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Autore: RLandH    09/11/2014    2 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allora, chiedo scusa per il ritardo, ma trasferimenti ed università è stata dura. Vorrei anche ringraziare chi legge, preferisce, segue e ricorda; ovviamente anche chi recensisce, (Grazie Chemical Lady :D).
Ci tengo a precisare che non essendo dal mio computer, non avendo il nvu e compagnia bella, ho dovuto scrivere l’HTML a mano – e non oso immaginare il disastro combinato – quindi ho lasciato perdere le mie solite note finali.
Questo capitolo è di passaggio, davvero, vi ho praticamente fatto aspettare mesi per un non nulla, cercherò di rimediare con il prossimo, che spero possa arrivare presto
Riguardo al Tempo in cui si svolgono i fatti: Vanessa (il pomeriggio) – Il Visionario, Zita e Filippa(La notte) – Lele (il mattino dopo) – Zoroastro, Leonardo e la Muta [In quest’ordine](Il pomeriggio).















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Atto VI: Caino si allontanò dal Signore




<H3 align="center"><FONT size=4> <FONT face= “Cambria”> Atto VI: <i> Caino si allontanò dal Signore </i></FONT></FONT></H3>





(xx-01-1479)

Indossava un mantello nero, striato da nastri di fuoco, arrivava alle sue caviglie ed ondeggiava ad ogni passo, strofinando l’orlo agli stivali di cuoio e scoprendo una volta si, una volta no, l’abbigliamento scuro. Ma il suo viso era scoperto alla luce della luna, non timoroso d’esser notato, un uomo che camminava al buio di una cittadella. La stella di David d’oro lucente scintillava proprio sotto la fibbia di ferro, con la forgiatura d’una testa di volpe. Forse qualcuno avrebbe potuto pensare fosse imprudente, girare con una spilla d’oro, da solo, di notte, ma lui non temeva. Conosceva il suo avvenire. Si muoveva seguendo un determinato percorso, che conosceva già, anche se mai l’aveva visto. E come aveva a lungo profetizzato era comparso l’uomo. Indossava un mantello di lana verde, così scuro che alla poca luce d’un occhio disattento sarebbe risultato nero, ma lui vedeva bene. Gli dava le spalle, ma anche se l’avesse guardato inviso avrebbe potuto scorgere i tratti del viso, sarebbe stato come guardare in una voragine nera, l’uomo nascondeva il capo sotto un cappuccio ed il volto dietro un velo scuro. Ma lui conosceva i suoi lineamenti, delicati, androgini, percorsi da linee pallidi, d’una fanciullezza non lineare, con occhi verdi come olive e capelli rasati. Un viso comunque non celebre d’esser notato.

Lo spettro svoltò proprio dove, da lì a poco, avrebbe svoltato a lui. E così fu. Si ritrovarono a camminare insieme per i sanpietrini d’una via angustia assieme; percepiva sulla sua gamba la spada bastarda – che non brandiva mai e che sua moglie aveva insistito prendesse – premere sulla gamba e pesare sul fianco. Aumentò il passo e con ampie falacate superò lo spettro verde, lanciandoli nulla più che uno sguardo di sfuggita, questi volto il capo verso di lui, nascosto dietro un sottile velo di raso nero non scorse nulla con i suoi occhi mortali, ma intravide livida paura con i suoi altri occhi. Sorrise accomodante e continuò per la sua strada. Ad un nemico non si dovevano mai concedere le spalle, ma ad un uomo morto si poteva anche regalare un sorriso.

Camminò per altro tempo, poi si posò allo stipite d’una bottega chiusa e guardò lo spettro, “Salve” disse gentile, chinandosi un attimo in una riverenza, il saluto colse lo sconosciuto impreparato, “Sono figlio del cielo stellato” aggiunse, “E tu?” aveva domandato retorico, “Non mi dici di esser le corna dell’increato?” aveva domandato con voce tagliante, estraendo dal fodero la sua lama, piatta e lucente, rifulgeva alla luce della luna. L’uomo non ebbe la cortesia di presentarsi, estraendo a sua volta una lama, che non scintillava affatto, ma non per questo sarebbe stata meno affilata, era di ferro come la sua, ma intrisa d’inchiostro scuro. “Che maleducazione” aveva commentato, rimirando la sua lama, soppesandola tenendo un sorriso sornione sul viso, “Vorrei dire sia stato un piacere, ma non è così” aveva detto, comunque tenendo un tono gentile e rispettoso, come suo padre gli aveva insegnato. “Addio” aveva detto tremendamente sardonico. Poi le cose erano andate esattamente come aveva suonato.

Il Nemico dell’Uomo s’era fatto pronto a colpirlo, ma una lama di ferro lucide s’era fatta strada nelle sue carni, fuoriuscendo dalla sua gola e stracciando il raso. Lo spettro s’era afflosciato, perdendo quell’aria mistica e cadendo come tutti gli uomini facevano, sgraziatamente e ripidamente. Dove era stato lo spettro, c’era un uomo dal fisico slanciato, indossava anche lui un mantello, pregiato, con un collo d’ermellino, con ghirigori e ben curato, aveva guanti borchiati in cui stringeva un elsa finemente decorata, tremendamente scomoda ma d’effetto, non era un Figlio di Mitra, poiché nascondeva il suo viso dietro una maschera da teatro romano ed il capo sotto un cappuccio, tradendo però dal suo abbigliamento la sua casta, ma non era neanche un Nemico degli Uomini, non solo perché lo aveva aiutato, ma per il suo atteggiamento ed il colore argenteo del vestito. Al suo fianco spiccava una figurina, quella era la figlia di Mitra. “Neanche mi chiedo come tu faccia a saperlo” aveva detto lei, con voce sottile, come il sibilo d’una freccia, “La domanda come facevi tu” rise lui con voce divertita. Lei aveva mosso il capo, ondeggiando i capelli lunghi e scuri come un mantello, d’un castano anonimo, aveva una scriminatura nel centro della fronte ed ai lati del viso, due fila di treccioline partivano dalle tempie, riunendosi sulla nuca. Aveva un viso pallido ed ossuto, piuttosto giovane, troppo per poter mettere naso in quelle facende, le labra rosate erano state truccate di nero in una maniera singolare, in modo che richiamassero i punti del cucito e fili spessi le bloccassero.

L’uomo con la maschera s’era voltato verso di lei, la superava in altezza di almeno due palmi, “Presumo da questo punto, tu voglia andare da sola” aveva detto con voce greve, “Non sarò sola” aveva risposto lei con voce sicura, ammiccando con il capo a lui. Lui avvertì il compagno non sentirsi sicuro affatto, la ragazza sorrise in maniera rassicurante, prima di mettersi sulle punte delle sue babbucce di cervo e baciare le labbra sigillate della maschera. Poi s’era diretta verso di lui, ignorando nettamente l’accompagnatore. “Allora dimmi, amica mia, come lo sapevi?” indagò lui malizioso, allungandole il braccio, “Non eri tu ciò che conosceva ogni risposta?” aveva risposto lei, con voce calma priva di cattiveria, prima di voltarsi ancora verso l’accompagnatore che s’era lasciato alle spalle, gli mandò un bacio con una mano guantata, “Domani mattina, amore mio, quando vi sveglierete, sarò nel letto accanto a voi” lo rassicurò, sorridendo in maniera posata e gentile. La gentilezza delle persone, lui lo sapeva bene, era una raffinata maschera ben cucita, che raramente scopriva l’animo, ma quella ragazza era davvero fine e di buon cuore, come poche persone fossero mai esistite e lui trovava così bizzarro che fosse venuta al mondo dai lombi d’un uomo grezzo, privo di morale, gentilezza e finezza.

“T’ama molto, amica mia” aveva commentato lui, “C’è voluto tempo, ma si mi ama” aveva confidato con voce minuta, quasi imbarazzata da quella confessione, che forse lei considerava intima. Proseguirono lungo la strada assieme, come compagni, alla vista degli estranei, sembravano forse due giovani e libertini amanti, che osannavano il loro legame, passeggiando al buio stretti in un braccetto. La madonna aveva occhi nocciola, grandi, nascosti sotto ciglia nere e sopra gote rosate, velate d’imbarazzo. Erano figli di Mitra entrambi, avevano ereditato il ruolo da chi era venuto prima di loro, null’altro che burattini di giostrai da tempo passati, sebbene nel loro culto nulla poteva essere definita passata. Suo padre era La Volpa e lui l’omaggiava con il suo fermaglio con la testa di tale animale, che suo padre indossava ad ogni consiglio, lei era la nipote de La Persona, una maschera del teatro romano, che la donna aveva fatto indossare al marito. Loro invece non erano che il Visionario e la Muta, per questo lei aveva dipinto le sue labbra cucite.

