorni credo che il mio stomaco si sia chiuso definitivamente”.
 
Torno a casa a piedi, ma non entro.
Mi fermo davanti la porta e chiamo un taxi.
Voglio tornare al centro di addestramento il prima possibile.
Devo dire ad Haymitch che ce l’ho fatta.
Quando arrivo tutto è calmo.
Il salone si è svuotato, strateghi e sponsor sono nelle loro stanze.
Probabilmente anche i tributi avranno trovato un modo per passare la notte.
Salgo al dodicesimo piano e apro con il mio badge la porta della suite di Haymitch.
L’immenso angolo cottura ha le luci accese. Continuo a non capire perché le suite abbiano la cucina se nessuno le usa. Il salone invece è in penombra e dal cambiare colore della luce capisco che solo il televisore è acceso.
Haymitch è sulla poltrona, la bottiglia di gin in mano, una gamba accavallata sul bracciolo, lo sguardo assente.
Ha bevuto.
Improvvisamente sento il terrore gelarmi l’ossigeno nei polmoni.
Non so niente di quello che succede nell’arena da oggi pomeriggio.
Lascio cadere la borsa a terra, accanto all’isola della cucina e mi avvicino lentamente.
“Hay?” lo chiamo con un fil di voce.
Lui non si muove.
La sua espressione fissa in un grugno che non so decifrare.
“Haymitch?” riprovo quando sono inginocchiata accanto all’altro bracciolo e cerco di guardarlo negli occhi. Ma lui ha lo sguardo fisso di fronte a sé, verso un punto non ben definito.
“Ehi? Sei lì?” domando ancora, accarezzandogli la mano abbandonata giù dal bracciolo, quella che tiene mollemente la bottiglia di gin.
“Sono fottuto, Effie” dice poi, senza distogliere lo sguardo dal niente che lo trattiene.
“Che succede. I ragazzi stanno bene?” domando ansiosa.
E non riesco a trattenere l’altra mia mano, che adesso gli accarezza la testa.
Da quando sento questo stupido e irrefrenabile istinto di prendermi cura di lui?
“Benone. Adesso. Domani invece, se qualcosa andrà storto, io li avrò distrutti”.
Le sue parole sono un sussurro strascicato. Sta facendo fatica a far uscire le parole.
“Perché? Domani saranno liberi…” inizio.
Ma la diga si apre.
Le sue dita si stringono di nuovo attorno alla bottiglia e le sue gambe scattano in piedi.
Prima che possa capire costa sta per accadere, la bottiglia vola per la stanza e si schianta sulla porta della suite, andando in frantumi, in una cascata di liquore e vetri.
Istintivamente salto, le mani sulle orecchie, le lacrime agli occhi.
Non capisco.
“Dovevo esserci io in quell’arena!” grida.
Sembra il ruggito di un leone ferito.
“Haymitch, non potevamo fermare Peeta… si è offerto volontario” gli ricordo inutilmente.
Mi sento così impotente, inutile.
“Avresti dovuto estrarre il suo nome…” dice.
Mi sta accusando di qualcosa?
“Non sono io a scegliere cosa estrarre…” mi giustifico.
Ora ho come l’impressione di essere rimpicciolita. E vorrei farlo fino a scomparire.
“Se ci fossi io in quell’arena, sarei sicuro di poter salvare tutti e due…” la sua voce si incrina.
“Haymitch, domani a quest’ora saremo…” inizio, ma mi interrompe con rabbia.
“Domani a quest’ora potremmo essere tutti morti. O peggio. Potrebbe essere morto uno dei due… e così avrò ucciso anche l’altro” e improvvisamente, così come era arrivata, la sua rabbia scompare, lasciandolo ingobbito e stanco, in piedi al centro del salotto, che ancora non mi ha rivolto uno sguardo.
“Ma perché dici così?” riesco a domandare.
“Perché si amano, Effie” sussurra.
“Certo che si amano. Loro sono gli sventurati amanti” dico io, sperando che sia tutto lì, racchiuso in quella stupida definizione che abbiamo creato.
“No, Effie. Si amano davvero. Li ho visti. Sulla spiaggia. Dichiararsi un amore incondizionato senza nominarlo mai. Li ho guardati baciarsi per non so neanche quanto tempo. Io li conosco Effie. Se ne perdo uno, uccido l’altro” dice accasciandosi a terra, il capo chino, le mani tra i capelli.
Mi avvicino carponi e lo stringo a me.
“Sei sicuro che non stessero recitando?” domando speranzosa, ma conosco perfettamente la risposta.
“Peeta non ha mai finto, lo sai. Il problema è Katniss. Lei non se ne rende neanche conto”.
Rimaniamo lì, abbracciati a terra, senza aggiungere altro.
Capisco la sua disperazione. È talmente forte che per qualche minuto attanaglia anche me.
“Hay, qualsiasi cosa accada, non sarà colpa tua”.
“Non sono io ad averli buttati in quella maledetta arena, no. Ma è una mia responsabilità tenerli in vita. Non me lo perdonerei mai…”
Se non conoscessi davvero Haymitch Abernathy, crederei che stia piangendo.
Ma non versa lacrime. Si aggrappa a me, invece, e nasconde il viso sul mio petto.
