NdA: Grazie a te che hai aperto questa pagina! XD
Solo alcune piccole cose prima di cominciare.
Questa storia non vuole essere una storia d’amore, perciò, anche se questo capitolo potrà indurvi a
pensarlo, state tranquilli che non sarà così.
L’idea è abbastanza vecchia e i primi due capitoli li ho
scritti cinque mesi fa, perciò se notate un cambio di stile (e sarebbe come a
dire che sono migliorata XD) fatemelo notare!
La storia si comporrà di quattro capitoli, tutti già
completi, perciò non c’è rischio che rimanga incompleta.
Beh, che direr ancora… Buona lettura! E lasciate un
commento, per favore! XD
*No Happy
Ending*
No Hope, No Love, No Glory.
No Happy Ending.
Happy Ending – Mika
Anno 2013
1. No Hope (senza speranza)
-
Mmm… Questo no. -
-
Perché? E’ carino… - azzardai.
- No, non fa per me. - ribatté lei decisa.
Sospirai rumorosamente per attirare la sua
attenzione, ma non sembrò capirlo. Forse attribuiva la mia stanchezza al
viaggio che avevo appena concluso, in America. In realtà ero stufa di starle
dietro, mentre lei cercava l’abito adatto ad un’uscita col suo ragazzo,
un’uscita come tante altre, che io non trovavo così degna di attenzione.
Era un po’, in effetti,
che non passavo del tempo con mia sorella: mi ero dimenticata di come fosse fissata
sull’abbigliamento. Ma del resto a me piaceva così.
La guardai di sottecchi
mentre, con espressione corrucciata, squadrava una canottierina e una maglietta
a maniche corte come se fosse dilaniata dall’indecisione. Sorrisi.
-
Allora, quale ti piace di più? -
Lei
si voltò di scatto, alzando un sopracciglio, stupita da tanta curiosità.
-
Io… - rispose, tornando ai vestiti – non saprei, veramente. -
Alzai
gli occhi al cielo per un attimo, ma lei non mi vide.
-
Provatele, no? – feci, scettica.
Allargò
di scatto occhi e bocca, come colpita da un’illuminazione.
-
Hai ragione! – esclamò. E corse nel camerino più vicino, sparendo dietro la
tenda rossa, che volteggiò un attimo per poi fermarsi.
Ah, la mia Volle.
Finalmente
libera mi guardai intorno.
Prima
ero stata letteralmente trascinata nel reparto ‘eleganza’ da mia sorella a
tutta velocità e non avevo avuto il tempo materiale di capire dove mi trovassi.
In teoria doveva essere un negozio abbastanza lussuoso: non avevo mai visto
tanti commessi, né tanti capi d’abbigliamento, per non parlare dei camerini:
erano una specie di baldacchino con legno dorato intagliato e una tenda rosso
acceso.
Non
sapevo perché, ma quel locale mi metteva una certa ansia. Poteva spuntare una
commessa da un qualunque angolo e attaccarti. E allora dovevi per forza
comprare.
Non
ci tenevo a fare quella fine.
Figurati:
parli del diavolo e spuntano le corna.
Una
commessa con il nome ‘Leda’ stampato sulla maglietta voltò l’angolo.
Presa
da un insensato panico arretrai velocemente e rischiai di travolgere un
ragazzo. Quello mi lanciò un’occhiata furtiva, poi se ne andò per la sua
strada, senza nemmeno aspettarsi uno ‘scusa’.
Mi
voltai velocemente e cercai di orientarmi, ma sembrava che in pochi secondi
avessi fatto chilometri, perché non riconoscevo più i camerini in cui avevo
lasciato mia sorella.
‘Beh,
pazienza’ pensai.
Osservai
gli abiti che mi circondavano: probabilmente ero nel reparto ‘skin’, o come
chiamavo io la roba attillata. Qualche anno prima era quello il nome ufficiale,
ma adesso sembrava che il nome fosse ‘kaun style’ o qualcosa del genere.
