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Autore: thatswhatfriendsarefor    11/11/2014    12 recensioni
Dopo essere stata ferita al funerale di Roy, Kate si rifugia nella baita di suo padre e in se stessa.
Riuscirà davvero a rimanere da sola?
La nostra personalissima versione della 4x01 o meglio una ipotetica 3x25
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione
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- Questa storia fa parte della serie 'E se l'inizio fosse stato diverso?'
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Capitolo 2  - Segni indelebili

 

Ormai sono in ballo, tanto vale vuotare il sacco. Prendo un bel respiro e provo a spiegare.

“Papà, ho fatto un casino. Ho detto a Castle che non ricordavo nulla di quello che è successo al funerale di Montgomery. E quando è venuto a trovarmi all’ospedale l’ho liquidato in pochi minuti dicendogli che avevo bisogno di tempo e lo avrei richiamato io…”

“E da allora non lo hai più cercato…” quella di papà non è una domanda, bensì una semplice constatazione. E’ la persona che mi conosce meglio e, evidentemente, questo mio comportamento non lo stupisce più di tanto.

Annuisco in maniera impercettibile. Dopo una pausa che a me sembra lunghissima, mi chiede: “Perché non lo hai più chiamato?”

“Avevo paura. Ho paura. Anzi, sono terrorizzata. Ho la sensazione che con lui sarebbe diverso da chiunque altro prima e questo mi blocca. Sono spaventata perché ha sempre avuto molte donne, anche se adesso è un po’ che non lo sento vantarsi delle sue conquiste… ma sarà un uomo affidabile? E poi allo stesso tempo ho il terrore di non essere abbastanza per lui e di non meritarmi un amore così incondizionato. Temo che se mi lasciassi amare da lui e poi lo perdessi non sopravvivrei…. Insomma, papà, è… complicato. E poi l’ho ferito e gli ho mentito.”

Il cuore mi batte all’impazzata nel petto e comincio a respirare con affanno. Papà se ne accorge e mi abbraccia, stringendomi a sé – sempre con cautela – per cercare di tranquillizzarmi. Non è il caso di proseguire con questa conversazione, è ancora troppo impegnativa per me. Mi rifugio fra le braccia di mio padre e sento le lacrime pungermi gli occhi, ma per orgoglio non voglio che mi veda piangere. Lui scioglie la presa, mi accarezza una guancia e mi dice: “Andiamo, Katie, aiuta il tuo vecchio a cucinare il pranzo, altrimenti qui non la finiamo più e tu invece devi mangiare”.

Gli sorrido riconoscente: ha una pazienza infinita con me.

 

L’indomani papà mi accompagna in ospedale per una visita di controllo. E’ la prima volta che scendo di nuovo a Manhattan da quando mi sono trasferita nella baita. O dovrei dire da quando sono scappata e mi sono rifugiata lì, a cercare di rimettere insieme i pezzi della mia vita e a recuperare le forze. Il rumore della città mi stordisce: motori, clacson, sirene, condizionatori, musica a tutto volume sparata dai negozi, fischietti dei poliziotti che regolano il traffico, persino dei colpi di arma da fuoco in lontananza. New York è sempre New York. Mi ero già abituata al suono della natura: gli uccelli che cantano, il ruscello che scorre, il legno della casa che scricchiola. Di notte sento persino gli insetti che passeggiano o strisciano lungo i muri della baita. Già, perché di notte faccio fatica a dormire. Anzi, ho paura di addormentarmi perché nel sonno rivivo ogni volta quel dolore, quella sconvolgente sensazione della vita che scorre via inesorabilmente. Sento continuamente il proiettile che squarcia i tessuti della mia carne, sfiora la parete esterna del mio cuore e si porta via una parte di me. Percepisco costantemente quella paura, quell’inquietante sensazione di perdita di controllo: i polmoni collassano, non riesco a respirare, sento le parole di Castle e vedo il dolore nei suoi occhi. Le lacrime scivolano lungo le mie tempie, poi la vista si offusca e tutto si fa nero.

Ogni notte mi convinco che questa volta non ce la farò, che la morte è davvero venuta a prendermi, senza possibilità di salvezza. Mi sveglio con il cuore in gola e con l’angoscia che mi attanaglia le vie respiratorie.

