Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    15/11/2014    6 recensioni
John Watson, scrittore di successo, è un ex militare che si porta dietro un matrimonio fallito e una zoppia psicosomatica. Dopo quattro romanzi, tra cui spicca il best seller: "Blu come la neve", John è tormentato da un blocco che gli impedisce di scrivere. Dopo essersi concesso una vacanza di due settimane a Siviglia, sul treno che lo deve riportare a Londra, incontra uno strano tizio. Un violinista con la passione per le investigazioni, un certo Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Blu come la neve'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Di muri che si abbattono e teschi umani

 

Sta fissando il bastone. Il suo. Quello che ha dimenticato in cabina senza accorgersene. Quello nero e con delle fiamme rosse e gialle disegnate alla base, in una copia esatta di quel che portava il Dottor House nella celebre serie tv. John lo sta guardando, intensamente, ma non sono le decorazioni ad interessarlo, né l’oggetto in sé. Ne studia ogni più piccolo dettaglio come se dalla sua osservazione dipendesse la vita sua o quella di Sherlock. Diavolo, si maledice immediatamente dopo, ha pensato ancora quella parola: noi. E gli suona così maledettamente melodiosa se associata all’idea di lui e di quel violinista pazzo. Noi. Un pronome che riteneva di non dover più utilizzare riguardo sé stesso, non dopo la maniera disastrosa con cui è finito il suo matrimonio. Perché prima, noi, significava lui e Mary, sua moglie. Il ricordo di ciò che sono stati lo fa rannicchiare sul divano della cabina. Non sa come i suoi pensieri siano volati sino a lei, ma le immagini della sua ex moglie prendono a inondarlo con prepotenza e non riesce a fare niente per contrastarle. C’è un’idea che lo tormenta, e che lo assilla. Quello che, al momento, considera come il punto fermo della sua vita ed ha a che fare con il concetto che non potrà mai più avere un rapporto anche solo simile a quello che ha avuto con la sua ex. Mary era fantastica e John la amava in ogni aspetto della loro vita di coppia, persino nei tanti piccoli difetti che aveva. Spesso lo rimproverava di essere troppo romantico, ma a lui non importava di apparire sdolcinato. Perché la amava ed era davvero tutto lì. Si erano conosciuti un’estate dalla quale ormai sono passati sette anni. A quel tempo, John militava nell’esercito ed era di stanza in una base su, nel North West quando gli era arrivata la notizia della morte di sua madre. Gli avevano concesso un periodo di licenza di due settimane durante le quali ogni suo vecchio problema gli era di nuovo piombato addosso. Perché mamma non c’era più, suo padre era ancora scappato con un’altra e sua sorella non aveva smesso di essere un’alcolizzata senza speranza. Mary, John la incontrò il giorno del funerale e vederla fu la sua alba. Bellissima e adorabile. Non ricorda perfettamente com’è cominciata fra loro, sa soltanto che iniziarono a parlare e che da allora non hanno mai più smesso. Risate, ricordi, sensazioni e poi c’era il suo sorriso: timido e tenue che illuminava un volto dai toni chiari che s’allargava a dismisura ogni qual volta lui la faceva ridere. John amava la risata di Mary, era il suo sole nei giorni di pioggia. Chiederle di uscire era stato imbarazzante, ma ad un certo punto di quel breve periodo di licenza, John lo aveva ritenuto necessario. Probabilmente sbagliava, ma aveva interpretato l’averla conosciuta al funerale di una persona cara, come uno strano segno del destino e lui sì, volle crederci con tutto sé stesso. Forse non si era trattato di altro se d’una maniera stupida e infantile di accettare la perdita di sua madre, ma a quel tempo John aveva classificato quell’incontro come un miracolo e successivamente, non volle più pensarci. Da quel giorno al funerale quindi, l’impacciata e adorabile Mary Morstan, aveva iniziato a farsi strada nel suo cuore, conquistandolo. Non se n’era innamorato subito, di fatto il loro era stato un inizio lento. In quelle due settimane si erano visti spesso, ma dopo che John era ripartito gli unici contatti che avevano avuto erano avvenuti tramite corrispondenza. Sì, si dice adesso, annuendo vistosamente, la loro era stata una bella storia d’amore, culminata con uno stupendo matrimonio celebrato al Kensington Gardens. A quello seguì un periodo di felicità e di assestamenti vari. In quel periodo infatti, il maggiore Watson faceva avanti e indietro dalla base militare in cui era ancora di stanza. Erano lontani, ma felici. Il declino iniziò dopo qualche anno, quando John fece ritorno dall’Afghanistan. Colpa sua, colpa di Mary… che importa oramai? Si è lasciato alle spalle le accuse, le litigate e solo adesso può affermare che semplicemente la loro non era una favola. La guerra si è di messa in mezzo al loro splendido rapporto a due e nessuno è riuscito a parare i colpi. La sola che sembrava aver voglia di lottare era Mary, ma alla fine anche lei cedette, sconfitta. Per quanto forte il loro amore fosse o tenace potesse essere sua moglie, i campi di battaglia e l’orrore di quelle morti tragiche erano un nemico troppo ostico persino per un amore grande e potente.   
