Two
lost souls swimmin’in a fish
bowl
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Hey you,
would you
help me to carry the stone?*
In quel momento
non avrei mai creduto che l’odore della palestra avrebbe tormentato le mie
fantasie di donna ben dieci anni dopo. Che quella stessa luce al neon, chiara
come la nolente verità, avrebbe raffreddato la confidenza che serbavo in me
stessa, in una notte di aspettative disattese.
E forse era chiaro anche allora che non sarei stata in grado di salvare Vegeta,
nella presunzione di poter cambiare quella sua sofferenza con una pizza tra
amici. I miei amici.
Gli chiesi ancora cosa avesse deciso, quasi offesa per la sua irriconoscenza
nei mei confronti, per quella sua riluttanza a passare del tempo con me, quasi
l’unica al mondo a poterlo capire; perché avrei fatto qualsiasi cosa per
annebbiare il ricordo del padre con un presente di sorrisi, quando lui
preferiva tormentarmi senza rispondere. Nel profondo, non lo avrei mai ammesso,
credevo mi fosse dovuto almeno un abbraccio, soprattutto dopo avermi visto
piangere per lui; mi consideravo, era vero, ormai parte indimenticabile della
sua vita e non capivo perché lui non voleva riconoscerlo. Quasi stufa di
doverlo sempre riconcorrere per tirarlo fuori dalla sua mente, la mia paura,
pensavo, meritava empatia e mi sbagliavo. Sentivo che saremmo stati legati per
sempre, in un cameratismo di dolore di cui, senza accorgermene, mi compiacevo
con me stessa. Sentimenti complicati, troppo per poter essere afferrati nella
loro egoistica essenza da una giovane ragazza ai primi assaggi di vita. Li
scambiavo per amicizia e altruismo disinteressati, ma era soltanto voglia di
passare del tempo con lui. Ora lo riconosco, non era compassione ma
giustificazioni date a me stessa.
Tuttavia, era ancora il 1998, eravamo adolescenti, eravamo prede di emozioni
potenti e me la presi. Quando il suo sguardo scorse oltre le mie spalle, avevo
ancora la convinzione che avesse potuto accettare il mio stupido invito. La
delusione sarebbe arrivata in un istante, fastidiosa come il dito indice che,
da lì a pochi secondi, C18 avrebbe imposto a pistola contro la mia schiena “Ci
provi sempre, vero?”. Poi Vegeta mi avrebbe dato le spalle, io lo avrei
rincorso… lo ricordo come fosse ora… afferrandolo per un braccio, “Dai, ho
anche ilKaraoke!”, dicevo. Ti dicevo.
E ora sei qui, Vegeta, lontano la distanza di un vetro. Mi tremano le mani, mi
trema la voce, mi tremano i pensieri che, veloci, trascinano lacrime. Avrei
voluto abbracciarti con la forza di un’attesa decennale, e invece sono qui con
la paura di romperti anche solo con lo sguardo. Sei forte, tuttavia umano e
dicono che forse morirai.
Nel caso tu non morissi… nel caso tu non morissi… nel caso tu non morissi…
Vegeta…dovrei dirti che non m’importa niente di chi hai ucciso stasera. Di cosa
hai fatto, perché. Ti direi: “Vieni a casa”, come fosse quella sera.
Non cederei alla forza della distanza che, da giovani, le nostre paure ci
imponevano. Non ascolterei la mia testa, andrei dritta per il cuore.
«Ma si può sapere che vuoi?» Strattona il
braccio per liberarlo dalla presa, «Ehi Yamcha,
perché non te la vieni a riprendere? Mi ha stancato!» Ma prima che Yamcha colga l’insolenza, Vegeta decide di continuare il suo
monologo a labbra tirate di rabbia: «Mi hai stancato Brief, mi sei sempre tra i
piedi! Ma che diamine vuoi?»
«Mh…Vacci piano, Vegeta, o si metterà a
piangere di nuovo!», affonda C18.