Erano
passati anni dai miei mitici diciotto. Bei tempi.
Purtroppo
dopo aver raggiunto la maturità mi ero trasferita in America ed ero tornata
pochi giorni prima.
Mi
accorsi di come tutto suonasse tragicamente familiare. Mi era davvero mancata
la mia Germania.
- Ich heiβe Laika -
Voltai
la testa. Una bambina faceva le prove davanti allo specchio, fissando la
propria immagine, compiaciuta.
Sì,
anche il tedesco mi era mancato. Tutto quell’inglese! Non ne potevo davvero
più.
L’America
non era così male e se abitavi in un altro stato quello era un buon posto per
studiare, ma non potevo negare a me stessa che in realtà avrei preferito
studiare in patria.
Ma
avevo scelto di fare la traduttrice; in particolare dall’inglese. E avevo
dovuto per forza trasferirmi per un po’. Comunque adesso i risultati erano
davvero stupefacenti e, pur non appartenendo a nessuna associazione, avevo già
ricevuto il mio primo lavoro in merito all’impegno scolastico.
Insomma,
ero stata raccomandata dai miei professori.
E
ora avevo ventitre anni. Percepivo già la giovinezza andarsene dalla mia anima:
mi sentivo consumata dentro, come se avessi già fatto tutto quello che ci si
potesse aspettare dalla vita.
-
Ailka! -
Quella
voce che mi chiamava mi fece riscuotere.
Scossi
la testa per allontanare i cattivi pensieri, ma non c’era nessuno accanto a me.
Me
lo dovevo essere immaginato. Eppure quella voce… mi sembrava di averla già
sentita.
Ad
un tratto le luci si spensero e il negozio fu avvolto nell’oscurità.
Mi
ci volle un momento per registrare il fatto, poi capii. Miseria, ero rimasta
talmente assorta nelle mie riflessioni da non accorgermi che il locale stava
chiudendo. Probabilmente ormai erano già andati tutti via, ma se avevo fortuna
potevo avere ancora qualche possibilità di uscire.
Cominciai
a correre alla cieca, fidandomi del mio istinto, quando urtai contro qualcosa
di indefinito che veniva dalla direzione opposta. Caddi a terra.
-
Scheiße! –
esclamammo insieme io e la cosa che mi aveva travolta. Allora era umana.
- Io… - cercai di dire.
Ma la figura mi interruppe bruscamente. – No,
aspetta. –
Sentii che si alzava e tornava da dove era venuto.
Aspettai imbambolata per alcuni minuti, senza
motivo. Non sapevo perché, ma quella voce mi era tremendamente familiare e
qualcosa dentro di me mi implorava di star ferma e attendere.
E infatti qualche attimo dopo la luce sopra la mia
testa si accese nuovamente, mostrandomi che ero seduta di fronte al camerino in
cui avevo lasciato Volle. Ma, come immaginavo, lei non c’era. Magari aveva
pensato che fossi già tornata a casa e se ne era andata. Ma in che pasticcio mi
ero cacciata?
Tentai di mettermi faticosamente in piedi, ma un
dolore tagliente alla caviglia mi impose di restare seduta. Mi ero anche presa
una storta?
Doveva essere stato quando avevo urtato contro
quella persona. Ma chi era? Era stata sicuramente lei ad accendere di nuovo le
luci. Ma adesso dov’era?
Udii uno scalpiccio qualche metro più indietro, alle
mie spalle. Qualcuno stava correndo verso di me.
- Ah, eccoti! -
Ignorando il dolore, costrinsi tutto il mio corpo a
girarsi verso la voce.
L’avevo riconosciuto.
Come avevo fatto a non capirlo prima?
Gli fissai i piedi che calzavano due grossi anfibi e
lentamente, con il terrore di essermi sbagliata, percorsi il suo profilo magro
fino al viso.
Un’espressione preoccupata su un viso angelico
avvolto in una cascata di capelli neri a meche bionde.
Era lui.
