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Autore: A li    19/10/2008    3 recensioni
Anno 2013.
Una vita distrutta. Un'adolescenza rubata.
Un'ultima possibilità di riscatto.
- Bill… - sussurrai.
Lui si voltò, ancora una volta con quello sguardo desolato e stanco, ancora una volta trapassandomi il cuore.
- Cosa volevi davvero dalla tua vita? -
Genere: Triste, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*No Happy Ending*

NdA: Grazie a te che hai aperto questa pagina! XD

Solo alcune piccole cose prima di cominciare.

Questa storia non vuole essere una storia d’amore, perciò, anche se questo capitolo potrà indurvi a pensarlo, state tranquilli che non sarà così.

L’idea è abbastanza vecchia e i primi due capitoli li ho scritti cinque mesi fa, perciò se notate un cambio di stile (e sarebbe come a dire che sono migliorata XD) fatemelo notare!

La storia si comporrà di quattro capitoli, tutti già completi, perciò non c’è rischio che rimanga incompleta.

Beh, che direr ancora… Buona lettura! E lasciate un commento, per favore! XD

 

 

*No Happy Ending*

 

 

No Hope, No Love, No Glory.

No Happy Ending.

 

Happy Ending – Mika

 

 

Anno 2013

1. No Hope (senza speranza)

 

- Mmm… Questo no. -

- Perché? E’ carino… - azzardai.

- No, non fa per me. - ribatté lei decisa.

Sospirai rumorosamente per attirare la sua attenzione, ma non sembrò capirlo. Forse attribuiva la mia stanchezza al viaggio che avevo appena concluso, in America. In realtà ero stufa di starle dietro, mentre lei cercava l’abito adatto ad un’uscita col suo ragazzo, un’uscita come tante altre, che io non trovavo così degna di attenzione.

Era un po’, in effetti, che non passavo del tempo con mia sorella: mi ero dimenticata di come fosse fissata sull’abbigliamento. Ma del resto a me piaceva così.

La guardai di sottecchi mentre, con espressione corrucciata, squadrava una canottierina e una maglietta a maniche corte come se fosse dilaniata dall’indecisione. Sorrisi.

- Allora, quale ti piace di più? -

Lei si voltò di scatto, alzando un sopracciglio, stupita da tanta curiosità.

- Io… - rispose, tornando ai vestiti – non saprei, veramente. -

Alzai gli occhi al cielo per un attimo, ma lei non mi vide.

- Provatele, no? – feci, scettica.

Allargò di scatto occhi e bocca, come colpita da un’illuminazione.

- Hai ragione! – esclamò. E corse nel camerino più vicino, sparendo dietro la tenda rossa, che volteggiò un attimo per poi fermarsi.

Ah, la mia Volle.

Finalmente libera mi guardai intorno.

Prima ero stata letteralmente trascinata nel reparto ‘eleganza’ da mia sorella a tutta velocità e non avevo avuto il tempo materiale di capire dove mi trovassi. In teoria doveva essere un negozio abbastanza lussuoso: non avevo mai visto tanti commessi, né tanti capi d’abbigliamento, per non parlare dei camerini: erano una specie di baldacchino con legno dorato intagliato e una tenda rosso acceso.

Non sapevo perché, ma quel locale mi metteva una certa ansia. Poteva spuntare una commessa da un qualunque angolo e attaccarti. E allora dovevi per forza comprare.

Non ci tenevo a fare quella fine.

Figurati: parli del diavolo e spuntano le corna.

Una commessa con il nome ‘Leda’ stampato sulla maglietta voltò l’angolo.

Presa da un insensato panico arretrai velocemente e rischiai di travolgere un ragazzo. Quello mi lanciò un’occhiata furtiva, poi se ne andò per la sua strada, senza nemmeno aspettarsi uno ‘scusa’.

Mi voltai velocemente e cercai di orientarmi, ma sembrava che in pochi secondi avessi fatto chilometri, perché non riconoscevo più i camerini in cui avevo lasciato mia sorella.