“Un giorno ti racconterò” diceva John. “Se solo sapessi cosa ho visto” le rinfacciava. “Tu non mi ami per davvero o non mi chiederesti di parlartene.” Cristo, che bastardo che era stato!

Ma oramai è inutile pensarci, si ripete per l’ennesima volta: è trascorso tanto tempo e può dire d’averci messo una pietra sopra. Inevitabile però, adesso lo sguardo gli cade di nuovo sul bastone, dimenticato. Non si capisce, John, non riesce a comprendere come tutto quello sia possibile. Lo usa da così tanto tempo… dopo le prime settimane trascorse in ospedale ed esser stato finalmente rimpatriato in Inghilterra, era stato costretto dai fisioterapisti ad alzarsi dal letto, in quell’occasione il bastone gli era stato decisamente utile.
“Tieni questo, ti servirà per camminare i primi tempi” gli aveva detto sua moglie, stirando un sorriso gentile, sicura e felice d’essere stata d’aiuto. Ciò che nessuno aveva capito, né Mary e neanche Ella, la psicologia, era che in quel bastone, John Watson ci aveva messo tutta la guerra. Aveva nascosto dentro quell’oggetto ogni notte trascorsa in bianco e al riparo sotto una tenda, mentre fuori imperversavano tempeste di sabbia. Aveva gettato l’anima dei compagni perduti ed anche quella di ogni Afghano che era morto a causa di un colpo di fucile sparato da lui. John è sempre stato dipendente dal suo bastone, al punto da lasciarlo accanto al letto per ogni evenienza. Neanche per casa camminava senza ed era stato convinto del fatto che se lo sarebbe portato fino alla tomba. Adesso sa che non era vero, perché a quanto pare gli è stato sufficiente correre dietro ad un pazzo con i capelli ricci, che tutto gli passasse in meno di uno schiocco di dita. È quindi sempre stato tutto nella sua testa? No, solo le paure e i timori perché la spalla gli fa male ancora quando piove, mentre i ricordi lo tormentano la notte. Ciò che gli è successo è reale, non frutto dei suoi incubi o almeno lo è stato. Sherlock ha cambiato ogni cosa. Ha distrutto persino il muro di certezze che John tanto ha faticato ad erigere, e non ha idea di come ci sia riuscito. Ciò che lo sconvolge è il divario che c’è tra Mary e con lei tutte le persone che gli sono sempre state accanto, e Sherlock. Probabilmente è ingiusto paragonare un uomo che conosce appena, con coloro che gli sono più cari, ma il confronto è inevitabile. Durante la convalescenza, sua moglie lo aveva accudito con amore, gli era stata accanto giorno dopo giorno, paziente, amorevole, infinitamente dolce. Non si poteva non adorarla. Eppure, John si era lasciato andare lo stesso, al punto da smettere di volerle bene e di volerne a sé stesso. In quel periodo odiava tutto e tutti, detestava la gentilezza e toni accomodanti. Non sopportava sua sorella che gli prometteva di andare in riabilitazione e di smettere di bere, e che lo avrebbe fatto per lui. Odiava i sorrisi finti del suo amico Mike che gli diceva che sì, avrebbe portato il suo romanzo ad un amico editore, e non sarebbe stato un disturbo perché lo faceva per lui. Con la sua terapista neanche ci parlava, anche se lei faceva di tutto per instillargli fiducia. Niente era mai servito davvero e, anzi, la sua zoppia non se n’era andata e adesso è persino incapace di scrivere. Bloccato e senza più idee. No, con Sherlock è totalmente diverso. Lui non è carino, né paziente o dolce, ma dice le cose come stanno e non gli importa di ferire i suoi sentimenti. Ad esempio, gli ha sbattuto in faccia che odia i suoi romanzi e che è troppo sentimentale, non ha fatto altro che dare dell’idiota e dello stupido a tutti quanti, ha detto che non è intelligente quanto lui e che è inutile che si sforzi a pensare. Sherlock è brutale, è drasticamente sincero, è… uno stronzo su tutta la linea, ma lo attrae con così tanta prepotenza che John ne è stordito. Seguirlo è naturale, così come starlo a sentire mentre blatera di chissà che cosa, persino guardarlo pensare è affascinante. E si sono persino baciati, anche se riguardo a questo, non sa se esserne felice o avere paura.