Era Bill Kaulitz.
Un tremito mi scosse tutta e un’onda di ricordi e
rimpianti mi travolse completamente inaspettata.
Un concerto a Oberhaussen.
L’amore sconfinato per qualcuno che non mi avrebbe
mai nemmeno guardata.
Anni passati ad ammirare poster attaccati al muro
della mia camera.
La possibilità di incontrarli quel giorno di giugno.
La delusione di rimanere fuori dall’hotel, sotto la
pioggia, senza averli nemmeno visti da lontano.
Pianti interminabili nella mia stanza e un’estate
buttata nel cesso. A causa loro.
Il giuramento che non li avrei mai più ascoltati.
La partenza per l’America.
Mi ero dimenticata. Tutto. Negli anni trascorsi
all’estero ero riuscita nel mio intento: mi ero del tutto scordata dei Tokio
Hotel. Per me non erano mai esistiti. Mi ero ripromessa che se un giorno li
avessi mai visti non li avrei guardati in faccia, come loro avevano fatto con
me.
Ma avevo appena infranto il giuramento, perché
guardavo ad occhi spalancati il ragazzo che mi stava di fronte. Le lacrime
minacciavano di scendere, ma la rabbia era decisamente più forte di ogni altro
sentimento. Che collera insensata.
Ignaro di tutto, Bill mi fissava ancora interdetto.
Ad un tratto un sorriso apparve sul suo volto. Mi
porse una mano.
- Allora non c’è speranza che possa aiutarti ad
alzarti? -
Puntai lo sguardo nel suo, risvegliata dalla sua
voce.
- No. – sussurrai, cercando di reprimere la rabbia.
Aveva rovinato due anni della mia vita.
Pensando che scherzassi, aggiunse: - Oh, allora sono
senza speranza? –
Abbassai lo sguardo a terra, tentando di trattenermi
ancora una volta. Ma, come un congegno ad orologeria, il mio furore scoppiò e
non potei far niente.
- Tu! – gridai.
Le lacrime cominciarono a correre sulle mie guance.
Questa volta Bill si spaventò davvero.
- Ma cosa…? -
- Tu! Tu mi hai rovinato la vita! –
- Io…no…- balbettò confuso.
Impotente, senza avere la forza di alzarmi da terra,
svuotata da quel semplice urlo, rimasi piegata contro il pavimento. Con i
gomiti incollati a terra, osservai le lacrime di cinque anni cadere e confondersi
con la polvere grigia.
Cosa avevo creduto di fare? Avevo pensato di poter
negare tutto a me stessa?
Che stupida ero stata.
Stupida ad innamorarmi di lui, stupida a credere di
dimenticarlo.
Stremata e scossa dai singhiozzi mi distesi ed il
contatto del pavimento fresco contro il mio viso bollente mi portò un senso di
benessere enorme. Smisi di piangere e chiusi gli occhi.
Che stupida.
Osservo il poster appeso sopra la testa del letto in
cui dormo.
Bill Kaulitz. Bill Kaulitz. Bill Kaulitz.
Leggo e rileggo il nome più volte. Come suona bene.
E’ un nome così bello!
Fisso per l’ennesima volta il volto ritratto
nell’attimo in cui canta ad Oberhaussen.
Quell’espressione così decisa… Dev’essere un ragazzo
perfetto.
Mi avvicino al muro e appoggio la testa sulla sua
potenziale spalla, poi mi ritraggo un po’ e, con lentezza esasperante, appoggio
le labbra sulle sue di carta, sognando di poterlo fare un giorno.
Mio padre entra in camera e mi guarda un momento.
- Ailka… Sei proprio senza speranza… -
No Hope.
Senza Speranza.
Note finali:
Spero vivamente che almeno un po’ vi sia piaciuta!
Ok, l’inizio non è bellissimo, scusate, ma vi
assicuro che più va avanti, più migliora! XD
Spero nei vostri commenti… Aggiornerò presto!
Alla prossima…
Aki