“Katie, non scendi?” la voce di papà mi fa sussultare. Non mi ero nemmeno resa conto di essere già nel parcheggio dell’ospedale.

“Sì, scusami. Mi sono distratta” gli rispondo con un mezzo sorriso.

Ci avviamo all’interno dell’edificio, prendiamo l’ascensore e saliamo al quarto piano. Mi consola il fatto che, dopo che ci siamo lasciati, Josh abbia deciso di partire subito per l’Amazzonia: anche se tutto sommato siamo rimasti in buoni rapporti, non ce la farei ad affrontare anche lui di persona, sia pure per caso.

Appena arrivati al reparto, l’infermiera dell’accettazione solleva lo sguardo dal monitor del computer e ci saluta: “Buongiorno, come posso aiutarvi?”

Il cartellino appuntato sul petto dice che si chiama Emma Stevenson. E’ una donna sulla quarantina, un po’ sovrappeso e con le borse sotto gli occhi. Ma ha lo sguardo buono e il sorriso che ci rivolge sembra sincero.

“Sono Kate Beckett, ho appuntamento con il dottor Culliford” dichiaro con voce ferma, cercando di rispolverare il mio tono professionale che ultimamente non ho più usato. Il dottor Culliford è il cardiochirurgo che mi ha preso in cura dopo la partenza di Josh. L’ho già incontrato prima delle dimissioni dall’ospedale e mi ha fatto un’ottima impressione. Sarà perché mi ricorda un po’ papà, con i capelli grigi e quell’aria distinta.

“Un attimo… sì, il dottore è ancora impegnato con la visita precedente, appena si libera sarà il suo turno. Potete accomodarvi nella sala d’attesa alle vostre spalle.” Risponde con professionalità e cortesia l’infermiera Stevenson.

Pochi minuti dopo, il dottor Culliford congeda il suo precedente paziente e tocca davvero a me.

Papà mi stringe affettuosamente un braccio e rimane seduto: sono abbastanza grande per affrontare la visita da sola, senza considerare che per pudore non mi va di avere troppa gente intorno. Gli lascio la borsa in modo da non avere impicci e mi avvio verso lo studio del dottore.

Il medico mi fa accomodare nel suo ambulatorio e, dopo aver dato una rapida occhiata alla mia cartella clinica, mi chiede: “Kate, come si sente?”

“Stanca. E debole” rispondo.

“E’ normale dopo aver subito un trauma come il suo” Mi osserva con attenzione e poi continua: “Riesce a riposare la notte?”

Bingo. Mi legge come un libro aperto.

“A dire la verità non molto…” replico sinceramente.

“Può far ricorso a dei tranquillanti. Le preparo una richiesta così può andare a ritirarli alla farmacia qui sotto. La aiuteranno a dormire e questo le permetterà di recuperare meglio le forze. E non si preoccupi” aggiunge vedendo la mia espressione perplessa “sono medicinali creati apposta per situazioni come la sua. Il cuore è ancora debole e non le potrei mai prescrivere dei sonniferi tradizionali. Adesso si spogli e si stenda sul lettino, così vediamo se è il caso di togliere i punti.”

Obbedisco ai suoi ordini, muovendomi con estrema lentezza e cautela. Le cicatrici tirano e si fanno sentire.

Per tutto il tempo in cui il dottore armeggia con pinzette, cotone, garze e bende giro la testa dall’altra parte e tengo gli occhi chiusi. Non sono ancora pronta a osservare il disastro sul mio corpo.

Nessun uomo mi vorrà più toccare.

Nessun uomo mi troverà più attraente.

Ho paura che quei segni indelebili mi abbiano trasformato in un mostro.

Il medico termina la visita e dichiara: “Ecco fatto, Kate. Le ferite stanno rimarginando perfettamente, dal punto di vista fisico tutto rientra nella norma. Possiamo rivederci fra due settimane. Nel frattempo continui a evitare sforzi e stress di ogni genere e cerchi di mettere su un po’ di peso, d’accordo?”

Annuisco.

“Un’ultima cosa: da domani deve iniziare a mettere una pomata. Il dottor Davidson ha fatto un ottimo lavoro e vedrà che con il tempo le cicatrici si attenueranno ma è importante che inizi a fare le medicazioni.” stabilisce il dottore.