Ma di nuovo, inevitabili e malvagi, i suoi pensieri si offuscano e la sua attenzione viene catalizzata dal bastone, che lo fissa, beffardo. Si guardano come se si sfidassero, quasi stesse chiedendo a quell’oggetto inanimato, il motivo di tanta dipendenza. Ora che non lo userà più come farà? Come riuscirà a vivere senza? Troppo preso a guadare la sua prima fisima che se ne va, lasciandolo per sempre, non si rende conto che il treno è fermo e che un lampeggiante dai toni blu e rossi colora la sua cabina buia. Sherlock non è lì e in un lampo di lucidità si domanda se per caso non sia andato a stanare un qualche altro ladro. Si avvicina quindi al finestrino, che abbassa con un piccolo sforzo e prende a guardarsi attorno. Ed allora, fa caso ai tanti passeggeri che si sono sporti a curiosare. Alcuni sembrano infastiditi, altri, al contrario, interessati a quel che sta accadendo.
«Che è successo?» domanda, rivolgendosi ad un vicino.
«Non so, ma mi è sembrato di sentir parlare di furto.»
«Furto?»
«Pare di gioielli» lo informa e mentre questi continua a chiacchierare, John non lo ascolta più. Perché immediato e inevitabile, un timido sorriso si fa largo tra le sue mille espressioni corrucciate. La felicità che gli si dipinge in volto è poco meno di un barlume, è evanescente: appare e scompare, ma lui la percepisce lo stesso e per questo s’affretta a nasconderla. Nessuno la deve vedere e dopo aver mormorato un grazie di fretta, richiude il finestrino lasciandosi cadere sul divanetto. Non sa quanto ancora ci vorrà prima che ripartano, ma improvvisamente è come se non lo volesse affatto. Desidera soltanto rivedere Sherlock e, stupidamente, spera che il tempo si fermi e che rimangano solamente loro due, insieme. Non sa cosa ha intenzione di dirgli, ma al momento non vuole parlare del futuro, sa solo quel che sta desiderando adesso e che ogni suo pensiero ha a che vedere con Sherlock. Lo deve baciare, lo vuole baciare, anche se forse sarebbe meglio evitarlo, ma almeno lo deve ringraziare per il miracolo che ha compiuto. Lo deve fare o rischia di impazzire. Andare in giro a cercarlo sarebbe inutile visto che potrebbe essere ovunque, pertanto si rannicchia sui sedili e lascia che sia il buio a cullarlo. E lo aspetta. Attende il suo ritorno come se non avesse fatto altro per tutta la vita, come se fosse normale per lui attendere che Sherlock ritorni da lui. Chiude gli occhi, appoggia la testa sulle ginocchia inspirando lentamente. Si sente al sicuro e sa che se anche entrasse, non potrebbe notare il turbamento che lo sta cogliendo e che ha a che fare proprio con ciò che hanno fatto. Anche se l’oscurità nella quale si sta nascondendo viene di continuo spezzata dalle luci che provengono dal di fuori, non gli importa, perché è comunque insufficiente. Non ha tirato le tende e quindi può scorgere tutto di questa notte spagnola, ma anche un po’ francese (perché non ha idea di dove si trovino). Ci sono solo campagne al di fuori, una spianata di terra brulla che pare infinita. In lontananza riesce ad intravedere lo skyline di una città che non sa quale possa essere e che spezza la vista di quel paesaggio tutto tetramente uguale. È buio ed è inquietante, ma in un perfetto paradosso ogni cosa è splendida.
«Ciao.» La voce profonda di Sherlock lo riscuote, anzi lo spaventa e John si ritrova senza volerlo, a sussultare. Si porta addirittura una mano al petto e poi solleva lo sguardo. Lui, il violinista che ama fare il detective, se ne sta appoggiato alla porta ora chiusa. Anche se non riesce a scorgerne i tratti del viso, è dal tono di voce, che afferra la tensione e l’imbarazzo che impregnano la stanza, rendendo la tensione pesante da sopportare. Sono troppe le cose non dette e troppo poco il tempo da cui si conoscono. John non sa praticamente nulla di quell’uomo. Non ha idea se il bacio gli abbia fatto schifo oppure se gli sia piaciuto; se l’idea di averlo guarito da una zoppia psicosomatica lo lasci o meno indifferente. John Watson non sa niente di niente, se non che sollevare il volto fino a poterlo guardare negli occhi, è terribilmente difficile.