“Tuo marito appoggia queste tue uscite?” aveva indagato lui, le aveva sollevato un sopraciglio spesso e scuro, quasi confusa da quella domanda, poi aveva sorriso, “Mio marito appoggia me. Lui ama e sostiene la famiglia ed io ne sono parte” aveva spiegato, con un sorriso nostalgico sul viso. “Se sapesse dei Figli di Mitra, però no, non mi appoggerebbe” aveva spiegato con voce distaccata. “Ci consegnerebbe tutti a sua santità” aveva commentato con voce preoccupata, “E quell’uomo è un diavolo” aveva confidato, con voce sottile, quasi spaventato. Il Visionario rise con voce allegra, “Conosco sua eccellenza, da molto prima di te” aveva confidato, “Ma non così bene” aveva replicato lei piccata, “Allora certe cose sfuggono anche alla Muta” aveva risposto lui profondamente sardonico, “Io conosco sua santità, tu conosci un abile illusionista, chiedi al Turco questa notte” aveva risposto lui, accompagnando le sue parole ad un sorriso cattivo, che aveva indispettito la ragazza. “In realtà io li conosco entrambi” aveva risposto lui con un sorriso sardonico sul viso, lei lo aveva seccato, “È questa tua conoscenza ha portato il Conte Riario a rivolgersi a te?” aveva domandato lei impudente, non perdendo però sul viso il candore, lui sollevò gli angoli delle labbra in un ghigno divertito, “Tranquilla, non ti angustiare, ciò che Girolamo cercava da me, era una rinfrescata alla sua memoria ed una lavata alla sua coscienza” aveva raccontato, chiedendosi se dovesse o meno raccontare. “Il conte è perseguitato da una Colpa, ma ne ha così tante sulle spalle da non sapere più quale” aveva spiegato, “Così gli ho detto di andare dal suo nemico” aveva aggiunto, “Troverà lì, il tormentato conte la sua espiazione?” aveva domandato incuriosità la muta, sfiorandosi una ciocca di capelli neri, “No. Ma potrebbe condurlo ad essa” aveva risposto lui, “Tu, che tutto sai, hai dubbi” bisbigliò lei confusa, perché solitamente il Visionario non sbagliava mai. “Nessuno può sapere tutto, per lo più quando si tratta di uomini straordinari” aveva risposto lui tranquillo, ma sapeva più di quanto aveva detto, Leonardo era la domanda e la risposta, aveva detto a Riario, la risposta al male di cui era inconsapevole e la domanda che tutti aspettavano qualcuno ponesse, la domanda che solo una persona aveva posto, tale Caterina e che lui avrebbe voluto ascoltare e mai aveva potuto.

Caterina era andata da suo padre, tornata dal nuovo mondo ed aveva chiesto un nome, perché lei credeva nella legge del contrappasso, che tutto fosse un equilibrio, se la Notte gli aveva traditi, il Giorno sapeva qualcuno aveva tradito i loro nemici. Suo padre aveva chiesto a lui di produrgli quel nome e quando l’avevano saputo, i loro occhi erano luccicati di qualcosa. Come a la Volpe, anche a il Visionario, piaceva dire che il Giorno era venuta ed aveva chiesto il nome ed un libro ed in cambio aveva costruito una scrivania , ma era una menzogna, lei aveva chiesto un nome e suo padre gli aveva dato in virtù d’una lunga amicizia, la scrivania Caterina l’aveva già costruita tempo addietro in promemoria d’un futuro debito ed il libro era stato il saldo, ma il Giorno non lo voleva, non all’inizio. Era un libro vecchio, che suo padre aveva comprato da una vecchia strega prima che la curia la bruciasse al rogo. Il libro, di cui diceva non ricordare il nome – menzogna, non l’aveva mai saputo – era stata la risposta alla domanda che Leonardo avrebbe posto. Il Visionario si chiedeva perché suo padre avesse mentito al Turco ed il resto della confraternità e perché avesse chiesto a lui di perpetuare quella menzogna e soprattutto l’omissione. E già, pensò, l’omissione, suo padre non aveva mai detto nulla a nessuno ma Caterina era tornata, portando una candela, una luce nell’oscurità aveva detto con un sorriso allegro, poi aveva parlato con lui – non a suo padre! A lui! – “Quando sarà il momento lo saprai” ed era stato così. Quando Riario era venuto a parlare del Libro delle Lamine e della prima chiave, lui aveva saputo che a lui sarebbe toccata la candela. Girolamo e Leonardo erano speculari ed il destino gli avrebbe messi davanti gli stessi bivi, sarebbero morti giovani entrambi? O vecchi? O l’uono avrebbe avuto l’una sorte e l’altro l’altra? E chi avrebbe avuto cosa? Era così frustrante per lui avere tanti dubbi.

“Anche io ho un dubbio, Eliseo” aveva detto lei, chiamandolo per la prima volta con il suo nome, svegliandolo dai suoi tormenti, “Perché il Giorno, dopo il tradimento de la Notte, non si è rivolta al Turco o un altro fratello, recuperato il Libro delle Lamine. Perché è fuggita via portandolo con se?” aveva chiesto d’un fiato, “Perché tradire così tanto la nostra fiducia, anche quella di tuo padre, la Volpe?” aggiunse. Il Visionario alzò le spalle, “Per la legge dell’equilibrio” disse solamente elusivo; perché non si fidava, gli aveva confidato suo padre in punto di morte, non si fidava più di nessuno, neanche di me, aveva aggiunto, ma alla fine Caterina l’aveva detto, quando aveva portato la candela dove era il libro ed aveva confidato a suo padre la sua conoscenza e suo padre se l’era portata nella tomba. Ma neanche quella era la vera verità, era solo la versione che la Volpe aveva preferito condividere con lui, perché in quel momento suo padre non s’era fidato di lui come figlio, ma come fratello e suo padre, alle spalle del Turco, s’era macchiato della colpa dell’omissione, assieme a Caterina ed altri. Forse lui stesso ora, era parte di quel culto di figli ormai privi della fiducia, ormai sconosciuti sotto una volta nera senza stelle. “Giovanna, mi rendo conto di non averti mai fatto le condoglianze per la morte di tuo padre” aveva detto, forse troppo freddo, “Non farmele” aveva detto lei, tradendo cattiveria, “Ucciso da un figlio di Mitra e da un nemico dell’uomo, compagni di battaglie” aveva detto quasi esasperato, “È giustiziato senza processo” aveva detto con amarezza, “Mio padre non era uno di noi e non lo sarebbe mai potuto essere, secondo mio nonno” aveva confidato. Un Ma aveva aleggiato nell’aria, ma era comunque mio padre, avrebbe dovuto dire la Muta, ma non lo disse, poiché era superfluo.

Avevano lasciato la città alle spalle da almeno un’ora di camminata. Si erano avvicinati ad un’ormai cisterna d’acqua romana in disuso. Era scavata nel peperino ed aveva un’altazza pari ad una persona con un’altra sulle spalle, altrettanto larga, che si infilava in un corridoio buio, dalla profondità non chiara. L’ingresso del Mitreo, “Un giorno Leonardo Da Vinci dovrebbe partecipare” aveva commentato Giovanna, sollevando la gonna porpora scura, mostrando ancora le babbucce di cerbiatto, “Vorrei conoscerlo, la mente più brillante da Archimede ad oggi” aveva confidato, “Se non si conta il Giorno, certamente” aveva detto posata, addentrandosi nella discesa di terra, contornato da pareti con intonaco di signo, sparendo poi nel buio pesto e lui la seguì. Giovana si fermò d’improvviso e lui urtò la sua schiena, “Eliseo” bisbigliò, “Si?” rispose lui, “Quale era il nome?” chiese, “Il nome che il giorno volle?” aveva rimarcato, “Di chi avrebbe tradito i Nemici degli Uomini” aveva risposto lui, lei si voltò, era poco più che un contorno pallido nel buio, “Quale era il nome?”, “Demopulos”.