Non ce la posso fare.

Vedere il mio seno devastato dalle incisioni dell’intervento è ancora troppo per me. E’ troppo presto.

“Deve ripetere questa procedura due volte al giorno. Ha qualcuno che la può aiutare?”

Scuoto la testa escludendo la possibilità che se ne occupi mio padre.

“Non si preoccupi, Kate. Le mostro come deve pulire la ferita e poi applicare la pomata” mi si avvicina con alcune garze imbevute di connettivina e inizia a farmi vedere quello che avrei dovuto fare da sola. Due volte al giorno. Davanti al dottor Culliford non faccio trapelare nulla ma non sono ancora pronta a guardare e mi impongo di farlo stringendo la mascella e i pugni allo stesso modo. Sento le mie unghie conficcarsi nei palmi ed è un dolore che mi tiene vigile e mi impedisce di voltare altrove lo sguardo codardamente.

“Ora si può rivestire. E continui a non portare il reggiseno almeno fino alla prossima visita. Anche con biancheria comoda, l’elastico potrebbe bloccare la circolazione capillare che è ancora fragile”. Faccio un cenno di assenso, indosso velocemente la maglietta e mi congedo da lui, stringendogli la mano.

Sono stordita.

Prendo la ricetta che mi ha dato e la osservo.

Sono perplessa all’idea dei tranquillanti. Da una parte mi alletta l’idea di sprofondare in un sonno senza sogni che mi permetta finalmente di riposare, di mettere a tacere la memoria e la mia coscienza che mi ricorda di aver mentito. Dall’altra sono terrorizzata dall’ipotesi che io possa sviluppare una dipendenza da queste sostanze, proprio come è successo a papà con l’alcool dopo la morte di mamma. Non voglio riportare me e lui in quel vortice dal quale siamo riemersi solo con grande fatica.

Per il momento, ripiego la richiesta del medico e la metto in tasca, poi mi avvio verso la sala d’attesa in cerca di mio padre.

Non è più seduto sulla poltroncina dove lo avevo lasciato. Lo cerco con lo sguardo e vedo che è in fondo al corridoio e sta parlando al cellulare. Sembra impegnato in una conversazione piuttosto seria e animata… deve essere una questione di lavoro.

Appena si accorge della mia presenza mi fa un cenno con la mano e lo sento dire: “Allora a domani. E… grazie, è davvero importante per me”

Poi conclude la chiamata, si rivolge a me e mi chiede: “Com’è andata, Katie?”

“Tutto ok. Il dottor Culliford ha detto che mi vuole rivedere fra due settimane ma tutto procede nella norma” lo tranquillizzo. “Tu, piuttosto? Cosa devi fare domani?”

“Ah, ho appuntamento con un cliente per una causa un po’ delicata. Devo tornare a Manhattan. Mi dispiace ma dovrò lasciarti sola anche domattina.” Dichiara convinto. Forse troppo, ma non gli do peso.

“Non ti preoccupare. Ho i miei libri che mi faranno compagnia”

“Hai anche i suoi libri? Ti hanno aiutato tanto in passato…”

Inutile specificare di chi stiamo parlando.

“Era tutta un’altra situazione. Comunque sto leggendo cose diverse adesso, di certo non gialli” ribadisco con tono un po’ acido.

Papà mi osserva di sottecchi mentre ci stiamo avviando verso l’ascensore. “Vedi di chiamare anche zia Theresa…”

“Sì, papà”

“E magari potresti chiamare anche Lanie…”

“PAPA’….” Sbuffo.

“Ok, ok, volevo solo darti qualche suggerimento” si difende, alzando persino le mani.

“Torniamo alla baita, ok? Ci vuole un po’ per arrivarci e io comincio ad essere stanca”

“Certo, Katie. Andiamo”

 

Angolo delle autrici

Kate confida a suo padre i profondi sentimenti che nutre per Castle e poi viene a confronto per la prima volta con il suo corpo martoriato.

La strada per la guarigione è ancora in salita… meglio tornare alla baita.

Grazie di cuore per l’affetto con cui avete accolto questa nostra nuova avventura insieme.

Debora e Monica

  
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