«Ciao» risponde, dopo svariati istanti di odioso silenzio, mettendosi seduto per bene e tentando di celare il proprio turbamento emotivo. Anche se lo conosce abbastanza bene da sapere che è difficile qualcosa gli sfugga.
«Sono stato dal capotreno» dice Sherlock, adesso impercettibilmente più vicino.
«Ho visto.»
«Quindi ora è tutto a posto: è agli arresti.»
«Perfetto» risponde John, tossicchiando per l’imbarazzo e mentre tenta in tutte le maniere di non incrociare i suoi espressivi occhi azzurri. Non riesce a non chiedersi se trascorreranno in questo modo la serata ed è allora che inizia ad avallare l’idea di mettersi a dormire, così salvare quel poco di dignità che gli rimane.  
«Credevo dormissi.»
«Non ho sonno» si giustifica «di solito fatico ad addormentarmi» confessa anche se, è vero, non ha idea del perché gli riesca tanto semplice il confidarsi con lui. Se pensa che ha impiegato due mesi prima di riuscire a dire la prima parola alla psicologa che lo seguiva, come mai proprio con un tizio che non conosce riesce ad aprirsi tanto e a raccontare cose di sé che non ha mai rivelato a nessuno? Possibile che sia speciale fino a questo punto e che riesca a rassicurarlo tanto, quando neanche Mary era in grado di dargli un senso di stabilità? I fatti dovrebbero parlare chiaro, ma l’occhio che ancora gli cade sul bastone abbandonato gli impedisce di crederci sino in fondo.
«Incubi sulla guerra?» domanda Sherlock, il quale lo sta ora osservando con fare torvo. Il violinista però scuote la testa, come se sapesse d’aver chiesto un’ovvietà e poi si leva la giacca gettandola malamente su uno dei letti. John è in ogni caso troppo allibito per poter pensare a qualcosa che sia ragionevole, dato che più ha a che fare con quel tizio e più si sente confuso.
«Come hai… no, lascia perdere. Sei incredibile, lo sai?» conclude, stirando un sorriso ed è infastidito da sé stesso mentre tira le labbra in quel modo e finge divertimento. Perché non gli viene affatto da ridere, anzi, è profondamente confuso da ciò che sta accadendo. Non sa come mai non sia in grado di ragionare in maniera lucida, ma non ha idea come fare per mettersi l’anima in pace ed accettare l’idea che Sherlock il violinista ha cambiato, ha irrimediabilmente cambiato, la sua vita.
«Questa è la seconda volta che mi fai un complimento del genere, lo pensi davvero?» Assurdo è che sembra proprio stupito nel chiederglielo, o forse tremendamente curioso? John non sa decidere, magari non lo conosce a sufficienza dal cogliere tutte le sue poliedriche espressioni. Quale dei due sentimenti trapeli maggiormente da Sherlock, è quindi impossibile da dire. Ciò che si chiede però è se non è forse la sua sincerità in proposito non era poi tanto ovvia come pensava, magari è perché si è troppo abituato a mentire che neanche lui riesce a fare delle distinzioni che siano nette. Eppure, dal tono che Sherlock ha utilizzato e dalla sua faccia stupita, potrebbe quasi sembrare che quella sia la prima volta che… no, non può essere che nessuno prima gli abbia mai fatto notare quanto geniale fosse. È impossibile.
«Se dico che sei brillante mi pare quasi di offenderti, Sherlock, tu sei geniale. Sei l’uomo più incredibile che io abbia mai conosciuto. Le cose che mi hai detto, ciò che hai capito di me… hai colto dettagli e lati del mio carattere che io stesso negavo d’avere. Tralasciando il fatto che hai una memoria eidetica e che per passare il tempo vai a caccia di criminali, naturalmente. Non so da dove tu provenga, ma tutto questo non è normale.»
«Lo so, me lo hanno detto spesso» annuisce Sherlock, sconfitto e anche lievemente affranto.
«Lo credo! Perché è strabiliante, tu sei strabiliante e anche le cose che dici lo sono e quello che fai. Mi meraviglia che tu sia stupito nel sentirmelo dire, sembri sconvolto.» Tra loro cala uno strano silenzio, Sherlock pare faticare a trovare le parole più adatte e John, dal canto suo, si limita a stirare un sorriso rassicurante. Non sa quanto possa essere d’aiuto, ma è certo che dargli un po’ di fiducia non sia poi tanto una cattiva idea.