Tutto ciò che Filippa fece dopo esser smontata dalla palafrena fu rinchiudersi nella sua stanzetta negli alloggi della servitù. Profondamente confusa e sconvolta da quel singolo viaggio, lei che aveva emigrato tanto. Si stese per terra, tirando fuori dalla bisaccia il panno con cui aveva stretto la sua croce ed aveva allungato il mano verso il pavimento, sotto il letto, per muovere la mattonella di coccio per poter risistemare le cose apposto, perché tornasse tutto come doveva essere. Si sistemò con la schiena per terra, con gli occhi rivolti al soffitto e strinse la croce, ora resa nuda dal panno, un legno rovinato, con un dipinto d’un cristo ormai sbiadito. Era stata sua madre a tendergliela, con i riccioli scuri nascosti sotto un velo nero del lutto. Sentì le lacrime pizzicargli sugli occhi, stritolando le dita sul legno quasi a spezzarlo. “Abbi misericordia di noi, signore, abbi misericordia di noi; mancando di ogni discolpa, questa istanza a te Sovrano noi peccatori porgiamo: abbi misericordia di noi …” e Filippa si rese conto le parole le furono nulle nella gola, come se non le ricordasse più, nonostante le avesse ripetuto sempre ogni sera da quando era bambina. Si impose di concertarsi, strinse con più forza la croce e ricominciò: “Abbi misericordia di noi … noi siamo le corna dell’increato …” si interruppé, una volta resasi conto delle sue parole, lasciò la croce e con le dita si chiuse la bocca. “No! No!” strillò, “Io sono una serva di Dio” imprecò, sollevandosi dalla posizione accucciata.

S’alzò, lasciando la croce sul letto. Slacciò la manta e si tolse il vestito, rimanendo con nulla in più dell’intimo, prima di indossare abiti più morbidi e puliti. Poi uscì dalla sua stanza, senza una particolare meta. Improvvisamente tutta la stanchezza che s’era accumulata sui muscoli s’era come sciolta, dal terrore. Si sentiva persa, ora che non riusciva a rinchiudersi neanche nelle mani di Dio, le uniche che erano sempre state disposte a sorreggerla. S’era posata con il busto ad una parete di mattoni, una di quelle che negli ultimi cinque anni aveva visto così tante volte, da forse non averla mai notata veramente. Chiuse gli occhi, per prendere un respiro, uno solo, ed invece s’erano frapposti come dipinti vividi ed atroci, sulle sue palpebre, il viso della donna che s’era portata via suo padre, egli stesso nelle ombre, suo fratello illuminato da una candela pallida, Sforza, Machiavelli, Borgia ed il mosaico di Mitra. Si colpì il viso con il palmo, strizzando le palpebre, desiderosa di cancellar via tutto.

S’era quasi strappata i riccioli scuri, quasi martoriata dal desiderio di placare quei lampi nella sua mente, ma poi aveva pensato ad Alessandro, che in quei capelli c’aveva infilato le dita, ancora macchiate della vernice del quadro di Lucrezia, di Lippi, nella tenuta de i De Medici. Quando s’era svegliata dalla sua odissea onirica, aveva trovato Da Vinci ad attenderla, con un sorriso così candido, da aver quasi fatto spezzare il fiato nella gola di Filippa ed averle quasi fatto dimenticare fosse un diavolo sotto mentite spoglie. E poi s’era ricordata che anche lei lo era, suo padre e suo fratello, tutti maledetti. Ed aveva cominciato ad urlare, con così tanta forza da credere che la sua gola si sarebbe spaccata ed a quel punto che erano accorsi tutti quegli sconosciuti.

Filippa era stata zitta solo, quando Leonardo l’aveva stretta con così tanta forza da farle mancare il fiato, l’aveva fatta respirare in una fiasca di pelle di pecora e fatto fare respiri calmi e lunghi. Era tutto un tremore lei e Da Vinci aveva avuto il gusto di non farle domande sul suo sogno, anche se fosse bene a conoscenza di che natura fosse stata.Filippa non aveva aperto bocca, sebbene suo padre le avesse che quell'uomo avrebbe potuto portarla alla sua strada. Poi le cose erano sprofondate ancora di più nel caos, quando tutti quegli sconosciuti, cui solo i visi di Lippi e Botticelli, le avevano dato sollievo, s’erano venuti ad interessare, un ragazzo fin troppo giovane, una bella fanciulla ed uno sconosciuto dai lineamenti famigliari. Filippa s’era sentita così stordita da quello, che aveva quasi vomitato, s’era accorta poi ad uno sguardo più attento, non fosse che l’uomo che aveva visto nel suo sogno. Come Caterina Sforza nel suo viaggio era stata una donna matura, dal crine ferrugine, striato d’un grigio senile ed il viso maturo, in contrasto con la ragazzina che sapeva fingersi squisita alle cene delle matrone romane, con il viso ancor di bimba ed i capelli di fuoco, anche l’uomo era più giovane. Dentro la tenda, Machiavelli era un uomo, dai capelli tirati indietro ed un sorriso da sfinge sul viso, che giocava con la statua d’un drago-serpente, profondamente soddisfatto della sua vittoria, il ragazzo che era stato di fronte a lei, era una versione infantile, con riccioli biondi sciolti, che coprivano un viso ancora timido, di chi era privo della spavalderia che Filippa aveva visto. Niccolò Macchiavelli, che presentandosi aveva detto a lei di chiamarlo Nico, sembrava profondamente infantile, le sue mani erano morbide, come quelle d’un infante, rovinate solo da una cicatrice, non quelle di un uomo che aveva fatto la guerra. Era rimasta in silenzio, se quel Nico era così giovane, Borgia non doveva essere che un marmocchio e a quel pensiero brividi le percossero la schiena come artigliate, pensando all’ordine che suo fratello le aveva affidato.

Spalancò gli occhi e si rese conto tra le dita, di tenere un ciuffo di riccioli nere, gli aveva strappato, quegli stessi che Sandro Botticelli aveva detto di trovare belli. Filippa aveva detto di voler tornare dalla sua signora, pavida come una colomba, tutta tremante e spaventata, timorosa delle urla che la signora le avrebbe urlato, sentendo sulla schiena pulsanti le cicatrici delle frustrate che avevano modellato il suo carattere e Sandro era stato la sua guardia. L’aveva accompagnata fino al Cane Abbaiante, erano stati in silenzio. Botticelli era ancora lercio di vernice e lei teneva ancora fra le dita la cesta di vimini con i viveri, come se quelle ore fossero state scandite solo dal buio e non dal sogno. A Filippa a ripensarci era venuto da ridere, alla locanda, Sandro s’era dato al bisticcio con quello che sembrava un sodomita che vendeva il suo corpo. Lei era ancora troppo persa, per aver badato a loro, non aveva ascoltato una sola parola di quello che avevano detto, aveva osservato le labbra muoversi ed i due gesticolare, come ogni volta, Botticelli aveva mostrato un atteggiamento di mortale insofferente. L’altro l’aveva, alla fine, mandato malamente al diavolo, prima di andarsene su tutte le furie. “Chi era?” aveva chiesto Filippa, anche se la cosa non le era interessata affatto, l'altro aveva mosso la mano, quasi avesse scansato una mosca e non aveva risposto.

Sandro l’aveva scortata fino alle scale per il piano superiore, nel mezzo della bolgia della cacofonia degli ubriache e d’una febbre allegra. Loro che sembravano quasi acconciati a funerale, con visi granitici, privi di gioia. Poi Botticelli s’era fatto vicino, come nessuno mai nella sua vita, le era parso. Allora aveva allungato quelle dita affusolate, macchiate di vernice rossastra e le aveva intrecciate tra i suoi capelli scuri, sul viso s’era increspato un sorriso, piccolo e minuto, che aveva scaldato il cuore di Filippa fino ad imporporarle le gote, s’era sentita così strana, aveva dimenticato per un attimo tutto l’incubo di quella giornata. S’era trovata stordita, differentemente da come le era capitato nel sogno, era stato qualcosa di più piacevole. “I tuoi capelli sono belli” aveva detto con una voce distante ed a Fillippa era parso non guardasse lei, i suoi occhi, i suoi seni, le sue labbra o il suo corpo, come era stato per tutti gli altri, Botticelli guardava i suoi riccioli e sembrava trovare la sua soddisfazione in quelli. Ed ora quei capelli che Sandro aveva trovato belli, erano prigionieri tra le sue dita, volutamente strappati dalla sua testa; doveva calmarsi.