‘Beh, pazienza’ pensai.

Osservai gli abiti che mi circondavano: probabilmente ero nel reparto ‘skin’, o come chiamavo io la roba attillata. Qualche anno prima era quello il nome ufficiale, ma adesso sembrava che il nome fosse ‘kaun style’ o qualcosa del genere.

Erano passati anni dai miei mitici diciotto. Bei tempi.

Purtroppo dopo aver raggiunto la maturità mi ero trasferita in America ed ero tornata pochi giorni prima.

Mi accorsi di come tutto suonasse tragicamente familiare. Mi era davvero mancata la mia Germania.

- Ich heiβe Laika -

Voltai la testa. Una bambina faceva le prove davanti allo specchio, fissando la propria immagine, compiaciuta.

Sì, anche il tedesco mi era mancato. Tutto quell’inglese! Non ne potevo davvero più.

L’America non era così male e se abitavi in un altro stato quello era un buon posto per studiare, ma non potevo negare a me stessa che in realtà avrei preferito studiare in patria.

Ma avevo scelto di fare la traduttrice; in particolare dall’inglese. E avevo dovuto per forza trasferirmi per un po’. Comunque adesso i risultati erano davvero stupefacenti e, pur non appartenendo a nessuna associazione, avevo già ricevuto il mio primo lavoro in merito all’impegno scolastico.

Insomma, ero stata raccomandata dai miei professori.

E ora avevo ventitre anni. Percepivo già la giovinezza andarsene dalla mia anima: mi sentivo consumata dentro, come se avessi già fatto tutto quello che ci si potesse aspettare dalla vita.

- Ailka! -

Quella voce che mi chiamava mi fece riscuotere.

Scossi la testa per allontanare i cattivi pensieri, ma non c’era nessuno accanto a me.

Me lo dovevo essere immaginato. Eppure quella voce… mi sembrava di averla già sentita.

Ad un tratto le luci si spensero e il negozio fu avvolto nell’oscurità.

Mi ci volle un momento per registrare il fatto, poi capii. Miseria, ero rimasta talmente assorta nelle mie riflessioni da non accorgermi che il locale stava chiudendo. Probabilmente ormai erano già andati tutti via, ma se avevo fortuna potevo avere ancora qualche possibilità di uscire.

Cominciai a correre alla cieca, fidandomi del mio istinto, quando urtai contro qualcosa di indefinito che veniva dalla direzione opposta. Caddi a terra.

- Scheiße! – esclamammo insieme io e la cosa che mi aveva travolta. Allora era umana.

- Io… - cercai di dire.

Ma la figura mi interruppe bruscamente. – No, aspetta. –

Sentii che si alzava e tornava da dove era venuto.

Aspettai imbambolata per alcuni minuti, senza motivo. Non sapevo perché, ma quella voce mi era tremendamente familiare e qualcosa dentro di me mi implorava di star ferma e attendere.

E infatti qualche attimo dopo la luce sopra la mia testa si accese nuovamente, mostrandomi che ero seduta di fronte al camerino in cui avevo lasciato Volle. Ma, come immaginavo, lei non c’era. Magari aveva pensato che fossi già tornata a casa e se ne era andata. Ma in che pasticcio mi ero cacciata?

Tentai di mettermi faticosamente in piedi, ma un dolore tagliente alla caviglia mi impose di restare seduta. Mi ero anche presa una storta?

Doveva essere stato quando avevo urtato contro quella persona. Ma chi era? Era stata sicuramente lei ad accendere di nuovo le luci. Ma adesso dov’era?

Udii uno scalpiccio qualche metro più indietro, alle mie spalle. Qualcuno stava correndo verso di me.

- Ah, eccoti! -

Ignorando il dolore, costrinsi tutto il mio corpo a girarsi verso la voce.

L’avevo riconosciuto.

Come avevo fatto a non capirlo prima?

Gli fissai i piedi che calzavano due grossi anfibi e lentamente, con il terrore di essermi sbagliata, percorsi il suo profilo magro fino al viso.