«Glielo hai detto?», domando furiosa, più colpita dalle parole di C18 che da
quelle di Vegeta, resa partecipe di quell’unico, intimo istante tra me e lui.
«Ehi, Bulma, tutto bene?», sopraggiunge Yamcha,
osservando tutti e due in modo torvo.
«Non lo vedi? La tua ragazzetta mi pare piuttosto insoddisfatta!» Bercia Arensay,
strafottente, leccandosi il labbro superiore. «Forse dovresti farti lei,
piuttosto che la copia! Sarebbe ora, o continuerà a chiedere ad altri di spogliarla.»
«Vegeta…», sospiro.
«Come? Che cosa vuol dire, Bulma, Vegeta?»
«Oh non te l’ha detto, forse?» Scoppia a ridere quest’ultimo. «Che
mentre punisce te per esserti scopata un’altra, una sera si sarebbe volentieri
fatta dare una botta da me!» La risata diventa più forte, gutturale, maliziosa.
«Non è vero, Yamcha!», riesco solo a mentire,
impreparata davanti a quello schiaffo morale che mi arriva proprio dal poco
raccomandabile Vegeta.
C’è molta gente intorno a noi; tra ragazzi e genitori impegnati a tessere le
lodi dei loro figli ai professori, nessuno ci bada, venendoci incontro.
Bloccandoci. E Vegeta non sta nemmeno gridando, afferma, con quella sua voce
calma e velata, rendendo ancora più pesanti le parole. E la sue risa potrebbero
essere intese come nate da una battuta spassosa, tanto è distaccato quel suo
tono strafottente.
«Siete solo patetici! Degli inutili mocciosi. E tu, Brief, ora che hai quasi assistito alla morte di mio padre, ti
senti libera di rivolgerti a me come a un qualunque dei tuoi stupidi amici; sappi che non
ho bisogno della tua pietà. Mettiti pure il cuore in pace, di mio padre non me
ne importa niente, tanto meno di te. Anzi, sei talmente fastidiosa che avresti
potuto morire quel giorno come una mosca qualsiasi.»
Quelle sue parole mi arrivano talmente sproporzionate rispetto al mio
invito che resto confusa, ferita e mortifica; per la prima volta incapace di
reagire durante un litigio. Nondimeno, con Vegeta non sono mai sicura di poter vincere.
«Adesso basta, Vegeta!» Sbotta a qual punto Yamcha,
che finalmente crede di avere un motivo valido per mandarlo a quel paese
sembrando l’eroe ma m’infastidisco delle sue interruzioni e glielo dico che non
c’entra nulla lui, tra me e Vegeta. Il quale a un certo punto si avvicina,
scansando Yamcha che gli si era parato davanti allo
scopo di proteggermi, ma
nessuno ha il diritto di proteggermi da Vegeta.
C18 lo richiama risentita mentre lui mi afferra il mento con una mano e, «Lo
vedi», sussurra, sfiorandomi le labbra con il suo respiro. «Quanto sei
ridicola?».
«Oh lo dicevo io che siete fidanzati. Ma che bella coppia!»
Irrompe a quel punto mia madre, procedendo al braccio di mio padre.
Vegeta si allontana, infastidito, lancia a mia madre tutto il suo disprezzo
dagli occhi neri. «E la pizza, puoi anche ficcarla nell’orifizio che vorresti
ti prendessi!» Mi dice, e ride ancora, di una battuta che è un insulto. Vedo Yamcha fremere di collera, vorrebbe rincorrerlo e
picchiarlo ma suppongo tema di rompersi di nuovo il naso; C18, invece, gli
corre dietro. Mia madre che come al solito non ha capito un accidenti «Cosa
avrà voluto dire, caro? Però è così carino».
Nemmeno io lo lascio andare. Gli corro dietro, perché tanto lo so che non
è con me che ce l’ha e non gliela perdono. Devo sapere. Gli devo dire che è un
arrogante, un vigliacco che ha paura di dover ammettere di essere triste.