«Solo…» gli risponde questi, dopo svariati attimi, prima si fermarsi e incepparsi nelle sue stesse parole. Più che imbarazzato, ora pare in difficoltà. «È che di solito mi mandano al diavolo.»
«Intendi le persone?» chiede, in rimando, giusto per capire che razza di discorso stiano facendo.
«Sì, ecco, la gente non ama che gli si dica la verità.»
«L’hai detto tu stesso» lo interrompe subito e questa volta il sorriso che gli si apre sul volto e sincero e vero. «Le persone sono idiote e tutti dovrebbero rendersi conto di quanto sei intelligente. Accidenti mi hai persino detto cos’ho mangiato oggi per pranzo!»
«Beh, su quello ho barato» confessa e lì, si rende conto di star sogghignando e di essere decisamente divertito. «Ho tirato a caso, basandomi su ragionamenti logici sì, ma ho detto la prima cosa che mi è passata per la mente.» Le sue giustificazioni muoiono, dopo che John scoppia in una fragorosa e sonora risata. E lui che aveva quasi pensato che fosse una sorta di veggente o una specie di mago, perché davvero non era possibile dedurre un dettaglio simile. Ma John non ci pensa e ride, si lascia andare fino a che non sente gli occhi lacrimare e la risata si disfa in un mormorio indistinto. Non sente più niente, se non alla risata di Sherlock che è altrettanto sonora e altrettanto bella e vera, altrettanto viva. Da quanto tempo non si divertiva così? Un periodo decisamente eccessivo. Da Mary, di sicuro. Da… Il pensiero lo paralizza, letteralmente. Smette di ridere e anche di far caso al suo compagno di stanza che, nel frattempo, si è seduto a terra rannicchiandosi su sé stesso. Accantona la parola amore, perché non è logica e soprattutto perché si conosce molto bene e sa che l’amore è tutt’altra cosa, è una faccenda complessa e che si costruisce giorno dopo giorno. Però non deve negare che è affascinato da quell’uomo, ne è attratto e non solo: sembra avere su di lui una certa influenza, è come se potesse fare qualsiasi cosa per Sherlock persino le più improbabili. Anche se, in effetti, già ne ha commesse di assurdità; fargli da palo mentre scassinava la serratura di una cambusa di un treno, non è già di per sé la cosa più ridicola che abbia mai fatto? Baciarlo non è stato imprevisto? No, più che imprevisto, è stato terribile perché se c’è una cosa che la sua esperienza di soldato gli ha insegnato, è che non si deve cedere agli istinti. Non è solo per via del ladro che lo ha baciato e non è tutto, ma Watson ancora adesso sta assecondando le sue pulsioni. Deve mettere distanza tra di loro e iniziare con il fare ammenda gli pare un buon primo passo.
«Io devo scusarmi con te, Sherlock» esordisce, tentando in tutti i modi di non mantenere un tono malfermo. «Baciarti è stata una pessima idea e non avrei dovuto azzardarmi e, sul serio, voglio che tu sappia che non lo avrei fatto se non fosse stato per la situazione. Ma sono stato un soldato e so che un potenziale nemico può diventare imprevedibile in situazioni in cui si sente minacciato. Non era mia intenzione metterti in imbarazzo o approfittarmi di te. Quindi se te lo stai chiedendo, no, non era niente per me.» Non ha idea di come gli sia uscita, spera soltanto di non esser sembrato eccessivamente patetico. D’altra parte, di sé stesso, John non conosce più nulla e si sente troppo diverso da come è sempre stato, per potere avere anche solo una vaga idea di quale effetto faccia sugli altri.
«Non potresti approfittarti di nessuno, John Watson, di questo ne sono certo» mormora Sherlock, abbassando il volto ed evitando accuratamente di guardarlo negli occhi. «E poi sei stato molto… intendo, hai fatto bene a… e quella cosa era… buona!»
«Quindi l’incidente è chiuso?» chiede, dubbioso.
«Certo, certo» s’affretta a rispondergli e poi, il silenzio di nuovo cala tra loro.

John si stiracchia appena e porta lo sguardo fuori, facendo caso al fatto che il treno è ripartito e che adesso viaggia svelto sulle rotaie. Pare inarrestabile nella sua corsa, così come i suoi pensieri, sempre più assurdi, sempre più insensati, sempre più incentrati sul violinista detective e che non fanno che ricordargli quanto desiderabili siano le sue labbra. Pare, in fondo, che null’altro gli importi quanto la sua bocca.