“Li salveremo. Saranno al sicuro, vedrai. Smetti di vedere le cose nere. Abbi un po’ di fiducia. E adesso alziamoci di qui e mangiamo. Ho una fame terribile” gli dico, cercando di sorridere. Cercando di scacciare la disperazione che dilaga.
Ma Haymitch non solleva il suo viso dal mio seno.
“Ti prego, non togliermi anche questo” sento dirgli sulla mia camicetta.
“Cosa non devo toglierti?” chiedo senza capire.
“La sensazione di essere ancora un uomo”.
Sento le lacrime arrivare di nuovo ad offuscarmi la vista.
Ho tra le braccia un uomo consumato dal dolore e dall’inesistente stima di sé stesso. Un uomo che rifiuta ogni sorta di contatto umano. Ogni aiuto. Che rifiuta chiunque cerchi di entrare nella sua vita, prima ancora che ci provi.
Lo fa con tutti.
Tranne con Peeta.
Tranne con me.
Non lo farebbe neanche con Katniss, se anche Katniss non fosse esattamente come lui e cacciasse via chiunque allo stesso modo.
Haymitch è solo.
È solo se escludo noi.
E allora capisco un po’ di più. Capisco che non è solo la paura di spezzare definitivamente uno dei suoi due ragazzi. C’è anche la paura di non poterli più guardare negli occhi, se qualcosa dovesse andare storto. C’è la paura di perderli. Di perdere il loro strano rapporto. Di perdere qualcuno che ama davvero.
Ed è tutta questa pienezza di sentimenti mal celata che mi fa cedere.
Non riesco a trattenermi.
Non posso far finta di non provare quello che provo.
A questo punto le lacrime scorrono da sole, trovando una loro via verso la camicetta, proprio accanto la guancia di Haymitch.
Lui solleva lo sguardo e pianta i suoi occhi color tempesta nei miei.
“Bocca di baci, ti prego, non farmi questo”.
La sua mano raggiunge delicatamente la mia guancia e il suo pollice scaccia le mie lacrime.
Sorrido sotto quel tocco delicato, non credendolo capace di gesti simili, di parole simili.
“E tu smettila di essere così maledettamente sensibile. Non sono abituata!” trillo sperando di nascondere tutto dietro la mia solita facciata da oca giuliva.
Non ottengo l’effetto desiderato.
O forse, invece, ottengo quello che voglio di più.
La mano di Haymitch è ancora sul mio viso, il pollice a sfiorare le mie labbra, la sua testa sul mio seno, le nostra ginocchia sul tappeto, i nostri corpi troppo vicini.
Non ho neanche il tempo di perdermi in quelle nuvole minacciose.
Mi abbandono tra le sue braccia e lascio che la sua barba mi punga il viso e la bocca. Lascio che mi baci con una tale disperazione che pare quasi voglia farmi entrare nel suo corpo.
D’un tratto io e lui siamo un solo essere.
Cadiamo sdraiati sul tappeto e le nostre gambe si intrecciano.
Le nostre bocche non si dividono un attimo mentre le sue mani sfilano la mia camicia da dentro la gonna e si insinuano sulla mia pelle, con un calore che non credevo fosse possibile.
Le sue mani sono ruvidi e rudi, ma il mio corpo sembra accendersi sotto il suo tocco.
Io lo so che quest’uomo mi farà impazzire.
È grigio.
È ammaccato.
È intrattabile.
È un alcolizzato.
È irruento.
È incontrollabile.
Ma ha qualcosa dentro, che mi attrae come un orso con il miele.
E so che quando riuscirò ad assaggiarlo, non riuscirò più a farne a meno.
Mi ritrovo sotto il suo corpo, i nostri bacini così attaccati, il suo peso sul mio petto e i suoi occhi di nuovo nei miei, le mani a circondarmi il viso. Mi scansa i capelli dalla fronte.
“Bocca di baci… che soprannome azzeccato…” mi dice sorridendo.
“Direi che la nostra copertura non può saltare a questo punto…” sorrido anche io.
“Oh, ma è stato tutto studiato. Per essere sicuri dovremmo darci da fare…” dice dandomi una leggera spinta.
Sento che potrei perdere il lume della ragione. Ora. In questo preciso istante.
Ma se c’è una cosa che so fare in maniera egregia è controllarmi.
Non posso mettere altre cose in gioco oggi.
Rischierei il collasso.
Già così è difficile rimanere lucida.
Eppure quanto vorrei, quanto mi piacerebbe poter far finta che questo maledetto mondo fosse un altro.
“Non se ne parla, ho una fame terribile” gli dico cercando di levarmelo di dosso.
Ovviamente non lo smuovo di un millimetro.
“Sapessi che fame ho io, invece” dice con malizia.
“Oh, lo so eccome. Si sente… Levati, Hay, ho intenzione di chiamare il servizio in camera” gli dico cercando di nuovo di alzarmi.
“Se solo potessi averlo anche io, un servizio in camera…”
E improvvisamente c’è solo una cosa che possiamo e riusciamo a fare: ridere.
Ridere. Ridere Ridere.
Perché forse domani, non potremo farlo più.
 
Chiedo scusa per l’attesa…
Ammetto di non averlo neanche riletto, spero non ci siano errori e visto che è tardissimo, non trovo altro da dire se non che spero davvero che vi piaccia…
Mor
   
 
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