“Dovresti dormire” aveva sentito la gracchiante voce di Betta, aveva sollevato gli occhi, incrociando l’anziana signora, che da cinque anni a quella parte, aveva sempre da imbeccarla, eppure sorrise a quel viso così austero, ma famigliare. Lasciò scivolare i riccioli sul pavimento. “Non ho molto sonno” concesse, avvicinandosi alla donna, Betta indossava una vestaglia morbida, i capelli canuti stretti nel fermaglio dalla forma di farfalla d’orata, troppo alto rispetto la sua casta. Le dita nodose della vecchia, finirono per accarezzarle le guance, “Vai a dormire” le disse, senza usare un tono dolce, ma lo stesso burbero, che adoperava nell’urlare contro i rimproveri ed i comandi. Filippa mise la sua mano giovane, sopra i nodi e la pelle fragile dell'altra, chiedendosi da quando le fosse venuto a così tanta disperazione il contato umano. Le parve di sentire da qualche parte, lontano, tra i suoi ricordi, l'odore della salsedine, le risate di bambini e le onde infrante sulla ghiaia.




Zita guardava Dracone e lui ricambiava. Non si guardavano cagneschi, come nemici, si studiavano con una punta di curiosità, privi di quei lussureggianti sguardi dei signori, che per tutta la vita, entrambi dovevano aver sentiti puntellare sulle lame. Zita era abbissina e fino a chè non era arrivato il suo signore, era stata per tutti nulla più d'una donna negra, una pantera, un animale esotico, qualcosa di bello da mirare, da possedere, ma non una persona e quel ragazzo lì, Zita aveva l'impressione aveva provato su quelle ossa spesse e pelle bronzata lo stesso. Dracone sorrideva in maniera innocente, poi, ma con gli occhi nocciola si guardava circospetto. Zita aveva passato un pomeriggio intero nel cercare di ricucirlo e tamponargli tutte le ferite che le guardie del Cardinale Riario gli avevano lasciato, non aveva fatto poi molto, ma non sarebbe arrivato nessun cerusico per lui.

"Tu sei il miele?" aveva domandato Dracone, sfacciato, mantenendo sempre quel sorriso su un viso tumefatto, coperto di macchie nere e violacee e sangue rappreso. Zita abbassò lo sguardo sulle mani, intrecciate nel ventre, "Prima sono la morte, ora il miele?" domandò, senza ironia, tenendo un sorriso timido in viso, rispettoso; Dracone rise. Raffaele Riario, s'era presto resa conto Zita, era davvero diverso dal Conte; lei non aveva mai realmente compreso che rapporto intercoresse tra il suo padrone ed il dolore. C'erano stati momenti, in cui lei aveva seriamente pensato che il suo signore anelasse al bisogno di fare del male, di provocare dolore e paura, ed altre volte aveva avuto l'impressione che il provare quei sentimenti lo turbasse e ripudiasse. Il cardinale era un giovane, più di quanto fosse lei, frizzante e non così coinvolto dalle cose rispetto la sua intera famiglia, Zita aveva visto per anni, Girolamo, Giuliano e Giovanni cercare di superarsi tra loro per lustrarsi agli occhi del Santo Padre, Raffaele era sempre stato bravo a non sforzarsi molto, aveva sempre pensato fosse un giovane tranquillo, fino a quel momento. Poi aveva cambiato idea.

Il cardinal Riario Sansoni aveva osservato ogni frustata, pugno, lama, che aveva percorso il corpo di Dracone con un sorriso, profondamente soddisfatto, eccitato da quella visione ed il suo viso per tutto il tempo era stato gemello a quella soddisfazione che animava Girolamo, che a volte spaventava anche lei. Erano uguali, pensò, Raffaele non era che una versione più giovane, che al posto di caldi occhi, ne aveva di neri, e contemporaneamente erano distanti. Ma non importava poi molto, ad ogni colpo, il sorriso di Dracone s'era fatto più ampio. Se il cardinale provava piacere nell'infliggere dolore, l'altro sembrava goderne nel riceverlo.
Ed alla fine, dalle sua labbra, non erano venuti che gemiti, nessun urlo, nessuna supplica, nessuna informazione. Dracone non aveva neanche chiesto loro perchè l'avessero preso, perchè lo picchiassero, era rimasto in silenzio, continuando a sorridere, un sorriso sornione di chi sapeva ogni cosa.

"Qual'è il tuo nome?" aveva domandato l'apprendista, sollevando appena gli occhi castani, uno sguardo seminascosto da ciuffi neri come l'inchiostro, "Zita" aveva risposto lei, avvicinandosi di qualche passo, Dracone annuì, "Un bel nome" aveva commentato sardonico, come se non lo trovasse davvero così attraente, "Nella mia lingua vuol dire Fanciulla" le confidò saccente, "A Corcira però ci appellavamo quelle donne che non voleva nessuno" aveva aggiunto, cercando vanamente di ferirla, ma Zita aveva sollevato le spalle, "Questo ti si adice molto, più del significato persiano: vergine" aveva rincarato, sul viso s'era perso quel sorriso e svettava trionfale un ghigno, che s'era posi assopito "In magiaro vuol dire felicità però" aveva terminato abbassando il tono, come a volerle dire qualcosa che non conosceva. Zita aveva inclinato il capo, i ricci scuri erano finiti tutti su una spalla ed i suoi occhi s'erano fatti confusi e a quel sentimento Dracone s'era fatto un'altra risata, "Non è il tuo vero nome, giusto?" aveva domandato, sorridendo appena, prima di muovere il viso come a scrollarsi qualcosa di dosso, "Come Dracone non è il mio nome. Mi chiamo Draco, ma questi italiani piace tantissimo chiamare le cose come vogliono loro" aveva aggiunto stizzito, scoprendo i denti come una bestia ferita. Zita la leggeva che quella ferita non era nel corpo, non era nessuna di quelle che Raffaele s'era premurato di procurargli, era una ferita più intima e profonda. Zita chiuse gli occhi, sentì in qualche modo, la sua anima sanguinare assieme a quella di Draco.

Non aveva comunque risposto, s'era limitata a schiudere gli occhi e guardarlo, privandosi di quel genuino interesse, vestendosi di un sorriso cesellato, quanto fragile, "Sei molto istruito per essere il garzone d'un macellaio" rispose pacata. Il giovane la degnò d'uno sguardo, piccolo e vagamente stizzito, s'era poi morso un labbro, già di persè rovinato, quasi consapevole d'essersi tradito in qualche modo. Zita non sapeva ancora in che modo, ma conosceva abbastanza un uomo da sapere d'averlo beffato. "No" disse solamente senza smettere di sorridere, "Non sono il miele" disse, prima di congedarsi, con un inchino forse troppo beffardo.
S'era quasi chiusa la porta alle spalle, quando lo sentì, Dracone aveva sibilato, quasi la sua voce fosse stata un sussurro, di cui Zita non poteva esser certa d'averla sentita certamente, le parole le scavarono le orecchie, fin dentro il cranio. La porta era rimasta semichiusa, con la mano posata sul legno vecchio. Il garzone aveva parlato a lei nella sua lingua. Zita aveva sgranato gli occhi, immensamente sconvolta da ciò che aveva udito, non quando per la frastornate famigliarità di quel linguaggio che a volte aveva pensato di aver dimenticato, quanto per ciò che le era stato detto. Chiuse la porta sonoramente, dando a Dracone l'impressione non l'avesse udito.


Raffaele vagabondava come uno spirito inquieto per quella stessa stanza che era stata la sua quand'era infante, la toga scarlatta scendeva sul corpo secco, ondeggiava ad ogni passo come se fosse stato fuoco ardente, o sangue. Per quanto Zita avesse trovato in quella fede una certezza, un appiglio, non era in grado di trovare altrettante fiducia negli uomini che ne erano la voce. Raffaele la guardò appena, ancora profondamente amareggiato, sul viso aveva scavata l'inadeguatezza e l'amarezza d'un fallimento, in quel momento, era come se ai suoi occhi vi fosse un Girolamo più infantile; lottò parecchio per non correre da lui ed abbracciarlo nel tentativo di dargli conforto. "Ho parlato con il prigioniero" aveva sputato fuori, cercando di scrollarsi dalle spalle l'inadeguatezza delle parole che Draco le aveva rivolto, quello che le aveva detto, l'avrebbe probabilmente perseguitata per le prossime settimane, non permettendole di chiudere gli occhi in pace una sola notte.
Il cardinale aveva arrestato la sua avanzata, voltandosi verso di lei, solo guardandolo negli occhi, Zita scorgeva l'evidente differenza che passava tra il giovane che le stava di fronte e l'uomo che amava, lo sguardo, per quanto Girolamo e Raffaele potessero essere diversi di caratteri, erano d'aspetto assai simili, ma gli occhi si che differivano. Il capitano delle guardie romane aveva occhi chiari, disperati, persi, bisognosi d'una qualsivoglia certezza, occhi smarriti, di cui Zita desiderava ardentemente essere la luce, gli occhi del cardinale erano scuri e decisi, come quelli d'un silvano. "Hai scoperto qualcosa?" domandò con voce imprecisa, non del tutto convinto quello, "Si" aveva risposto con voce calma lei, "Dracone è molto più istruito di qualsiasi garzone io abbia mai conosciuto" aveva aggiunto, spiegandoli la sua incredibile abilità nelle lingue.