«Hai fatto la cosa giusta, consegnando il ladro» dice, insistendo a guardare fuori mentre tenta, ancora, di sedare la sua stramba libido cacciando tutti i lascivi pensieri da dove sono venuti. Tuttavia, Sherlock pare non voler ribattere e infatti fa cadere la discussione in un vuoto silenzio. John dal canto suo ne è stranito, perché reputa atipico il sentirlo parlare poco ed è appunto per sedare quella curiosità (che no, non è per niente morbosa), che riporta lo sguardo su di lui. Forse non lo ha sentito o magari non ha voglia di rispondergli. Fin dal principio gli è parso un uomo che non sta ad ascoltare la gente, per lui sono tutti degli idioti senza cervello. Appare come una di quelle persone che non darebbe retta neanche a sua madre, tanto per dirne una. Quindi si interroga a fondo circa il motivo di quel mutismo ed alla fine lo classifica il tutto come semplice stanchezza. D’altra parte è già passata la mezzanotte e magari si è addormentato visto che tiene gli occhi chiusi è plausibilissimo. Ciò che non vede, che ignora e che mai saprà, perché le tenebre sono davvero eccessive, è che un rossore diffuso sta tingendo le guance di Sherlock Holmes. Si tratta di un colorito vivo che sale su fino alle orecchie e che mostra tutto il suo imbarazzo e la vergogna. È per questo che non parla: non vorrebbe fare la figura di colui che balbetta indegnamente. Sherlock nelle ultime ore non si sta affatto fidando di sé stesso o della sua voce, che gli uscirebbe incredibilmente roca se parlasse. Semplicemente ritiene che stare zitto sia la soluzione migliore, sperando segretamente che a quello scrittore passi presto la voglia di chiacchierare di queste cose. Ma John non sa nulla ed occorrerà ancora molta strada perché venga a sapere che quella era la prima volta che Sherlock Holmes dava retta qualcuno. Tutto ciò che scorge è un uomo forse già nel mondo dei sogni, che ad un tratto e senza spiegazioni o un motivo apparente, scatta in piedi, accende la luce e cammina a grandi falcate verso il letto.
«Non credo che tu posa suonare» lo informa John, vedendolo rovistare nella custodia del violino.
«Voglio presentarti un amico» si sente rispondere, prima che questi si volti ed accenda la luce.
«Che razza di amici hai che tieni nella custodia di uno strumento musicale?»
«Billy sta nel palmo di una mano.» E non sa perché, ma per istinto si figura un animaletto di piccole dimensioni. Qualcosa di simile ad un geco o a una tartaruga, qualcosa di piuttosto piccolo e che non abbia bisogno di particolari cure. Alla fine opta per una lucertola, perché gli pare la più adatta ad un uomo del genere; anche se nel frattempo si chiede quale uomo terrebbe un animale nella custodia di un violino. Poco dopo però è Sherlock a porre fine ai suoi dubbi, voltandosi e mostrandogli un teschio.
«È vero» esordisce.
«Ah, John, il tuo solito difetto di constatare l’ovvio… certo che è vero!»
«Vuoi dire che è vero, vero? Nel senso, non come uno di quelli che a scuola ci sono nell’aula di scienze e tu e i tuoi compagni giocate a metterlo nelle più svariate e sconce posizioni, giusto? Quello è sul serio un teschio umano?»
«Il suo nome è Billy ed è il mio più ascoltatore più attento, possiamo dire che è un amico. E quando dico amico…» Le labbra di John si stirano, ma questa volta è una risata nervosa e decisamente molto poco divertita.
«Lo puoi prendere» lo invita Sherlock porgendoglielo mentre si ritrova a chiedersi se stia facendo sul serio e se debba, non so, presentarsi? Allunga la mano e sta per toccarlo quando subito si ritrae, va bene che è stato in guerra dove ne ha viste di ogni, ma questo è comunque eccessivo.
«No, non credo che lo farò, mi fa un po’ senso» ammette, nervoso.
«Beh, io lo lascio qui nel caso ti venga voglia di fare amicizia.»
«Non puoi dire sul serio, Sherlock, consideri questo coso orrendo come un amico?»
«L’unico che io abbia avuto, per la precisione.»
«Non è possibile! Una persona come te non può essere… sola» mormora John. Forse ha esagerato, si rende conto poco dopo, anzi è sicuro d’averlo fatto perché Sherlock si è irrigidito.