Fuori sta piovendo, sono nel parcheggio, C18 è lì che lo rincorre; dietro di me
sento i passi e la voce di C17 che li richiama. Fa freddo, molto. Grido il nome
di Vegeta, ma C18 lo pronuncia più forte di me, aggiungendo uno schiaffo che
non arriva a destinazione.
Vegeta dice qualcosa, lo richiamo, ma è a C18 che parla. C17 li raggiunge. Li
raggiungo.
È troppo tardi, C18, con tutta la sua forza, dà una spinta a Vegeta, il quale
non aspettandoselo, perde l’equilibrio e cade a terra. Si rialza, è furente.
«Ma cosa credi che solo perché sei una femmina non sia capace di colpirti?» e la
spinge a sua volta, con più forza, contro una macchina.
«Vegeta, adesso basta, o te la vedrai con me!» Interviene C17 in soccorso alla gemella.
«Fatti sotto, allora!» Lo provoca Vegeta.
«Vegeta!» Lo richiamo anch’io.
«Tu sta’ zitta, stupida!» Mi dice la ragazza.
«Stupida a chi, maldetta strega?» Ribatto, lanciandomi contro di lei; le
afferro i capelli e tiro forte.
L’altra risponde con un calcio negli stinchi. A quel punto sto per fare la
contromossa, schiamazzando insulti come una povera gallina a cui stanno
torcendo il collo, ma Vegeta mi afferra per le spalle allontanandomi da C18.
C17 regge già la sorella.
«Lasciami, lasciami!» Mi dimeno.
Anche gli altri, a questo punto ci raggiungono allarmati, tranne mio padre che
mi chiede come mai non ho portato l’ombrello. Mi distraggo da quella domanda
fuori luogo e mi calmo.
Sento le braccia di Vegeta scivolarmi addosso mentre allenta la presa. I nostri
vestiti sono bagnati; noi quattro: Vegeta, C18, C17 ed io siamo,
effettivamente, senza ombrello. Passata l’adrenalina, mi accorgo adesso del
freddo e mi stringo nel maglione bagnato, quasi un riflesso incondizionato.
«Stavamo solo parlando.» Mi difendo, appuntando i gomiti.
«Non credere sia finita qui!», mi avverte C18, mentre si allontana. C17
scuote la testa, guarda Vegeta con ostilità per aver osato maltrattare la
sorella tanto amata, e segue quest’ultima fino alla macchina che li avrebbe
riportati a casa. Vegeta resta solo, diviso anche da me da un muro invisibile.
Ci guarda tutti con disprezzo, gira le spalle a se ne va. Fa alcuni passi,
sotto la pioggia; si ferma; torna indietro.
«Ehi tu!» Si rivolge a me. «Le mie chiavi di casa erano in quella
macchina. Vengo da te.» Asserisce, quasi in un ordine.
«Ma come ti permetti?» Lo riprende Yamcha.
«Con che coraggio ti inviti da lei, dopo quello che è successo?»
«Fammi il favore, impicciati degli affari tuoi!» Ribatte Arensay,
incrociando le braccia al petto. «E tu, vecchio, perché non vai a prendere la
macchina?» Domanda (ordina?) a mio padre il quale, vittima del suo
solito temperamento indolente, ridacchia: «Ecco, mi pare un’ottima idea,
figliolo!».
Una volta all'asciuto nell’abitacolo, a
coronare l’assurdità della situazione, Yamcha siede
tra me e Vegeta.
Heaven from hell,
Blue Skies from pain
Un risvolto di serata decisamente inaspettato.
Souls swimming in a fish bowl… year
after year... Canta, invece, la radio.
Finalmente
l’aggiornamento è arrivato! Scusata tutti il mio solito, lunghissimo ritardo.
Spero questo capitolo vi sia piaciuto e, se potete, lasciatemi una recensione:
le vostre opinioni sono molto importanti per me! :)