Il giovane annuì, prendendo bene nota di quell'apparente insignificante informazione, "Grazie" disse solamente, prima di congedarla. Zita aveva annuito, ignorando il tono aspro e s'era allontanata come le era stato ordinato.
S'era posata con la schiena contro la porta, con un sospiro profondo. Forse sarebbe dovuta tornare da Eliseo? Forse l'ebreo s'era risparmiato molte informazioni che avrebbero potuto essere utile ... forse, ma la sola idea d'uscir da sola, la rendeva inquieta, dopo quel che Dracone le aveva detto.



Giovanna salì sulla sua carrozza, lanciando un’ultima occhiata a quella strana compagnia, in particolar modo a l’uomo con la pergamena, “Non so però quando sarà il momento giusto” disse seria, prima di chiudersi l’imposta alle spalle. Nel buio dell’abitacolo, la fiamma d’una candela illuminava l’oscurità ed Eliseo la guardava con un aberrante sorriso. “Infinitamente grazie, amica mia” aveva detto immediatamente quello, il simbolo della volpe d’argento con cui aveva fermato il mantello luccicava alla luce della candela, “Non raccontiamoci fesserie, sono io a ringraziare” aveva detto secca la fanciulla con gli occhi socchiusi, il Turco s’era tanto premurato di tenerla lontana da quell’uomo che essere riuscita ad incontrarla la riempiva di gioia. Era stato si arduo il desiderio di non ordinare la sua morte, dimenticare chi era per ricordare chi fosse, pareva strano dirlo in quel modo, ma si era dovuta scordare d’esser Giovanna contessa di Sora, per rimembrare di essere solo la Muta dei Figli di Mitra.

La carrozza riprese a muoversi, alla volta di Roma, era stata fuori per troppo tempo, aveva rassicurato Giovanni che presa la carrozza quel mattino sarebbe stata all’Urbe già per il pranzo, ma l’inaspettata piega degli eventi le aveva rubato del tempo. Dopo la chiacchierata prima dell’incontro nel mitrideo, il Visionario gli aveva chiesto un passaggio per raggiungere l’urbe e nel farlo poi l’aveva anche convinta ad aiutarla con quel tale, con l’unica succulenta ricompensa di incontrar uno degli uomini di cui desiderava ardentemente la morte. “Cosa c’era nella pergamena?” domandò alla fine lei, guardando di sottecchi l’uomo, quello rise come se Giovanna avesse fatto una battuta di un particolare spirito, “Non lo so, mio padre mi disse di farla recapitare al figlio di Caterina da Gerusalemme è così ho fatto” concesse alla fine, senza perdere quel sorriso radioso che adornava il viso quasi vi fosse stato cucito. C’era dell’altro sotto, Giovanna lo percepiva sulla pelle, come cento aghi che scavano nelle sue carni, ma anche impegnandosi non avrebbe strappato ad Eliseo nulla di più di quello che non avesse già detto, si poteva esser in gamba quanto si voleva, ma contro i doni di Dio, non si poteva nulla. Sorrise; il maestro qualche tempo prima le era apparso in un sogno, gli aveva detto di tenere sotto i suoi attenti occhi Eliseo, perché temeva potesse tradirli ed era ovvio che Giovanna avrebbe seguito le istruzioni del Turco, ma pensava ugualmente – per quanto fosse brillante lei ed ingegnoso Al-rhaim – dovesse essere assai difficile farla in barba ad un uomo che poteva sapere ogni cosa.



Caterina era semi nascosta dal fumo della tazza, Vanessa aveva raccolto la ceramica con le dita sforzandosi di non scottarsi, ma il calore le aveva mandato in fiamme i polpastrelli. Poi aveva sorriso, nulla più che un arricciamento delle labbra. Avrebbe tanto voluto chiederle lei, come riuscisse a mantenere nervi così saldi dopo aver ucciso un uomo con un coltello giusto qualche ora prima. Vanessa aveva trascorso il tempo dal pranzo dell’orrore a quel infuso pomeridiano, sconvolta, aveva vomitato un paio di volte e quando madonna Caterina l’aveva appurato, le aveva preparato quella bevanda. “Nel mio stato, fatico molto a tenere il cibo nello stomaco” aveva spiegato, ammiccando alla sua dolce attesa. La bionda s’era chiesta quanto nocivo doveva essere quell’intruglio per quella creaturina che vivevano nei lombi stretti della contessa, ma alla fine aveva lasciato perdere ed aveva ingoiato tutti i suoi tormenti nell’infuso, pregando Dio, non fosse una stregoneria mortale di quel demonio travestito da angioletto. Quasi vomitò lei, quando si costrinse ad inghiottire l’ennesima sorsata, trovando il sapore nauseante da rigetto, come quella volta che Leonardo l’aveva convinta a mangiare del garum con le sue affabili lusinghe.
Caterina sorrideva dietro il vapore della tazza, aveva un espressione più calma e rilassata, quasi diversa dalla belva che era apparsa prima. Era come un animale, pensò lei, mentre si passava la manica del vestito pregiato sulle labbra, incurante del non dover apparire molto signorile; Caterina era stata come una tigre prima, forastica e pronta a lanciarsi sulla preda ed ora come un felino se ne stava steso all’ombra a sonnecchiare, gustandosi il fausto pasto. “Com’era madonna Vanessa?” aveva domandato la contessa, con un tono di voce davvero incuriosito, l’altra aveva chinato il capo, continuando a tenere sul viso un sorriso pizzicato, cercando di mandar giù i residui di amaro sulla lingua, “Ottimo, contessa” aveva risposto. La ragazzina aveva continuato a guardarla per un attimo, con il più fittizio sorriso innocente del mondo, prima di darsi ad una risatina ironica e sarcastica, “Per l’amore di sua santità, è meraviglioso come tu non sappia mentire” aveva quasi cantato, le gote di Vanessa s’erano colorite di un rosato imbarazzo. Aveva infilato un ciuffo di capelli biondi, che s’erano sfatti ormai dalla complicata capigliatura che aveva avuto nel mezzogiorno, “Non tutti vengono istruiti nella fine arte della menzogna” aveva alla fine concesso, lei poi aveva pensato, era stata cresciuta nel lido candore della verità, lei che avrebbe dovuto indossare il velo ed essere una sposa di cristo. Il viso di Caterina s’era fatto crucciato un momento, quasi infastidita, “Ne sono consapevole” aveva commentato con leggera amarezza, “Bastarda o meno, i miei natali hanno imposto che fossi eccezionale nelle buone maniere, nel ricamo e nella menzogna” aveva rivelato, prima di indugiare gli occhi miele sulla tazza; Vanessa aveva indovinato, avesse aggiunto alle sue competenze molte altre e molto più interessanti, come le pozioni o l’uccidere.

Lorenzo si era chiuso nel suo studio, con Ser Piero e la regina Ippolita, mentre Caterina e Vanessa erano state relegate nelle stanze dell’ultima, non senza lamentele da parte della contessa, placate dalla finta compostezza della regina di Napoli. Dragonetti assieme ad alcune guardie, aveva poi appurato lei si fosse occupato di portar via il corpo; Ser Adelchi era stato posto come guardia alla loro porta. E tutto ciò che Vanessa voleva, era liberarsi della compagnia della contessa Caterina, dei suoi infusi, dei problemi che avrebbe portato e starsene seduta in panciolle con suo figlio tra le braccia, in quei momenti come mille altri desiderava ardentemente che la signora Orsini tornasse, così da poter raccogliere tutte le sue cose ed andare avanti, per la sua strada, in quella casa che aveva lasciata, sopra la locanda, con suo figlio che potesse correre liberamente, privo delle costrizioni sociali cui ora pendevano sulla sua testa. Ma era giusto? Si chiese, essere così egoista? Voler privare Firenze di un erede?
“Però lo ammetto” esordì Caterina, “Ho vissuto certamente meglio dei figli di quella buon anima di Bona” aggiunse, con un sorriso nostalgico sulle labbra, “Avevo molte più liberta” ci tenne a precisare e Vanessa si chiese semplicemente perché ne stesse parlando con lei, poi scelse di domandarsi da quanto tempo che la contessa non poteva bearsi d’una presenza amica nella sua vita; non che Vanessa si ritenesse tale. “Io e Chiara, adoravamo andare a caccia con Carlo” aveva confidato, come fosse stata una bambina che raccontava una segreto alla più intima delle amiche, “Sono i miei fratelli di sangue” spiegò poi, trovando lo sguardo confuso di Vanessa e fraintendono, la bionda non si interrogava di chi fossero quei nomi, ma perché mai gli stesse udendo.