«Eppure è così» mormora e questa volta il mutismo nel quale cade è definitivo e non sembra più voler parlare. Sa di aver detto qualcosa di sbagliato e si sente in colpa perché lui lo ha aiutato tanto e invece John non gli ha dato altro che fastidio. Quindi maledice, proprio mentre Sherlock spegne la luce e poi si lascia andare sul divano fino a distendersi completamente, e chiude gli occhi.
 

 
***


Non ha idea di che ore siano, ma fuori è ancora buio e dopo che s’è messo a sedere, si rende conto che Sherlock è ancora a terra, nella stessa identica posizione di quando si è addormentato. Sono le tre e mezza del mattino. È in dubbio sull’andare o meno a letto quando lo sguardo gli cade su Sherlock, ed allora capisce di non poter perdere tempo a dormire. Domattina arriveranno a Londra e dovranno dirsi addio e perciò non vuole perdersi un solo istante di quella nuova e strabiliante avventura, quindi si rilassa contro i cuscini del divano e sospira. È fermamente deciso a proseguire la strana discussione che hanno avuto fino a qualche ora fa. Assecondare la sua capacità di aprirsi con uno sconosciuto gli pare la cosa più giusta, anche se una parte di lui continua a crederlo ai limiti del surreale. Sa anche da dove iniziare a parlargli. C’è infatti un argomento, tra quelli toccati ore ed ore prima, che non può non approfondire.
«Avevi ragione» esordisce; è poco più di un sussurro il suo, ma Sherlock sente ugualmente. Sorride, John, quando nota che adesso ha aperto un occhio e lo studia, curioso. «I miei romanzi sono sdolcinati e irrealistici, tu sei il primo a dirmelo. Credo, anzi sono sicuro, che per la mia carriera di scrittore mi sia stato più utile tu stasera, che i miei editori in anni di collaborazione. E voglio dirti un’altra cosa, qualcosa di cui mi vergogno profondamente, ma che devo dire a te perché è strana questa sensazione di confidenza che ho nei tuoi confronti. Non sono abituato a sentirmi così, ma so che mi posso fidare e sappi che per me non è usuale, non mi abituo facilmente alle persone.» Si ferma un momento, per schiarirsi la voce e subito riprende. «Sai, tra chi scrive sono uso comune affermazioni del genere: “tutti i miei libri sono come dei figli” o cose del tipo “li amo e non faccio distinzioni”. Devo essere un mostro di quelli della peggior specie, perché io i miei libri li odio. Soltanto “Blu come la neve” mi ha soddisfatto davvero, solo lui amo come fosse mio figlio. Gli altri li detesto, non mi appartengo e sono il frutto del mio stupido idealismo; e a che cosa mi ha portato? A divorziare e a camminare con un bastone, ecco a cosa! Il primo però fu diverso: a quel tempo ero sincero e ci ho messo tutto me stesso. Allo stesso tempo però mi dico che è come se non contasse più. L’ho scritto mentre ero in guerra ed ero, beh, tutto un altro uomo. Adesso non riuscirei a scrivere un libro del genere, sono troppo cambiato e come se non bastasse ora ho questo dannato blocco… sono mesi che ci provo, Sherlock, mesi che mento a tutti dicendo che ci sto lavorando quando in realtà non riesco a scrivere una riga. Questa è la sola cosa che so fare a parte uccidere le persone, e anche come soldato adesso non valgo più nulla dato che non sono neanche in grado di imbracciare uno stupido fucile. Cosa farò se non dovessi più riuscire a… No, non devi rispondermi, non lo sto chiedendo a te. Solo, è liberatorio poterlo dire a qualcuno che non mi dia una pacca sulla spalla e mi dica che è una fase e passerà. Ecco chi è per davvero John Hamish Watson, quanto solo e patetico sia. Non hai fatto un affare ad incontrarmi, non lo hai fatto per niente.» Appena conclude la voce è ridotta a poco più di un filo, ha parlato davvero tanto ed è stato più che altro un fiume in piena. Non ricorda quanto tempo sia passato dall’ultima volta che ha pronunciato tante parole di seguito, forse neanche dalla terapista si lasciava tanto andare. Non ne è pentito e come potrebbe? Ha detto la verità. Anche se ora Sherlock lo guarda occhi grandi e sgranati, ammutolito. Magari lo sta prendendo per un pazzo o più probabilmente lo sta compatendo, ma è la confessione più liberatoria che abbia mai fatto in vita sua ed ora che finalmente lo ha detto a qualcuno, si sente bene. Sì, è incredibile e infinitamente irrealistico, eppure è merito di Sherlock, è solo merito suo. Si lascia andare, John, fino a cadere in uno stato di completa rilassatezza. Si fa cadere tra i cuscini del divano sul quale è ancora sdraiato e poco prima che si riaddormenti di nuovo, glielo dice, quello che non ha fatto altro che ripetere fino adesso che non gli pare ancora abbastanza.
