Luglio
La luce filtra a fatica, attraverso la tapparella quasi del tutto abbassata, e si deposita con particolari intrecci di rettangoli e strisce sul tuo volto, sulla tua pelle chiarissima. Mi trovo a fissarla senza nemmeno accorgermene davvero, interrogandomi se questa minima esposizione al sole pomeridiano possa in qualche modo causarti delle bruciature.
La luminescenza di quei frammenti d’epidermide, nell’aula, è tanto forte da riuscire a mettere a tacere persino il ronzio che il silenzio produce nelle mie orecchie. Scorri l’indice del libro, ma il fruscio della tua mano non mi giunge; sono diventato pure sordo, adesso?
«Lo studio riportato a pagina duecentoventi, dicevi?»
Cerchi di richiamarmi, arrossendo, perché i miei occhi sono ancora fermi sul tuo viso, e sorrido, annuisco, grattandomi la testa. «Scusami, ero sovrappensiero», mi giustifico.
Che discolpa patetica. Può essere definito “sovrappensiero”, il fulcro delle proprie riflessioni, quando è esattamente di fronte a te? Non sarebbe più semplice ammettere la verità, dire che non mi va di studiare, che non sono portato per la geografia e che, invece, esaminerei ben volentieri l’astronomia? Forse, in tal modo, riuscirei a trovare la rotta anche quando mi perdo in quegli occhi che le tue ciglia troppo spesso nascondono, o magari distinguerei delle costellazioni, nelle leggerissime lentiggini che adornano lo scollo della tua camicetta, come una sciarpa appena percepibile, annodatati da Giove – o chissà quale altra divinità – in una vita passata, che non puoi ricordare.
D’un tratto i tuoi palmi premono la copertina del libro, chiudendolo. Un leggero pulviscolo sale, in controluce, per poi danzare e disperdersi discretamente nell’ombra, eclissandosi, di fronte al tuo sorriso.
«Vorrei possedere la tua spensieratezza», confessi, quasi senza respirare. Il lieve color porpora che ti bacia le guance è l’ennesima prova che lo pensi davvero, che mi credi veramente sereno – e che maledici la tua sincerità.
«Spensieratezza?» domando, aggrottando le sopracciglia.
«L’esame è domani, ci sono ancora decine di pagine da ripetere, eppure sei tranquillo, non ti lasci prendere dal panico… Hai un dono, Naruto. Vorrei poterti somigliare».
Se mi somigliassi, non ti apprezzerei, Hinata. La tua fortuna è essere il mio esatto opposto, credimi.
«È una calma apparente», e riapro il tuo manuale, strappandotelo dalle dita, perché non posso cedere ora, di fronte a te, e rivelarti quanto la mia imperturbabilità sia solo di facciata.
Tutto questo fingermi forte, sereno, anche con un buco sopra il polmone, là dove qualcosa non sa più battere… e cadere, cadere irrimediabilmente, di fronte a te, calare ogni stupida barriera fortificata in un sorriso e svelare ciò che sono, pur di risentire le palpitazioni.
«Non ce la faccio, Hinata. Non posso andare avanti così», sussurro, senza nemmeno cercare la pagina che eravamo pronti a ripassare.
«Sei stanco? Vuoi uscire?» ti preoccupi, avvicinando una mano verso la mia spalla.
Non è straordinario come il tempo, delle volte, si riavvolga e capovolga i ruoli? Ricordi ancora il nostro maggio in quell’aula?
Io, però, non sono bravo quanto te a mentire, non riesco a dire che sto bene.
«Sì, usciamo».
Quest’esame andrà malissimo, me lo sento, ma che mi boccino pure i professori, purché non sia la vita, stavolta, a rifarlo.
La luminescenza di quei frammenti d’epidermide, nell’aula, è tanto forte da riuscire a mettere a tacere persino il ronzio che il silenzio produce nelle mie orecchie. Scorri l’indice del libro, ma il fruscio della tua mano non mi giunge; sono diventato pure sordo, adesso?
«Lo studio riportato a pagina duecentoventi, dicevi?»
Cerchi di richiamarmi, arrossendo, perché i miei occhi sono ancora fermi sul tuo viso, e sorrido, annuisco, grattandomi la testa. «Scusami, ero sovrappensiero», mi giustifico.
Che discolpa patetica. Può essere definito “sovrappensiero”, il fulcro delle proprie riflessioni, quando è esattamente di fronte a te? Non sarebbe più semplice ammettere la verità, dire che non mi va di studiare, che non sono portato per la geografia e che, invece, esaminerei ben volentieri l’astronomia? Forse, in tal modo, riuscirei a trovare la rotta anche quando mi perdo in quegli occhi che le tue ciglia troppo spesso nascondono, o magari distinguerei delle costellazioni, nelle leggerissime lentiggini che adornano lo scollo della tua camicetta, come una sciarpa appena percepibile, annodatati da Giove – o chissà quale altra divinità – in una vita passata, che non puoi ricordare.
D’un tratto i tuoi palmi premono la copertina del libro, chiudendolo. Un leggero pulviscolo sale, in controluce, per poi danzare e disperdersi discretamente nell’ombra, eclissandosi, di fronte al tuo sorriso.
«Vorrei possedere la tua spensieratezza», confessi, quasi senza respirare. Il lieve color porpora che ti bacia le guance è l’ennesima prova che lo pensi davvero, che mi credi veramente sereno – e che maledici la tua sincerità.
«Spensieratezza?» domando, aggrottando le sopracciglia.
«L’esame è domani, ci sono ancora decine di pagine da ripetere, eppure sei tranquillo, non ti lasci prendere dal panico… Hai un dono, Naruto. Vorrei poterti somigliare».
Se mi somigliassi, non ti apprezzerei, Hinata. La tua fortuna è essere il mio esatto opposto, credimi.
«È una calma apparente», e riapro il tuo manuale, strappandotelo dalle dita, perché non posso cedere ora, di fronte a te, e rivelarti quanto la mia imperturbabilità sia solo di facciata.
Tutto questo fingermi forte, sereno, anche con un buco sopra il polmone, là dove qualcosa non sa più battere… e cadere, cadere irrimediabilmente, di fronte a te, calare ogni stupida barriera fortificata in un sorriso e svelare ciò che sono, pur di risentire le palpitazioni.
«Non ce la faccio, Hinata. Non posso andare avanti così», sussurro, senza nemmeno cercare la pagina che eravamo pronti a ripassare.
«Sei stanco? Vuoi uscire?» ti preoccupi, avvicinando una mano verso la mia spalla.
Non è straordinario come il tempo, delle volte, si riavvolga e capovolga i ruoli? Ricordi ancora il nostro maggio in quell’aula?
Io, però, non sono bravo quanto te a mentire, non riesco a dire che sto bene.
«Sì, usciamo».
Quest’esame andrà malissimo, me lo sento, ma che mi boccino pure i professori, purché non sia la vita, stavolta, a rifarlo.
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Perché un raggio di sole, per quanto possa trafiggere, non farà mai sanguinare.