“Mio figlio è un bastardo” disse Vanessa, versandosi nella tazza questa volta del tè dall’aroma di limone, rompendo il silenzio che s’era venuto a creare. Si morse il labbro l’attimo dopo, perché mai l’aveva detto. Caterina drizzò le orecchie a quelle parole, “Non sarà da meno delle sue cugine” aveva commentato al contessa, prendendo anche lei la teiera e rovesciando la bevanda nella sua tazza, rimasta fino ad allora immacolata, “Anzi sarà meglio” disse, profondamente soddisfatta, “I bastardi sono di natura estremamente in gamba” aveva precisato, con un sorriso malandrino sulle labbra sottili. Vanessa aveva soffiato sul tè, stramente in accordo con quelle parole, non pensava però a quel peperino di suo figlio, pensava a Leonardo e alla sue idee, ai suoi occhi che guardavano così avanti, che neanche se avesse avuto cent’anni a disposizione Vanessa sarebbe riuscita a scorgere ciò che lui aveva visto. “Non ti fidare dei preti che dicono siano figli del peccato” il tono di Caterina era stato aspro, come se fosse stato rivolto una freccia a lei medesima, “Giulio non lo è di certo” le diede manforte Vanessa. Era figlio dell’amore, genuino, libertino, come solo a Firenze poteva essere. Quel ricordo per quanto doloroso, si rese conto lei, le aveva scaldato l’animo nel petto e nel ventre, le parve da qualche parte, nei meandri dei suoi ricordi, udire la genuina risata di Giuliano come fosse stato al suo fianco.

Caterina s’era alzata per vomitare, avendo lasciato l’infuso a Vanessa anziché a lei, incapace di uscire, aveva riversato ciò che il suo stomaco teneva, nel pitale, in tutt’altro. L’impreparata matrona di Firenze aveva ascoltato i conati di vomito della signora, con mero disinteresse, continuando a contare le ore che la costringevano chiusa in quella stanza, nella speranza di poter uscire prima possibile ed impegnandosi nel non farsi condizionare dalla ragazza pregna e non mettersi a vomitare anche lei.
Caterina s’era sistemata di nuovo sulla sua poltroncina, riempiendosi il bicchiere d’acqua, non avevano concesso alle due neanche una cameriera, cosa che la contessa aveva fatto notare sprezzante, mentre trangugiava acqua come una mucca che s’abbeverava e Vanessa dovette impegnarsi per non scoppiare a ridere a quell’idea. Caterina la guardò appena, con un accenno di perplessità, “Come si chiamerà?” aveva domandato poi, Vanessa, congiungendo le mani al petto, “Se sarà femmina Bianca” aveva risposto schiettamente la contessa, l’altra avrebbe voluto far notare quanto raro fosse per la nobilita scegliere un nome femminile, “Ma un indovino ha predetto sarà maschio, forse è un ciarlatano, ma mi sento fiduciosa” aveva confessato, “Mi piacerebbe un nome importante, come Cesare od Ottaviano, ma temo dovrò combattere contro un Francesco” confidò, con una punta di veleno nella voce.

Vanessa non aveva aggiunto altro, riconosciuto il nome del papa, prima dei voti. E poi era caduto il silenzio tra le due madonne ancora una volta. Caterina se ne stava gravida accomodata sulla poltrona con le mani sul ventre ed un espressione esasperata, ora aveva riassunto tratti bestiali, pareva come una fiera in gabbia, desiderosa d’azzannar la gola del suo carceriere. “Però, mi chiedo, chi mai l’avrebbe immaginato che l’amante di Giuliano De Medici e la moglie di Girolamo Riario si sarebbero ritrovati a prendere tè insieme?” domandò colma di fastidio la contessa, stringendo le unghia sulla stoffa celestina del suo abbigliamento. Vanessa scattò in piedi come una molla, l’immagine di Morgante, con il coltello conficcato nella sua fronte, sovrapposta alle sue mani sporche del sangue di Lorenzo, prima che morisse, in quella maledetta chiesa, ebbe quasi un mancamento, ma Caterina si scompose un minimo, “Devo uscire, contessa” riuscì a formulare, con un filo d’aria, quando fu la porta ad aprirsi d’improvviso, cogliendo le due donne di sorpresa, due fanciulli erano irrotti, uno era l’ormai spina nel fianco che Vanessa era costretta a sopportarsi, Giovanni De Medici, il suo precettore, vestito di tutto punto, sebbene avesse i capelli in disordine chi s’era accapigliato ed un espressione pavida, l’altro ragazzo la rallegrò maggiormente, riconoscendo i riccioli disordinati ed il viso così amico di Nico. “Perdonatemi Madonne non sono riuscito a fermarli” si era scusato Adelchi, che aveva già estratto la sua spalla, “Dove è la novità?” aveva sputato sentenziosa la contessa, portandosi una mano sul ventre protettiva, “Non preoccupatevi ser, sono amici” rispose di netto Vanessa, sorridendo profondamente grata della presenza di Nico. Caterina s’era tirata su a fatica, “Ma certo perché preoccuparci, sono amici!” aveva detto infastidita fino alla morte, con gli occhi roteanti al cielo, “Questa volta” aggiunse risentita, “Santiddio Adelchi, se dovessi davvero dipendere da te, sarei già al creatore da tempo” aveva sbuffato Caterina, la guardia aveva abbassato lo sguardo profondamente offeso, “Contessa …” aveva provato, ma quella l’aveva zittito con un solo movimento di mano, poi aveva osservato i due giovani.
Quando Giovanni aveva sentito gli occhi di Caterina addosso s’era fatto infuocato in viso ed aveva abbassato lo sguardo, Nico non si era scomposto affatto, o meglio – Vanessa lo aveva capito – aveva finto di non scomporsi, ma le orecchie s’erano incendiate così tanto da sembrare mele, “Io vi conosco” notò Caterina, colpita, “Siete l’amico dell’indovino e di quell’impiastro di artista” commentò con accidia, chiudendo un occhio, come se dovesse concentrarsi per ricordare qualcosa. Fantastico, pensò Vanessa, la moglie del Conte Riario aveva già conosciuto Leonardo e Zoroastro! Nico schiuse appena le labbra, “La madonna con il drago serpente” commentò.




Lele era seduto al tavolo delle cucine, finalmente spogliato degli abiti di cuoio per il combattimento e la cavalcata, amabilmente insaccato in vestimenti morbidi caldi, l’unico capo saldo era la cinta di corame alla vita, con la fibbia d’orata, che teneva su i calzoni di lana. Era stato quanto mai piacevole passare una notte nel suo letto, in nulla più che un giaciglio di lenzuola e paglia morbida, ma ugualmente migliore del pavimento dell’osteria o della terra gnuda, quasi provava vergogna ad ammetterlo, ma stava invecchiando, si che stava invecchiando. “Giusto mi chiedevo che fine avessi fatto” aveva trillato una voce lì di fianco, un ragazzo era stagliato sulla porta, era alto come una pertica, magro e sgraziato, era stipato in un farsetto di miserabile fattura, senza ghirigori e pizzi, con stivali lucenti e pantaloni zigrinati, “Felice” disse lui, sollevando gli occhi dalla sua zuppa di porri, tutto quello che era riuscito a convincere il cuoco a preparargli. Il ragazzo era entrato nella cucina, tenendo tra le mani una caraffa vuota, sporca di gocciole violacee, “Che intendi dire?” aveva domandato confuso, aggrottando le sopraciglia, certo che non s’erano visti, era tornato giusto ieri notte dal suo viaggio. Felice aveva strabuzzato gli occhi verdi, come due olive, “Stai cercando di farmi fesso?” aveva domandato infastidito, posando la brocca vuota sul tavolo, “Per un bel po’ di giorni, ne te, ne quella grecola vi siete visti” aveva detto, mentre riempiva con altro vino rosso, la caraffa vuota, aveva uno sguardo offeso e vagamente piccato, “Svolgevamo affari per la madonna” rispose con voce seccata, dando l’idea a quel ragazzo si smetterla di impicciarsi. S’era completamente dimenticato che la sua signora aveva lasciato trapelare che fosse stata male e se con fatica tutti potevano credere fosse nelle sue stanza – Lele scommetteva che il padron Antonio e la rispettabile Betta si fossero adoperati perché tutti lo credessero – la sua assenza e quella di Filippa, forse sarebbe passata inosservata da chiunque cercasse di nascondersi la madonna, ma di fatti nella casa la sparizione di due servi, dagli altri poteva essere notata.