«Grazie, Sherlock.» Dopodiché, si addormenta.


 
***



È il fischio di un treno a svegliarlo di soprassalto. John apre gli occhi di scatto e la prima cosa che gli viene istintivo fare, è portarsi una mano al viso. C’è troppa luce in quella stanza. Prova a mettersi a sedere, ma il dolore al collo è lancinante e sì, si deve ricordare che non deve più addormentarsi in luoghi che non siano un letto morbido. D’altra parte ha già un’età e… diavolo chi vuole prendere in giro, ha più acciacchi lui di un novantenne! Quando finalmente riesce ad abituarsi a tanta luce e a tirarsi in piedi, si rende conto che il treno è fermo. E no, Sherlock non c’è. È la prima cosa che gli salta agli occhi, seguita all’assenza del violino sul letto e del suo bagaglio che era a fianco del letto. Tutto ciò che spicca, a parte la valigia, è il teschio posato a terra accanto a lui e dal quale spunta un bigliettino arrotolato in una delle orbite oculari. Sherlock è sparito. E lui che gli voleva dire ancora così tante cose, che almeno avrebbe voluto salutarlo. No. Si deve prima di tutto calmare e non farsi prendere dal panico. Perché di sicuro non è finito dall’altra parte del mondo. Dove diavolo potrebbe essere se non a Londra? Il treno non faceva fermate. E Billy a terra gli suggerisce che non è stato soltanto un sogno, che non si è immaginato niente della notte appena trascorsa. C’è il treno, c’è il teschio e il suo bastone abbandonato dietro la porta. Quindi è stato reale e ciò è positivo perché significa che niente è finito e che, se vuole, lo può rivedere. Sherlock può essere soltanto a Londra, si ripete convincendosi, che fa milioni di abitanti quello sì, ma almeno è un punto di partenza. E poi chissà, pensa, magari in quel foglio è scritto il suo numero di telefono. Si china e raccoglie il teschio, potrebbe essere decisamente inquietante se non fosse che in parte è incazzato nero con quello stupido violinista. Sperava almeno che ciò che avevano condiviso avesse contato qualcosa, che si salutassero a voce e non con uno stupido post-it. Tuttavia, e nonostante la rabbia, s’affretta ad aprirlo:

Devo essere a Parigi per il concerto e grazie a quel grassone di mio fratello e ai suoi “amici” riesco a scendere prima. Tu dormivi e non ho voluto svegliarti.
Ps. Non dimenticare Billy sul treno! SH 


Ha il foglio ancora tra le mani, che tremano vistosamente, quando qualcosa scatta nella testa di John Hamish Watson, ex soldato ex marito di Mary Morstan e scrittore di successo. È un impulso irrefrenabile che divampa in lui, così come la voglia di vederlo di nuovo, magari per un’ultima volta. Anche se è sciocco e infantile, deve ritrovarlo prima di tornare a casa. Quindi andrà a Parigi, si dice. Non parla francese, ma non importa. Non conosce la città, ma esistono le cartine per questo. Si era detto di voler andare dal suo editore quel pomeriggio, ma a rimandare di uno o due giorni non cambia niente. No, John deve andare a Parigi, da Sherlock. Un violinista con una calligrafia orrida, che si firma con una sigla, che è stronzo, irritante e che ama correre via all’improvviso e senza dare preavvisi di sorta. Non sa cosa farà nel momento in cui se lo troverà di fronte, ma ha tutto il giorno per inventarsi un qualcosa da dire, ora non importa. Adesso conta solo lui e la sua ritrovata vitalità. C’è però un dettaglio di cui non si rende conto perché è eccessivamente preso dalla frenesia del momento e dall’emotività della situazione, non si accorge che già da ieri sera, una frase gli gira in testa. Delle parole gli vorticano in mente e s’ingrassano fino a divenire qualcosa di più consistente. Perché un’altra fisima sta per saltare, ma John Watson ancora non lo sa. Così come non riflette sul fatto che Sherlock ha voluto lasciare a lui il suo unico amico. Ci penserà, in futuro, ma non adesso perché ora deve solo correre.


Continua
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__