Un’espressione preoccupata su un viso angelico avvolto in una cascata di capelli neri a meche bionde.

Era lui.

Era Bill Kaulitz.

Un tremito mi scosse tutta e un’onda di ricordi e rimpianti mi travolse completamente inaspettata.

Un concerto a Oberhaussen.

L’amore sconfinato per qualcuno che non mi avrebbe mai nemmeno guardata.

Anni passati ad ammirare poster attaccati al muro della mia camera.

La possibilità di incontrarli quel giorno di giugno.

La delusione di rimanere fuori dall’hotel, sotto la pioggia, senza averli nemmeno visti da lontano.

Pianti interminabili nella mia stanza e un’estate buttata nel cesso. A causa loro.

Il giuramento che non li avrei mai più ascoltati.

La partenza per l’America.

Mi ero dimenticata. Tutto. Negli anni trascorsi all’estero ero riuscita nel mio intento: mi ero del tutto scordata dei Tokio Hotel. Per me non erano mai esistiti. Mi ero ripromessa che se un giorno li avessi mai visti non li avrei guardati in faccia, come loro avevano fatto con me.

Ma avevo appena infranto il giuramento, perché guardavo ad occhi spalancati il ragazzo che mi stava di fronte. Le lacrime minacciavano di scendere, ma la rabbia era decisamente più forte di ogni altro sentimento. Che collera insensata.

Ignaro di tutto, Bill mi fissava ancora interdetto.

Ad un tratto un sorriso apparve sul suo volto. Mi porse una mano.

- Allora non c’è speranza che possa aiutarti ad alzarti? -

Puntai lo sguardo nel suo, risvegliata dalla sua voce.

- No. – sussurrai, cercando di reprimere la rabbia. Aveva rovinato due anni della mia vita.

Pensando che scherzassi, aggiunse: - Oh, allora sono senza speranza? –

Abbassai lo sguardo a terra, tentando di trattenermi ancora una volta. Ma, come un congegno ad orologeria, il mio furore scoppiò e non potei far niente.

- Tu! – gridai.

Le lacrime cominciarono a correre sulle mie guance.

Questa volta Bill si spaventò davvero.

- Ma cosa…? -

- Tu! Tu mi hai rovinato la vita! – 

- Io…no…- balbettò confuso.

Impotente, senza avere la forza di alzarmi da terra, svuotata da quel semplice urlo, rimasi piegata contro il pavimento. Con i gomiti incollati a terra, osservai le lacrime di cinque anni cadere e confondersi con la polvere grigia.

Cosa avevo creduto di fare? Avevo pensato di poter negare tutto a me stessa?

Che stupida ero stata.

Stupida ad innamorarmi di lui, stupida a credere di dimenticarlo.

Stremata e scossa dai singhiozzi mi distesi ed il contatto del pavimento fresco contro il mio viso bollente mi portò un senso di benessere enorme. Smisi di piangere e chiusi gli occhi.

Che stupida.

 

Osservo il poster appeso sopra la testa del letto in cui dormo.

Bill Kaulitz. Bill Kaulitz. Bill Kaulitz.

Leggo e rileggo il nome più volte. Come suona bene. E’ un nome così bello!

Fisso per l’ennesima volta il volto ritratto nell’attimo in cui canta ad Oberhaussen.

Quell’espressione così decisa… Dev’essere un ragazzo perfetto.

Mi avvicino al muro e appoggio la testa sulla sua potenziale spalla, poi mi ritraggo un po’ e, con lentezza esasperante, appoggio le labbra sulle sue di carta, sognando di poterlo fare un giorno.

Mio padre entra in camera e mi guarda un momento.

- Ailka… Sei proprio senza speranza… -

 

No Hope.

Senza Speranza.

 

 

Note finali:

Spero vivamente che almeno un po’ vi sia piaciuta!

Ok, l’inizio non è bellissimo, scusate, ma vi assicuro che più va avanti, più migliora! XD

Spero nei vostri commenti… Aggiornerò presto!

Alla prossima…

 

Aki

 

   
 
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