Felice sorrise, sollevando con le braccia secche la caraffa, “Giusto della signora, la grave malata, sta mattina, un fiore pare, per quanto poco uscisse temevo sarebbe morta nelle sue stanze” aveva commentato quello maligno, prima di incontrare gli occhi acuti e severi di Betta, non servì che l’anziana donna dicesse neanche una lettera, perché l’altro uscisse veloce della cucina. L’anziana guardò lui, aveva un cipiglio sulle fronte grinzosa, le sopraciglia spesse sale e pepe crucciate, ma alla fine non disse nulla, limitandosi a sollevare le mani callose e macchiate di vecchiaia, “I giovani d’oggi, così sfacciati e scansafatiche” si lamentò, continuando a camminare verso la cucina, per prendere il cibo che andava servito in tavole. A Lele quella donna inquietava, erano vent’anni che la conosceva e non ancora gli era chiaro quanti anni avesse, aveva l’impressione Betta fosse sempre stata vecchia e contemporaneamente ringiovanisse nello spirito ogni anno.

Restò a chiacchierare con il cuoco poco, prima di lasciare le cucine per sollazzarsi in qualsiasi altro modo, non aveva nulla da fare in fin dei conti, la signora lo aveva licenziato la notte prima con estrema velocità e d’altro canto il signor non aveva chiesto di lui. Lungo i fini corridoi della tenuta aveva incontrato Filippa, aveva sorriso gentile lei, gli occhi scuri erano segnati da profonde occhiaie violacee, di chi non s’era concessa neanche un momento per riposarsi. Teneva tra le dita d’una mano un secchio d’acqua, nell’altra un panno per pulire. “Sembri esausta” fu il suo saluto, Filippa se s’era indispettita lo nascose bene, limitandosi ad un sorriso vagamente imbarazzato, “Non ho dormito molto bene” aveva commentato , stringendo le spalle, i riccioli neri erano stritolati in una cuffia arrotolata sulla nuca da cui scendevano due code, una sola ciocca sfuggiva all’incarcerazione, scivolando dalla fronte fino al naso importante. “Cattivi sogni?” indagò lui, la ragazza si finse per un attimo pavida, piccola e fragile, come la carta, poi annui, timorosa, come se fosse sul punto di rivelare un segreto, le labbra piccole serrate, come se un singolo suono avesse potuto ucciderla. “Ti direi di andare dal giudeastro, Ippa” aveva buttato lui lì, la ragazza aveva spalancato quegli occhi scuri così belli, “Da chi?” aveva chiesto, “Un ebreo che legge sogni” aveva risposto vago, senza parlare del fatto che prestasse anche soldi e dove li trovasse solo iddio – o il diavolo – lo sapevano. Filippa era comunque ancora confusa, si rese conte Lele e solo allora immaginò che una tale santa fanciulla, doveva preferir tapparsi le orecchie pur di non sentire parlare di stregoni ed altri adoratori dei silvani. Il che lo fece un po’ ridere, perché lui poteva non rivolgere la sua gratitudine a Dio, ma poteva farlo in quei cialtroni, in alcuni di quelli, così aveva conosciuto Giuliana, perché lei diceva d’aver avuto quel potere per divina concessione, che era malata e che di luce lo spirito santo s’era unito a lei; Lele l’aveva amata, ma era lei pazza, ne era stato certo, ma vedeva e sapeva cose che tutti gli altri uomini ignoravano. Era nella capitale, quando Giuliana era comparsa nei suoi sogni e lui ne era stato così immensamente felice, perché temeva ogni giorno, ogni anno, ogni momento di dimenticare quel viso di andare dall’Ebreo. Quando l’aveva visto aveva capito fosse uguale alla sua amata, nel modo di guardarlo l’aveva intuito, era lo stesso di Giuliana, guardava il mondo con un misto di amorevole tenerezza e rammaricata consapevolezza.

“Molti vanno dal giudeo” aveva poi spiegato alla ragazza, lui c’era andato perché un sogno glielo aveva detto, ma aveva poi capito, quanto molti, anche quei finti bacchettoni moralisti delle alte cariche, erano tal volta finiti sotto lo sguardo attento della muta, accanto a gente povera ed in cerca di talenti. “Potrebbe darti una spiegazione ai tuoi sogni” le disse, battendole una mano sulla fine spalla, Filippa strizzò gli occhi, poi mosse sconsolata il capo, quasi amareggiata da qualcosa che Lele non riusciva a comprendere, “Temo un licenzioso miscredente, non potrà aiutarmi” aveva detto amara, continuando per la sua strada. Lele rimase fermo nel corridoio, osservando le pieghe della gonna della ragazza ondeggiare ad ogni passo e si rese conto che tra tutti in quel viaggio, Filippa ne era stata la più provata, in quella giornata in cui nessuno l’aveva vista, quando loro avevano conosciuto il famigerato Leondardo Da Vinci, alla fanciulla era capitato qualcosa.



“Non ho ancora capito per qualsivoglia ragione tu sia qui, Botticelli” aveva detto Leonardo, infastidendolo ancora, mentre continuava a stargli affianco. Zoroastro aveva sospettato che la cavalla di Sandro dovesse essersi innamorato di quello di Leonardo e fosse ricambiata, perché non c’era verso che i due animali volessero camminare a due andature diverse, no, continuavano a fiancheggiarsi a passo cadenzato. “Di chi dovremmo seppellire il corpo?” aveva domandato divertito Di Credi, Zoroastro avrebbe davvero voluto ridere a quella battuta, se fosse stata una battuta, perché lui era dannatamente certo che prima di Roma si sarebbero dovuti fermare da qualche parte per sbarazzarsi di un qualche cadavere già, perché di questo passo o sarebbe morto lui suicida o avrebbe ucciso i due artisti. Ma alla fine rise, perché in fin de conti, era solo colpa sua, se proprio non riusciva a dire di no a Leonardo; lo sapeva che prima o poi questo suo altruismo l’avrebbe ucciso, sperava solo di non morire in maniera dolorosa, come aveva rischiato di fare negli ultimi tre anni. Guardò Lorenzo, povero fanciullo, non aveva la minima idea di ciò che l’aspettava.

Sandro non aveva degnato di Leonardo in una risposta – e non perché fosse più maturo, ma perché prediligeva fingere l’altro non esistesse – continuando a tenere lo sguardo fiero puntato in avanti. Zoroastro alzò gli occhi al cielo, forse aspettando una divina benedizione alla sua pazienza, perché ormai cominciava a scarseggiare, “Sai, sono sempre stato convinto che a Sandro, Leonardo piacesse parecchio” aveva ripreso a parlare Lorenzo. Zoro non poteva dargli torto il suo provare a far conversazione, l’esasperazione rasentava livelli ingestibile, “Ho sempre pensato lo odiasse” rispose secco lui – come mezza repubblica fiorentina d’altro canto – Lorenzo aveva chinato il capo, mantenendo sul viso un sorriso di raro candore, di finta innocenza, di chi la sapeva lunga, “Ne è geloso, lo detesta, prova per lui un’invidia bruciante, questo si … però …” aveva risposto il ragazzetto, non finendo la frase, perdendosi tra pensieri sconci che Zoroastro preferì di gran lunga non sapere – ne aveva viste nella sua vita sotto o sopra dalle lenzuola di cose perverse, ma Sandro e Leonardo era uno di quegli spettacoli che avrebbero potuto animare i suoi incubi – e continuare a camminare, nella direzione di Roma. Si, moriva quasi dalla voglia di rincontrare il Conte, pentendosi quasi improvvisamente di quel pugno che gli aveva sferrato quand’erano nel Nuovo Mondo, temendo che quella sarebbe stata la volta buona che quel pazzo mantenesse quella promessa sulle voci bianche che gli aveva fatto a suo tempo, l’ultima volta che era stato in villeggiatura nella città pontificia.

Ma poi alla fine, Leonardo aveva anche ragione, perché mai Botticelli era venuto? E l’aveva perciò chiesto a Di Credi, “Non sono mica suo confidente” aveva risposto l’altro, sollevando le spalle, “Avremmo dovuto chiederlo a Filippini, sicuro lui lo sapeva” aveva aggiunto, mordendosi le labbra. Zoroastro lo guardò un attimo critico; non era di certo una bellezza celestiale, come Madonna Donati, però si, Leonardo non si smentiva mai, con il suo amore per le cose belle. Chiedere a Lorenzo perché fosse venuto, Zoro sapeva fosse del tutto futile. Si voltò in avanti, Leonardo stava dicendo qualcosa a Botticelli, a tono basso, come se fosse un segreto di cui lui e Di Credi dovessero essere tenuti allo scuro. Qualunque cosa fosse, Sandro la trovò interessante, s’avvicinò addirittura e cominciarono a confabulare tra loro. “Strano” commentò, con un cipiglio, prima di sentire una risatina divertita venire da Lorenzo. Venne da sorridere anche a lui, perché almeno qualcuno trovava in quella situazione un minimo di sollazzo. L’idilliaca pace s’andò a spezzarsi, quando Leonardo disse qualcosa che evidentemente Botticelli non doveva aver apprezzato, perché frustrato e cattivo, l’aveva malamente offeso, con qualche varia ingiuria verso il cielo ed aveva dato un secco calcio alla sua cavalla per superare l’altro. E così era andata avanti, con Sandro che bonfocchiava contro Leonardo e l’altro che si faceva grasse risate alle sue spalle. E Zoroastro si sentì incredibilmente sollevato quando riconobbe gli austeri contorni di Roma.

“C’è gente …” commentò Lorenzo, puntando gli occhi scuri poco più avanti lungo il sentiero. Una carrozza pregiata era ferma sul ciglio della strada battuta. Due palafrene, una dal manto sabbia e l’altra scura come la pece, stavano brucando l’erba lì vicino. “Fate finta di nulla” aveva repentino detto Leonardo. Sandro s’era fatto granitico e Zoroastro aveva sperato che le cose andassero per il meglio, non che ci credesse davvero, non aveva bisogno di leggere i tarocchi per saperlo. Alcuni uomini erano ai piedi della carrozza, vestivano con armature scure, sulle cui pettorine era dipinto un blasone nobiliare, un rovere oro in campo azzurro. La carrozza era d’un cipria chiaro, d’una forma quadrata, con istori bronzei che ricalcavano un motivo floreale, sul battente, proprio sotto una finestra, cui era stata scesa una tenda corallo, svettava un altro stemma un drago aureo con le ali spiegate, su uno sfondo rosso sanguineo. “Il simbolo del ducato di Sora” bisbigliò prontamente Botticelli, guardando lo stemma, con gli occhi curiosi – e pericolosi – d’un artista. Le guardie non provarono a fermargli, fu per loro prioritario aprire l’imposta, quando sentirono due tocchetti arrivare da dentro, come d’una bussata. Le guardie s’erano fatte poi premura nell’aiutare a scendere della carrozza una giovane madonna.

La fanciulla aveva capelli neri come la fuliggine ed occhi del medesimo colore, non era particolarmente attraente, quello fu il primo pensiero di Zoroastro quando indugiò sul suo viso, prima di accorgersi che il corpo magro era stretto in uno prestigioso vestito, su cui era cucito uno stemma che aveva imparato a conoscere, il blasone dell’ormai defunto duca di Urbino. La madonna lanciò loro uno sguardo, non era di fuoco, era solo una sottile occhiata, come se a stento gli studiasse, poi abbozzò un piccolo sorriso, gli uomini sfoderarono le spade ed i cavalli si fermarono d’istinto. “Non temiate, signor Leonardo non sono qui per annoiarvi” disse la fanciulla, invitandolo a scendere, solo lui, con sguardo avido, aveva occhi castani, cattivi e freddi. Chiamato in causa, l’artista smontò da cavallo, non prima d’aver lanciato un eloquente sguardo a Zoroastro, se le cose si fossero messe male, sarebbero dovuti fuggire, ma lui non aveva alcuna intenzione di lasciare il suo amico. “Giovanna da Montefeltro” disse la fanciulla, allungando la mano verso il viso di Leonardo, lui la prese e ne baciò il dorso, quasi fosse stato un galantuomo. Al suo fianco, Zoro sentì Lorenzo quasi smettere di respirare.

Leonardo s’era ritrovato costretto ad allontanarsi dai suo amici, quando la madonna gli aveva chiesto di parlare in privato, non erano di certo così distanti, con gli occhi Leonardo poteva osservare la preoccupazione dipinta sul viso di Zoro ed il pallore che aveva animato Lorenzo; questo lo avvelenò nel profondo, per quanto quel ragazzino gli piacesse, temeva di ferirlo ogni istante. “Ho tanto desiderato conoscervi” bisbigliò la ragazza con un tono basso come fosse stato il cinguettio d’un passerotto, “Ora siete stata accontentata, madonna” rispose lui con un sorriso sornione, mentre quella aveva ricominciato a camminare per i verdi, tirando su la gonna fino a scoprire i polpacci fasciati dalle calze. Camminava davanti a Leonardo, ogni passo i lunghi capelli neri ondeggiavano come un mantello di seta nera, come avesse convinto le guardie ad aspettarla, senza seguirli, non riusciva a comprenderlo. Giovanna rise, “Vorrei avere più tempo per parlare, ma non ne ho molto” aveva confidato all’uomo, fermandosi in un determinato punto, in cui l’era era stata recisa e la terra smossa, Leonardo l’aveva affiancato, “Come?” chiese, genuinamente curioso, “Aspettarvi mi ha portato via tempo, che tra Marino e Roma non avrei dovuto avere” confidò la madonna, tastando con lo stivale che portava sotto l’ampia gonna la terra smossa e bagnata, quasi volesse testare la consistenza.

“Mi state confondendo, madonna” disse Leonardo, davvero spaesato dagli strani discorsi della fanciulla, s’aspettava che la figlia del Conte d’Urbino – e moglie di uno dei nipoti di Sisto – non desiderasse altra cosa che vederlo morire da qualche parte. Giovanna rise con sarcasmo, “Eppure il Turco ti aveva dipinto come l’uomo più eccezionale da secoli” sogghignò, prima di accomodarsi sull’erba con tutto l’abito pregiato, la gonna rossa s’era macchiata di terra e d’erba. Il turco? Giovanna da Montefeltro era una figlia di Mitra? Lei alzò lo sguardo verso di lui, “Sono figlia della notte e del cielo stellato …” aveva risposto alla fine alla muta domanda che Leonardo non aveva posto. Da Vinci era scivolato accanto a lei, che strano quadretto si disse dovevano sembrare da lontano, una nobildonna con tutte i suoi strati di stoffa seduta sulla terra assieme ad un bastardo – responsabile diretto della morta del padre della fanciulla, per di più.
Giovanna cominciò a scavare con le dita pallide e secche nella terra, “La sua testa, assieme a quella di Carlo De Medici, è la seconda cosa che desidero più al mondo, artista” commentò con voce neutra lei, come se avesse fatto un commento sul tempo. Leonardo cominciò a scavare con lei, “La seconda?” chiese, se qualcuno avesse ucciso Verrocchio, lui era certo la morte di quella persona sarebbe stato il suo più grande desiderio. Giovanna annuì, “Spero anche un giorno di potermela prendere” aveva commentato; le dita di Leonardo sfiorarono quelle della fanciulla, erano freddo come la pietra. “Ma se non lo faccio ora, artista” disse, prima di allontanare le dita dalla terra, sul fondo della buca c’era quella che sembrava una pergamena, sigillata dalla cera rossa, che richiamava la testa di una volpe, “ È non lo faccio solo perché la cosa che desidero più al mondo è sapere che il libro delle lamine è al sicuro” aveva confidato Giovanna, prima di estrarre la pergamene e sorridere in maniera strana, come se fosse divertita da qualcosa, “Dannato Visionario” commentò, prima di allungarla verso di lui.

Giovanna si era alzata, “Abbiate l’arguzia di non incontrarmi a Roma, se dovesse accadere lì, dimenticherei d’esser figlia di Mitra, ma solo figlia di mio padre” disse gelida, prima di incamminarsi verso la carrozza seguita da Leonardo, che teneva tra le mani la pergamena, “Quando sarà il momento, dovrete andare da Eliseo Vitalevi” aveva commentato, prima di richiamare le guardie. L’ultima cosa che gli aveva detto era che fortunatamente non aveva idea di quando sarebbe stato il momento.

   
 
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